Prima di cominciare
Questo è il terzo di quattro appuntamenti sulla storia e sull’evoluzione della poesia haiku.
Se non l’hai ancora fatto, ti invito a recuperare i primi due ai seguenti link:
Hiaku – Anatomia di un genere #1 – (non)Senso e fantasmagorie
Haiku – Anatomia di un genere #2 – Paesaggi alieni
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L’effimero e l’eterno
老いの仲間ぞ
秋の暮
oino nakama zo
aki no kure
sono vecchi amici
crepuscolo d’autunno
(Kobayashi Issa)
Fin dai tempi delle kusari renga (di cui potete recuperare qualche nozione qui) è consuetudine inserire all’interno di uno haiku un riferimento più o meno diretto a una stagione dell’anno, che spesso – ma non di necessità – corrisponde al momento in cui viene composta e scritta la poesia. Fino alle soglie del XX secolo questo elemento è stato definito ki no kotoba (季の言葉), “parola stagionale”, e successivamente, mantenendo identico significato, kigo (季語).
Nel corso del tempo l’uso del kigo si consolida, passando da maniera diffusa ma in fondo discrezionale a vero e proprio principio estetico-contenutistico della poesia haiku, tanto che anche al giorno d’oggi non è considerabile haiku un testo che, pur rispettando gli altri numerosi crismi compositivi, manchi del kigo.
Un primo esempio molto chiaro di questo principio si riscontra nello haiku di apertura di questo articolo, il cui kigo, si intuisce facilmente, è rappresentato dal verso finale
秋の暮 – aki no kure – crepuscolo [o sera] d’autunno
In questo haiku, come in numerosi altri, il kigo è estremamente chiaro e diretto. Vediamo altri esempi simili, ottimo pretesto per leggere alcuni haiku dei quali evidenzierò la parola stagionale:
皿の林檎の
紅を失す
sara no ringo no
kou wo shissu
la mela nel piatto
perde il suo rosso
(Takahama Kyoshi)
小松が仲を
春の水
komatsu ga naka wo
haru no mizu
tra i piccoli pini
acque di primavera
(Takai Kitō)
馬上に氷る
影法師
bajō ni kōru
kagebōshi
a cavallo si congela
un’ombra
(Matsuō Bashō)
天地和合の
はじめかな
tenchi wagō no
hajime kana
tra cielo e terra
inizio d’armonia
(Masaoka Shiki)
Accanto a kigo così lampanti, la poesia haiku si serve anche di riferimenti più obliqui, che alludono alla stagione senza nominarla, attraverso referenti naturalistici fra i più vari. Vediamone alcuni.
白し夜中の
天の川
shiroshi yonaka no
amanogawa
sono bianchi: nel mezzo della notte
la via lattea
(Ikenishi Gonsui)
若菜わ青し
雪の原
wakana wa aoshi
yuki no hara
è così verde l’erba nuova
campo di neve
(Konishi Raizan)
Nello haiku di Gonsui il kigo è rappresentato dai fiori di U, ovvero i fiori di Deutzia crenata, e va da sé che il riferimento stagionale è alla primavera; lo stesso è per lo haiku di Raizan, dal quale non bisogna farsi trarre in inganno: sebbene venga nominato un campo innevato, il kigo della poesia è il verde acceso dell’erba nuova che spunta fra il bianco e quindi il riferimento stagionale è di nuovo alla primavera che incombe.
柿の木持たぬ
家もなし
kaki no ki motanu
ie mo nashi
non c’è casa che non abbia
alberi di kaki
(Matsuo Bashō)
それかと覗く
落ち葉かな
sore ka to nozoku
ochiba kana
questa? Intanto sbirciano
le foglie cadute
(Chigetsu)
L’autunno si infiltra con delicatezza negli haiku di Bashō e Chigetsu attraverso le foglie morte che si raccolgono a terra (ochiba, 落ち葉) e l’albero di kaki (kaki no ki, 柿の木), ma anche, altrove, attraverso l’immagine di oche selvatiche o uccelli migratori, che segnano la fine della stagione calda.
Lo stesso, declinato in senso estivo, lo si ritrova nei due esempi che seguono, in cui ancora una volta non è il nome della stagione a essere il kigo, ma elementi naturalistici come l’ibisco, che fiorisce a partire da luglio fino al primo autunno, e le spighe di grano, caratteristiche di un tempo circoscritto ai primi mesi estivi, in attesa della mietitura di luglio.
木槿わ馬に
食われけり
mukuge wa uma ni
kuware keri
l’ibisco è il pasto
per il mio cavallo
(Matsuo Bashō)
穂麦に狭き
小道かな
homugi ni semaki
komichi kana
spighe di grano
stringono il sentiero
(Naito Jōsō)
Per l’inverno, kigo indiretti sono il freddo, la brina, il gelo, la neve; o, laddove gli haiku autunnali prediligono immagini di petali e foglie colti nell’atto di cadere o già a terra, immobili o mossi dal vento, l’inverno osserva una vegetazione spoglia, morta, o meglio che ha l’aspetto della morte, come il pruno bianco di Buson che potete leggere qui sotto: kareki (枯れ木) significa appunto “albero morto”, ma è chiaro che non è da intendere alla lettera e per due semplici ragioni. La prima, di carattere logico, è che un albero morto conserva il suo aspetto in ogni stagione; la seconda, di natura testuale, soccorre la prima: modoru (戻る) leggiamo, ovvero “ritornare”, il che implica il ripetersi di una condizione in relazione all’alternarsi delle stagioni e più in generale all’impermanenza dei fenomeni: come l’albero torna morto, così tornerà vivo, per tornare di nuovo morto alla stagione successiva, in un ciclo continuo di cui lo haiku si propone di isolare un singolo frammento.
布団に触る
霜夜かな
futon ni sawaru
shimoyo kana
toccano il futon
notte di gelo
(Yosa Buson)
枯れ木に戻る
月夜かな
kareki ni modoru
tsukiyo kana
ritorna albero morto
notte di luna
(Yosa Buson)
La natura, dunque, colta nelle sue più varie sfaccettature fissate nel kigo; ma la poesia haiku non si limita a registrare il fenomeno naturalistico, che sia un bocciolo di ciliegio, il frinire di una cicala, il volo delle oche selvatiche o il manto della neve sui campi. Il fenomeno immortalato nel kigo non è una cronaca concisa e sospesa di ciò che vede il poeta, bensì ha un portato più profondo, che da una parte vede, certamente, la natura nella sua manifestazione immediata – o, in altri termini, nella sua quiddità – e di cui soltanto si può prendere atto; dall’altra parte, riconosce il legame inscindibile con la dimensione esistenziale del poeta che di quella stessa natura è intrinsecamente partecipe. Da ciò discende che la disinvolta cattura di particolari naturalistici risponde a un atto di contemplazione che illumina l’immediatezza del sentire con la luce dell’esperienza della natura e dei suoi fenomeni, e scaturisce nell’espressione di una soggettività immediata e sincera definita kokoro (心), cioè “cuore”, “mente”, “anima”, o più in generale “interiorità”.
Per ottenere questo effetto, lo haijin deve privilegiare la dimensione del presente, cioè da una parte non soffermarsi sulle memorie o sulle aspettative, dall’altra evitare astrazioni che lo allontanino dalla verità poetica (makoto, 誠): «quando l’uomo tenta di misurare il proprio cammino in termini diacronici, infatti, si creano pericolose aspettative e illusioni che rendono impossibile godere appieno della libertà dell’attimo e delle verità proposte dalla natura» (Cenisi, La luna e il cancello, p. 74).
Momento e verità: per loro stessa costituzione non tollerano belletti. Lo abbiamo già detto: lo haiku, in quanto tale, è privo di sovrastrutture, ma Barthes ancora una volta lo dice meglio, individuando il terreno di coltura perfetto di queste due componenti fondamentali, la brevità. Che uno haiku sia breve è un fatto – e dei più scontati, peraltro –, ma non altrettanto ovvio è che tale brevità non sia formale: «lo haiku non è un pensiero ricco ridotto in forma breve, ma un evento breve che trova tutto a un tratto la sua forma esatta» (Barthes, L’impero dei segni, p. 88). Dunque la prospettiva va rovesciata: non è la ragione storica che ha segnato la morfologia dello haiku ad aver plasmato anche la sua sostanza, bensì è la sostanza che ha trovato in quella struttura lo spazio ideale per fiorire. E il frutto che ne scaturisce è in grado di fondere l’effimero e l’eterno nei pochi versi che sappiamo.
Tutto quanto detto si concretizza lungo un cammino di ricerca poetica, il fūryū (風流), “eleganza”, “raffinatezza”, ma anche “affinamento”, se volessimo porre l’accento sul processo più che sul risultato, che si articola in tre momenti:
- Rizoku (理俗), letteralmente “maniere volgari”, “rozzezza”, identifica ciò da cui il poeta si deve allontanare, ovvero appunto tutto ciò che è mondano, in un primo passo verso l’affinamento. Non a caso il maestro Bashō, che del fūryū ha fatto teoria in una sua opera intitolata Ricordi di un bagaglio consumato (Oi no kobumi, 笈の小文), ha passato l’ultima parte della sua vita in romitaggio, come haijin vagabondo ed eremita.
- Tanbi (耽美) o “immersione nella bellezza”: in questa seconda fase il poeta sul cammino del fūryū deve concedersi alla contemplazione estatica della bellezza che lo circonda. In altre parole deve diventare capace di sviluppare un genuino interesse per i fenomeni che gli si presentano, di accoglierli, per quanto banali e insignificanti essi siano, sospendendo il proprio giudizio e i propri preconcetti. Solo a questo punto sarà in grado di partecipare pienamente della loro bellezza e di comprenderla al punto di poterla fissare in una poesia.
- Shizen (自然), “natura”: il terzo momento di questo cammino di perfezionamento sfocia nella natura sia come luogo esteriore in cui sintetizzare i primi due momenti, sia come luogo interiore in cui il poeta può finalmente riconoscere come verità la profonda interdipendenza tra l’arte e i fenomeni naturali, tra cui la propria vita e tutte le contingenze che ne fanno parte e che si può ricondurre al mono no aware descritto nel primo articolo di questa rassegna dedicata agli haiku: (non)Senso e fantasmagorie.
Compiuto il cammino del fūryū, affinata la propria arte, al poeta resta un ultimo accorgimento da apportare ai suoi haiku: annullare il proprio io.
Quest’ultimo principio, che più che aggiungere contenuto mira ad alleggerire la materia da una soggettività ingombrante, si trova solo in apparenza in contrasto con ciò che è stato detto finora: “annullamento dell’io” non è da intendere infatti come un’operazione di espunzione della personalità dello haijin dai propri componimenti, tentativo tanto assurdo quanto vano – non fosse altro per il fatto lapalissiano che è l’autore a comporre la propria poesia e dunque, per quanto rarefatta, rimarrà sempre una sua traccia indelebile. No, il significato di questa espressione sta a indicare uno sforzo da parte del poeta nel contenere un’eventuale espansione della propria soggettività che travalichi i confini di comunione con la natura di cui si è detto e sbilanci l’equilibrio dei suoi componimenti a favore di una autoreferenzialità che svella gli elementi caratteristici di un vero haiku. Numerosi infatti sono gli esempi di haiku il cui soggetto è proprio il poeta, che dice “io”, “mio” o faccia riferimento a sé stesso in qualche altro modo, ma in cui allo stesso tempo tale soggettività quasi materica non risulti preponderante, bensì un’agevolazione per l’immedesimazione del lettore che, dietro allo schermo dell’io poetico, colga alla perfezione il vero tema del componimento. Ecco un paio di esempi:
ごとく朴咲
病良し
gotoku hō saki
yamai yoshi
come la magnolia in fiore
la malattia è dolce (Kawabata Bōsha)
編集局や
五月雨
henshūkyouku ya
satsukiame
nella redazione
pioggia di prima estate
(Masaoka Shiki)
Arrivati fin qui, il nostro viaggio nell’anatomia della poesia haiku sta per concludersi. Ho cercato di essere il più esaustivo possibile senza forzare modi e tempi adeguati né indulgere in più tecnicismi di quanto fosse necessario; molto non è stato detto, dal momento che il tema è vasto e di certo non esauribile in pochi articoli. Per questo rimando alla lettura della bibliografia che segnalo tra i Suggerimenti per avventurieri letterari in calce a questo pezzo, ma non solo: invito anche a una ricerca di ulteriori spunti letterari, che siano essi raccolte di haiku o più in generale di poesia orientale (il Man’yoshu per esempio è un ottimo testo, lo trovate edito da Carocci), o testi storici o narrativi (vale la pena di dare un’occhiata al catalogo della casa editrice Lindau, specializzata in letteratura orientale).
Prima di salutarci, in vista della prossima (e ultima) tappa di questo percorso voglio lasciarvi con una rosa di haiku scelti, con l’auspicio che dèstino l’interesse verso questa poesia in chi non l’ha mai considerata prima e lo rinnovino in chi ha già avuto modo di accostarvisi.
Alla prossima!
鮎の腹見る
川瀬かな
ayu no hara miru
kawase kana
guardo il ventre delle trote
nell’acqua bassa
(Uejima Onitsura)
汁も膾も
桜かな
shiru mo namasu mo
sakura kana
nella zuppa e nel namasu
fiori di ciliegio
(Matsuo Bashō)
岩に落ち着く
木の葉かな
iwa ni ochitsuku
ko no ha kana
sommersa giacciono
foglie (Naitō Jōsō)
みに近づくや
雲の峰
mi ni chijazuku
kumo no mine
si avvicinano
creste di nubi
(Yosa Buson)
我一人行く
橋の音
ware hitori yuku
hashi no oto
cammino da solo
rumore del ponte
(Tan Taigi)
夕立長引く
夜の雨
yūdachi nagabiku
yoru no ame
l’acquazzone prosegue
notte di pioggia
(Tan Taigi)
印の竹に
とんぼかな
shirushi no take ni
tonbo kana
che indica un defunto
una libellula
(Takai Kitō)
夜行く人や
梅の中
yoru yuku hito ya
ume no naka
e cammina nella sera
in mezzo ai pruni
(Naitō Meisetsu)
小さいが俺が
夏木立
chiisai ga ore ga
natsu kodachi
sono ancora piccolo
boschetto estivo
(Kobayashi Issa)
黒猫の目の
かっと金
kuroneko no me no
katto kin
gli occhi di un gatto nero
divampa l’oro
(Kawabata Bōsha)
つづく
Qualche suggerimento per avventurieri letterari
- Leonardo Arena (a cura di), Al profumo dei pruni. L’armonia e l’incanto degli haiku giapponesi, Milano, Rizzoli, 1995
- Roland Barthes, L’impero dei segni, Torino, Einaudi 1984
- Luca Cenisi, La luna e il cancello. Saggio sullo haiku, Roma, Castelvecchi, 2018
- Elena dal Pra (a cura di), Haiku. Il fiore della poesia giapponese da Bashō all’Ottocento, Milano, Mondadori, 1998
- Masaoka Shiki, Bashō zōdan. Bashō in frammenti, a cura di Lorenzo Marinucci, Milano, La Vita Felice, 2017
- Angela Urbano, “Dai canti degli dei allo splendore della poesia di corte”, in Poesia. Rivista internazionale di cultura poetica, nuova serie, anno II, n. 7, maggio/giugno 2021, Milano, Crocetti Editore, pp. 43-45; segue l’articolo, alle pp. 46-60, una selezione di poesia giapponese tratta da Edoardo Gerlini (a cura di), Antologia di poesia giapponese, vol. 1. Dai canti degli dei allo splendore della poesia di corte (VIII-XII sec.), Venezia, Marsilio, 2021