Una sfida agli asintoti
Nel suo intervento in calce all’edizione italiana di All’asinello sordo, Davide Ferrari, curatore e traduttore del volume insieme a Jurga Po Alessi, paragona la poesia di Kajokas alla neve, e aggiunge che leggere i suoi versi merita la stessa disposizione a cui ci abbandoniamo nell’osservarla, quella neve: stupore e meraviglia.
Seguendo questo pensiero, che cattura in estrema sintesi l’essenza della raccolta, ci si accorge di quanta libertà inventiva pervada i testi di Kajokas. Come la neve copre ogni cosa sotto il suo manto e a poco a poco sottrae allo sguardo gli oggetti e il paesaggio, così il poeta, strato dopo strato, lavora di pomice tutti i suoi strumenti, li leviga, li affina, li rende leggeri e diafani, e ormai inconsistenti ce li nasconde: i significanti, i significati, la sintassi, la morfologia… Ma anche la pagina stessa, nella sua accezione materica, ne concorre: non solo offre lo spazio per il leggibile, ma in alcuni casi lo sommerge con il suo biancore.
È qui che inizia un tessuto di rimandi interni, segreti, celati appena sotto la superficie. Mi riferisco a un gioco in virtù di levare che ricorda il Calvino delle Lezioni americane: «La mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso»; o il Buonarroti, che quattro secoli prima, in una lettera all’indirizzo di messer Benedetto Varchi, già affermava: «Io intendo scultura, quella che si fa per forza di levare»; o l’Haydn della Sinfonia degli addii, nel cui adagio finale a uno a uno gli strumenti tacciono, finché anche l’ultimo rivolo sonoro – il timbro dei violini – si disperde; o ancora il Giovanni Raboni delle Canzonette mortali, che, ispirate proprio alla musica di Haydn, cedono un verso a ogni strofa, fino ad arrivare all’ultimo, solitario, e infine al bianco della pagina vuota. Allo stesso modo, Kajokas polisce la lingua, ne rimuove a poco a poco gli strati più superficiali: così scompaiono le iniziali maiuscole e gran parte dell’interpunzione, la sintassi allenta le briglie, fino a che persino la parola viene meno. Un processo compositivo in certa misura accostabile a quello dello haiku (che, per chi se lo fosse perso, abbiamo visto in dettaglio in (non)Senso e fantasmagorie, Paesaggi alieni e L’effimero e l’eterno), così lontano dalla stratificazione del senso tipica della poesia occidentale, e che procede per rimozione delle sovrastrutture per poi fissare la pagina con versi minimi, immediati e al tempo stesso eternamente contemplativi, privi di architetture concettuali e quindi sfuggenti a ogni tentativo di analisi:
雪にとられて
何もなし
yuki ni torarete
nani mo nashi
rubati alla neve
non c’è più nulla
[Naito Jōsō]
Dunque, nei tre scoprimenti della poesia cento sorbi si arrossano al vento, sotto la neve, nel paesaggio imbiancato della pagina (o della Lituania), la parola scompare. Ultime vestigia della sua presenza, pochi stralci di versi, qua e là, fino al silenzio:
….. …….. ……….. …..
. …… .. …. … ….. …..,
.. . ….., ……, … ….
……… i sorbi
[p. 89]
E più avanti:
. …… …….., …… …….,
aspettarono finché arrivò
.. …….
. …………. … ….. ……., – …….. . …..
. .. … .. ……. . …….. .. .. ….,
.. ………..
[p. 157]
E ancora:
. …… …….., …… …….,
……….. …… ……
.. …….
. …………. … ….. ……., – …….. . …..
. .. … .. ……. . …….. .. .. ….,
.. ………..
[p. 241]
I versi taciuti sono in realtà presenti nella raccolta, in altra sede, e il loro silenzio ovattato è in qualche modo ricomponibile in forma di parola, attraverso una lettura attenta, un buono spirito di osservazione e una disposizione al piacere per il gioco di indagine, che lascerò al lettore.
Dal confronto con Davide Ferrari, che su Kajokas ha una prospettiva più profonda e complessa, è emerso un altro aspetto fondante di questa raccolta: se il primo è la neve, il secondo è senza dubbio la tenerezza. Mentre sedevamo, un sera, davanti a una pinta di birra, a un tavolino del Broletto di Pavia, Davide ha citato a memoria questi versi, come esempio della tenerezza che muove dalla poesia di Kajokas:
la solitudine è bella
finché non diventa
un po’
più profonda
di una fossetta
sul cuscino
La ricordavo, e ricordavo anche il piacere agrodolce che mi ha suscitato alla prima lettura, forse acuito dai marcati rientri dei versi centrali, che rendono il testo graficamente simile alla fossetta tiepida di cui si parla.
È tipico della buona poesia raggiungere la persona che abita in noi, al netto di tutte le sovrastrutture che contribuiscono a definirci (gusti, mode, inclinazioni, contingenze, simpatie, idiosincrasie…). Tipico della buona poesia è parlare alla nostra radice comune, a qualcosa che precede la soggettività e in cui ci riconosciamo al di là di ogni bandiera: la ricerca della felicità, per esempio, o la fuga dalla solitudine, quella esistenziale, che ci fa sentire di non appartenere a niente, né ai luoghi, né al tempo. Ma la tenerezza di Kajokas è anche nella parola gentile, nel garbo e nella nostalgia con cui coglie a volte quasi di sorpresa la sua Lituania:
dondola blu verde
la barca della luna nuova
sopra una collina e una casetta
dorata di fuoco
più avanti – la curva di una strada
e su quella strada per le praterie
un pochino felice
l’uomo si allontana verso nord
[p. 97]
Ho letto All’asinello sordo quattro volte. Mentre scrivevo questo pezzo, l’ho riletto una quinta, e già sapevo che non sarebbe stato abbastanza per scoprire cos’altro abbia da offrire. In queste poche righe non ho approfondito tanti altri aspetti di questa raccolta che meritano quantomeno una menzione, se non una penna più preparata della mia: l’amore di Kajokas per la letteratura delle propria terra; l’amore per la fiaba e per il fiabesco; la profonda tensione verso la spiritualità, che abbraccia la cultura cristiana, biblica, e quella buddhista. Ma anche l’allegria e la leggerezza con cui l’autore affronta l’aspetto tecnico della parola, creando effetti di spaesamento che divertono e lasciano la sensazione che il primo a essersi divertito sia stato proprio il poeta. Come in uno è un numero due, dove la sintassi vira bruscamente, asseconda il tornante del verso e lascia indietro uno scampolo di significato, che si afferra soltanto in un secondo momento:
uno è un numero due
è un numero tre è un numero
quattro e tutti gli altri sono numeri
quello invece che viene dopo di loro non è più un numero
vedi asinello, è con esso
che da tutta la vita
conto
le cornacchie
[p. 7]
E così la parola di Kajokas porta con sé l’enigma del saper dire quasi tacendo, ma senza esaurirsi mai; enigma forse connaturato alla poesia stessa e alla cui soluzione tanto l’autore quanto il lettore possono avvicinarsi soltanto per approssimazione, come in una sfida agli asintoti; tentare di coglierlo attraverso scarti logici, retorici e semantici, ritmi distesi o percussivi, cortocircuiti tra immagini e referenti; insomma, attraverso giochi di specchi sul velo abbacinante della neve.