Prima di cominciare
Questo è il secondo di quattro appuntamenti sulla storia e sull’evoluzione della poesia haiku.
Se non l’hai ancora fatto, ti invito a recuperare il primo al seguente link:
Hiaku – Anatomia di un genere #1 – (non)Senso e fantasmagorie
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Paesaggi alieni
あからさまなり
白牡丹
akarasamanari
hakubotan
nitidamente
sulla bianca peonia
(Yosa Buson)
Tre versi appena. Una terzina, verrebbe quasi da dire, cadendo nella trappola della semplificazione o, forse peggio, dell’approccio forzoso a una cultura attraverso i paradigmi di un’altra. Ma no, i tre versi di uno haiku non formano una terzina e le ragioni sono piuttosto semplici. Premesso che, come è ovvio, con terzina si indica genericamente una strofa di tre versi, in Occidente questa forma ha assunto numerose e precise codificazioni a seconda del tipo verso impiegato, dello schema rimico, del contesto… Inoltre normalmente una terzina non possiede, da sola, dignità poetica. Mi spiego meglio: è raro se non impossibile, nella tradizione, trovare poesie composte da un’unica terzina, dal momento che la propensione occidentale a privilegiare il senso e quindi la creazione di un discorso poetico che abbia premesse, implicazioni e conclusioni, porta all’ampliamento della materia, integrato a una ricerca di tipo ritmico-musicale che sfocia in forme necessariamente più espanse. Il canone della poesia occidentale vede dunque la terzina inserita in partiture più organiche, che siano esse insistite al pari di un ostinato potenzialmente infinito, come le incatenate dantesche, o che siano parte di una figura più breve, come la sirma di un sonetto (ovvero due terzine di endecasillabi).
A fronte di ciò, lo haiku possiede un’anatomia diversa, peculiare, non assimilabile alle categorie che fanno parte del nostro humus letterario e alle quali siamo più abituati. Solo per citare la più blanda delle differenze tra la nostra idea di forma e quella orientale, basti dire che la disposizione grafica in tre versi di uno haiku è invenzione traduttiva – risalente grossomodo al XIX secolo, quando il genere varca i confini giapponesi per approdare in Occidente – laddove sarebbe più proprio trovare una scriptio continua come quella che segue, pur ancora leggibile da sinistra a destra (riporto la poesia di Buson citata in apertura)
山蟻のあからさまなり白牡丹
→
oppure, in modo ancora più aderente alla tradizione, in verticale, leggibile dall’alto al basso
山
蟻
の
あ
か
ら
ccさ ↓
ま
な
り
白
牡
丹
Anche la concezione stessa del “verso”, e quindi del computo sillabico (legato a sua volta all’impianto linguistico di partenza), differisce a livello radicale; così è persino per il valore attribuito alla rima, al titolo, alle ragioni estetiche che informano la composizione… Insomma, da vicino, lo haiku appare come un paesaggio alieno: un ambiente complesso, se non un vero e proprio ecosistema, in cui stiamo per addentrarci per comprenderne i meccanismi interni.
Sillaba o suono?
Dello schema metrico si è già accennato nella fronda precedente: diciassette sillabe distribuite in tre versi secondo la partizione 5-7-5.
L’alternanza del 5 e del 7 non è casuale, ma risponde a ragioni culturali e ritmiche, legate sia al credo taoista sia alla musicalità intrinseca della lingua giapponese. Innanzitutto la valenza numerologica del 5 e del 7: il 5 rappresenta la regolarità dei fenomeni, quindi l’ordine; per contro, il 7 rappresenta l’irregolarità, il disordine, ed entrambi questi aspetti si riscontrano in ogni fenomeno naturale, compresa la vita dell’uomo, in un continuo alternarsi di armonia e disarmonia. Dall’altra parte, come riporta Cenisi citando le parole della poetessa Momoko Kuroda (La luna e il cancello, p. 43), il ritmo scandito dallo schema 5-7-5 è ricorrente nelle espressioni in lingua giapponese, una configurazione percepita come familiare e gradevole dai parlanti e fruitori di poesia haiku nella sua lingua originaria.
Ma è opportuno a questo punto introdurre una precisazione importante riguardo al sistema sillabico e al computo di queste sillabe, quando si parla di poesia giapponese. Questo perché ciò che per comodità espositiva abbiamo chiamato appunto “sillaba” traduce in maniera non troppo aderente la parola on (音, letteralmente “suono”) che indica le unità fonetiche in cui si dividono le parole giapponesi, più vicine al concetto fonologico di mora (dal latino, “indugio, attesa”), che prende in considerazione non tanto la suddivisione sillabica pura e semplice, quanto piuttosto la quantità (breve o lunga) di una unità di suono, similmente al modo in cui la prima “a” di “pala” è più lunga della prima “a” di “palla”, malgrado né la prosodia né la sillabazione italiane tengano in considerazione tale differenza quantitativa. Ma facciamo un esempio per chiarire la questione.
Ecco uno haiku del maestro Matsuo Bashō:
兵どもの
夢の跡
tsuwamonodomo no
yume no ato
dei guerrieri
le tracce dei sogni
Se facessimo un rapido conto aiutandoci con la traslitterazione, scopriremmo come la partizione sillabica, anzi in on, rispetti alla perfezione il canone dello haiku:
Na-tsu-gu-sa-ya (5)
tsu-wa-mo-no-do-mo-no (7)
yu-me-no-a-to (5)
Se però accostiamo la versione originale con la traslitterazione, ecco che la corrispondenza tra segni e suoni sembra non tornare, almeno in apparenza.
夏草や (natsugusa ya), il primo verso, presenta 3 caratteri, eppure vale 5 on. Questo perché, diversamente dall’italiano in cui a ogni unità grafico-sillabica corrisponde un’unità fonetica (ca-sa = 2, om-brel-lo = 3, ro-man-ti-ci-smo = 5…) ciò in giapponese non accade con tale regolarità. La parola 夏 (natsu, estate) si scrive con un solo kanji ma vale due on; lo stesso per 草 (gusa, erba), che insieme alla precedente rende il significato di “erba estiva”, formato sì da due kanji, ma dal valore ritmico di quattro on.
La questione appare ancora più evidente nel secondo verso, di cui la prima parola da sola, 兵ども (tsuwamonodomo, “guerrieri”) produce sei dei sette on totali, suddivisi in tre caratteri; a uno sguardo ancora più ravvicinato si noterà come il carattere 兵 (tsuwamono) valga da solo ben quattro on.
Appare evidente dunque l’asimmetria tra il concetto di “sillaba” e quello di on, legati a doppio filo alle specificità delle lingue di partenza, nonché la necessità di sapere quantomeno che la definizione di sillaba sia, in questo contesto, una comoda approssimazione.
Titolo e rima
È questo, è così – dice lo haiku – è tale. O meglio ancora: tale!, dice, con un tocco così istantaneo e così breve (senza oscillazioni né riprese) che perfino la copula ci pare di troppo […].
Così scrive Barthes nel suo Impero dei segni (p. 98), cogliendo lucidamente uno dei principali caratteri stilistici della poesia haiku: l’assenza di sovrastrutture. La brevità, da cui discende una necessaria essenzialità, un’immediatezza espressiva che traduce in maniera pressoché istantanea un’altrettanta immediatezza del sentire, trasporta nei versi la totale naturalezza dello haijin (俳人, il poeta di haiku), la sua fulminea spontaneità nel fissare un fenomeno in maniera, si è detto, a-valutativa e a-descrittiva. Ne deriva quindi che un titolo risulterebbe poco meno che una mistificazione, una forzatura dei princìpi di questa poesia nonché, aggiungerei, un inopportuno indirizzamento nei confronti del lettore per mezzo di attribuzioni più o meno laconiche (e superflue) di carattere, oggetto, atmosfera, colore… Apporre un titolo a uno haiku è di fatto il tracciare una soglia didascalica che, per quanto minima, altera la percezione nella lettura, quasi come anticipare a un commensale che il piatto che sta per gustare è molto piccante, molto amaro o semplicemente molto buono, senza riconoscere la relatività di tali affermazioni né le aspettative del commensale, che si ritroverebbe inevitabilmente influenzato se non prevenuto dall’imbeccata del cuoco. Perciò gli haiku, semplicemente, non hanno titolo.
Venendo invece alla rima, uno dei cardini della poesia occidentale, essa non trova spazio nella poesia haiku, perché appartiene alla retorica ed è quindi un orpello, un’altra forzatura stilistica che intacca, fino a disgregarla, la naturalezza di cui si sostanzia un componimento haiku, il quale nasce dal flusso del sentire che pervade il poeta e si riversa sulla pagina attraverso il pennello in un solo ampio gesto che intende percezione ed esecuzione come un unicum espressivo. Questo rifiuto nei confronti della rima, ma più in generale degli artifici retorici, è stato formalizzato in un testo del 772 intitolato Kakyō hyōshiki (歌経標式), “Formulario sui canoni della poesia” a opera del poeta Fujiwara no Hamari (藤原浜成, 724-790), nel quale l’autore non solo indica la rima come elemento di degrado della spontaneità tipica di uno haiku, ma anche figure come ripetizioni, anafore e omoteleuti, in favore di un ritmo e di una musicalità che scaturiscano con sincerità dalla contemplazione dell’evento fissato nella poesia.
Kireji
Se finora si è parlato di ciò che in uno haiku non deve esserci, con il kireji (切れ字) ci accostiamo a uno degli aspetti stilistici più tipicamente propri di questa poesia. Kireji significa “carattere che taglia” e indica una categoria di parole pressoché intraducibili in italiano che hanno il compito di creare all’interno di uno haiku (non necessariamente tra i versi, ma anche alla fine della poesia) un momento di pausa, una sospensione o, meglio ancora, un ma (間), cioè uno “spazio vuoto” che faccia da cesura semantica, grammaticale, emotiva o anche solo ritmica, evidenziando allo stesso tempo il collegamento tra le parti dello haiku che raccorda e il suo tema centrale.
L’intraducibilità di queste parole e la loro funzione all’interno di una poesia possono essere risolte in italiano attraverso un uso espressivo della punteggiatura, sebbene, ancora una volta, persino l’uso più sapiente di questo strumento risulti un’approssimazione all’originale di partenza.
Illuminante la definizione di kireji data da Matsuo Bashō, il quale spiega come tale accorgimento serva unicamente alla divisione dello haiku; ne discende che, se la poesia risultasse già intrinsecamente divisa, esso non sarebbe necessario, al contrario di altri princìpi estetici e stilistici (il kigo – 季語 – per esempio, ovvero la “parola stagionale”) che vedremo nel prossimo appuntamento e che non possono mancare in uno haiku perché si possa definire tale.
Il kireji, si è detto, rappresenta una categoria di parole, un grande ombrello che raggruppa diciotto “caratteri che tagliano” divisibili in un’ulteriore classificazione interna:
- le particelle ka (か), kana (かな), ya (や) mogana (もがな), yo (よ), zo (ぞ);
- i suffissi verbali keri (け), ran (らん), tsu (つ), nu (ぬ), zu (ず), ji (じ);
- i suffissi verbali imperativi se (せ), re (れ), e (え), ke (け);
- l’avverbio ikani (いかに);
- il suffisso aggettivale shi (し).
Vediamo questi elementi applicati direttamente in poesia:
山吹ちるか
滝の音
yamabuki chiru ka
taki no oto
cadono le rose del Giappone
suono di cascata
(Matsuo Bashō)
底に雲ゆく
流れかな
soko ni kumo yuku
nagare kana
sul fondale si muovono le nuvole
in questa corrente
(Uejima Onitsura)
青田の上の
雲の影
aota no ue no
kumo no kage
sopra verdi risaie
l’ombra delle nuvole
(Morikawa Kyoroku)
In questi haiku si può notare l’impiego dei “caratteri che tagliano” ka, kana e ya: tutti e tre conferiscono un’enfasi esclamativa a ciò che li precede.
Lo stesso si può dire di zo, nello haiku che segue, anche se occorre precisare che in questo caso l’enfasi si carica di una sfumatura ulteriore di carattere volitivo.
切らんとぞおもう
槽のさま
kiran to zo omou
sō no sama
vuole recidere
il monaco onorevole
(Yosa Buson)
Yo ha la doppia funzione di conferire enfasi o contenuta misura al discorso, in relazione al contesto. Nello haiku che segue, il secondo caso:
さびしがらせよ
閑古鳥
sabishigarase yo
kankodori
mi fai sentire solo
cuculo
(Matsuo Bashō)
Mogana invece non enfatizza il discorso in sé, ma un desiderio o una speranza sottesi:
吹き出し笑う
花もがな
fukidashi warau
hana mogana
sbocciare con un sorriso
desidera il fiore
(Matsuo Bashō)
Per ciò che riguarda i suffissi verbali, keri deriva probabilmente dall’incontro dei verbi くる, kuru, “venire”, e ある, aru, “essere”, con il significato di “venire a esistere”. Per quanto intraducibile, esprime un’enfasi esclamativa di fronte a una scoperta o a una rivelazione di qualcosa che non era stato notato in precedenza e che dunque desta stupore.
男なりけり
初桜
otoko nari keri
hatsu sakura
sono quelle di un uomo!
Primi fiori di ciliegio
(Chiyo Jo)
Tsu e nu indicano che l’azione espressa nello haiku è completata, ma la differenza fra i due è di natura diciamo pure registica: dove tsu indica il punto di vista soggettivo del poeta, un suo personale convincimento sul completamento di tale azione, se non il verificarsi di azioni consequenziali o contemporanee, nu indica invece un punto di vista oggettivo sull’avvenuta conclusione di un fenomeno.
虫は月下の
栗を穿つ
mushi wa gekka no
kuri wo ugatsu
sotto la luna un insetto
è penetrato nelle castagne
(Matsuo Bashō)
寝ごころ更けぬ
落し水
negokoro fukenu
otoshi mizu
il sonno si fa profondo
in ogni villaggio
(Yosa Buson)
Zu e ji indicano invece la forma negativa del verbo; sarebbero pressoché equivalenti, sennonché ji aggiunge alla sua rosa di sfumature espressive carattere ipotetico o volitivo, a seconda del contesto.
夜とわしらず
花盛り
yoru to wa shirazu
hanazakari
non sanno
che sono vecchia
(Chigetsu)
Se, re, e, ke, in quanto suffissi verbali imperativi si spiegano da sé.
いが栗落し
道よけて
igakuri ochi shi
michi yokete
evitate i ricci di castagna
caduti sulla strada
(Daigu Ryōkan)
Ikani è un avverbio dal significato interrogativo di “come?”, “in che modo?”, “che cosa?”:
捨子に秋の
風いかに
sutego ni aki no
kaze ikani
che cosa sarà del trovatello
al vento d’autunno?
(Matsuo Bashō)
E infine shi, suffisso che muta la categoria grammaticale della parola a cui è associata in aggettivo (in questo caso 細, hoso, “magro”, “sottile” oppure, associato all’intensità di un fenomeno luminoso, “flebile”, “debole”):
灯火細し
夜の雪
tomoshibi hososhi
yoru no yuki
le deboli lampade
neve della sera
(Masaoka Shiki)
E con questo haiku del maestro Shiki (di cui ci occuperemo presto in maniera particolare) anche per questa fronda siamo arrivati alla fine: le informazioni sono tante, ma tanti sono anche gli haiku che ho selezionato, non solo come esempio, ma soprattutto come invito alla lettura.
Non mi resta che darvi appuntamento a due settimane da oggi per la terza parte del nostro viaggio. Nel frattempo, leggete tanto e leggete bene! A presto!
つづく
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Qualche suggerimento per avventurieri letterari
- Leonardo Arena (a cura di), Al profumo dei pruni. L’armonia e l’incanto degli haiku giapponesi, Milano, Rizzoli, 1995
- Roland Barthes, L’impero dei segni, Torino, Einaudi 1984
- Luca Cenisi, La luna e il cancello. Saggio sullo haiku, Roma, Castelvecchi, 2018
- Elena dal Pra (a cura di), Haiku. Il fiore della poesia giapponese da Bashō all’Ottocento, Milano, Mondadori, 1998
- Masaoka Shiki, Bashō zōdan. Bashō in frammenti, a cura di Lorenzo Marinucci, Milano, La Vita Felice, 2017
- Angela Urbano, “Dai canti degli dei allo splendore della poesia di corte”, in Poesia. Rivista internazionale di cultura poetica, nuova serie, anno II, n. 7, maggio/giugno 2021, Milano, Crocetti Editore, pp. 43-45; segue l’articolo, alle pp. 46-60, una selezione di poesia giapponese tratta da Edoardo Gerlini (a cura di), Antologia di poesia giapponese, vol. 1. Dai canti degli dei allo splendore della poesia di corte (VIII-XII sec.), Venezia, Marsilio, 2021