(non)Senso e fantasmagorie
Una rosa è
una rosa è una ro-
sa è una rosa
Prendo in prestito un verso famoso di Gertrude Stein, ne forzo la sintassi a seguire le anse della metrica e lo dispongo nella forma haiku più familiare: tre righi di 5-7-5 sillabe. È un’approssimazione, naturalmente, ma ho pensato a questo gioco per una ragione: la corrispondenza del significato a sé stesso, della forma a sé stessa e il rapporto fra essi parimenti uguale a sé stesso. In fondo è ciò che il verso di Stein lascia intendere: le cose sono uguali a sé, adottano, confermano, ribadiscono il principio di identità, per cui A è uguale ad A, così come una rosa è una rosa è una rosa è una rosa… Funziona.
Questo principio, in apparenza così scontato per la logica occidentale, è una delle radici da cui attinge nutrimento la poesia haiku. Lo diceva, in altri termini, anche Roland Barthes: «L’Occidente inumidisce di senso ogni cosa», [1] e perciò nel breve spazio di uno haiku riusciamo a rintracciare attribuzioni, a scovare discorsi, comporre sillogismi, filosofie o metafore sottese che trapelano dagli interstizi fra le parole, perché è così che pensiamo, presi da una furiosa pareidolia concettuale, colmando i vuoti anche dove sono desiderati o, perché no, persino portanti. Se invece «si rinunciasse alla metafora» continua Barthes, «o al sillogismo, il commento diventerebbe impossibile: parlare dello haiku sarebbe semplicemente ed esattamente ripeterlo».[2] Infatti, precisa, «pur essendo molto intelligibile, lo haiku non vuol dire nulla»[3] se non, aggiungerei, quello che dice; e solo alle nostre menti affamate di significati sepolti offre una fantasmagoria di immagini che altro non sono se non rifrazioni, come giochi di luce che scaturiscono dalla fissità reticolare di un cristallo.
In Italia, lo haiku penetra nelle maglie della letteratura tra XIX e XX secolo, con goffi tentativi di traduzione e adattamento, frutto di vistosi fraintendimenti e della preponderanza della tradizione lirica del nostro Paese su un’altra altrettanto antica, ma al contempo così lontana e incomprensibile da dover essere in qualche modo disinnescata attraverso il settenario, la rima, l’interpretazione, l’esercizio di stile. Un esempio è il cosiddetto ku (句)[4] del vecchio stagno di Matsuo Bashō, tanto noto che anche i più ignari lo avranno certo incontrato:
蛙飛び込む
水の音
kawazu tobikomu
mizu no oto
una rana si tuffa
rumore d’acqua
Qui sopra, una delle traduzioni più comuni e apprezzabili. Di seguito, invece, la resa del poeta Mario Chini nella sua antologia Note di shamisen del 1915:
Campagne basse e nude,
una morta palude,
il rumore dell’onda,
che – plumf! – s’apre, si chiude
a ogni rana che affonda.
La misinterpretazione del testo originale da parte di Chini è lampante.
Tuttavia, nel corso del Novecento fino ai giorni nostri, le cose sono cambiate, gli studi si sono evoluti, le varie antologie di poesia giapponese dalle origini alla contemporaneità hanno permesso una diffusione e una fruizione dello haiku sempre più capillare; eppure fino a pochi anni fa non esisteva in Italia un volume che trattasse di teoria degli haiku, un compendio che analizzasse e permettesse di osservare in sezione un fenomeno poetico dagli esiti semplici, molto brevi, quasi immediati, ma che nulla hanno a che vedere con la facilità, la superficialità o la banalità. Nel 2018, per i tipi di Castelvecchi esce La luna e il cancello, di Luca Cenisi, da cui è tratta la disavventura di Chini citata qui sopra.
Cenisi interviene a colmare una lacuna editoriale che si trascinava da troppo tempo, sistematizzando in una trattazione esaustiva ma agile (poco più di 200 pagine) l’impianto teorico alla base di una composizione che appare alla portata di tutti – in fondo cosa sono 17 sillabe disposte in 3 versi? – ma che, per essere considerata haiku, deve rispettare regole formali e contenutistiche codificate nel corso di millecinquecento anni. In questo e nei prossimi appuntamenti vorrei distillare i caratteri fondamentali di questa poesia, oggi nota più di un tempo, ma ancora troppo sconosciuta nei suoi meccanismi interni, avvalendomi anche del contributo di Cenisi, che mi auguro conosca nuovi lettori e continua diffusione.
In questo pezzo introduttivo daremo uno sguardo alle origini dell’attuale forma haiku.
Le origini
Tanka
Lo haiku (俳句) germoglia dalla forma breve della waka (和歌, “poesia giapponese”), definita mijika uta (短歌, letto anche tanka, ovvero “poesia breve”), un componimento articolato in cinque versi di 5-7-5-7-7 sillabe (o meglio on, 音), che come si vede contiene già il nucleo sillabico proprio dello haiku (5-7-5).
Le tematiche principali di questi testi sono la natura e l’amore, e più in sostanza la trasposizione della realtà delle cose e degli stati d’animo attraverso la manifestazione di fenomeni naturalistici, ma tutto in chiave a-valutativa, in una formula molto vicina alla semplice constatazione di un evento.
Lo haiku non descrive mai, la sua arte è anti-descrittiva, nella misura in cui ogni stadio della cosa è immediatamente, caparbiamente, vittoriosamente trasformato in una fragile essenza d’apparizione […].
[…] anche ciò che a noi sembrerebbe aver vocazione di scena dipinta […] diventa o meglio non è che una sorta di rilievo assoluto.(R. Barthes, L’impero dei segni, p. 89)
Esistono due modelli compositivi di una tanka: nel primo, il nucleo 5-7-5 (detto kami no ku 上の句, cioè “frase superiore”) costituisce una subordinata, non ha quindi autonomia sintattica e, perché il suo senso si completi, dipende dal successivo nucleo 7-7 (detto shimo no ku 下の句, “frase inferiore”). Il secondo modello, al contrario, prevede che il kami no ku abbia completa autonomia sintattica, aspetto che ha sancito l’autonomia anche formale di questa strofa e l’ha resa il nucleo generativo dello haiku.
Renga
Altro passo fondamentale in questo cammino è la renga (連歌), letteralmente “poesia legata”, di natura comunitaria e contributiva, nata come gioco di corte, i cui partecipanti collaboravano alla stesura di una lunga poesia a catena formata da nuclei strofici di cinque versi a schema 5-7-5-7-7 on.
Anche per la renga esistono due modelli compositivi: la cosiddetta tan-renga (短連歌, “renga breve”) e la kusari renga (鎖連歌, “renga collegata”, detta anche chō-renga 長連歌, “renga lunga”).
La renga breve prevede una composizione a quattro mani: il primo poeta si occupa di scrivere il ku superiore, detto in questo contesto hokku (発句) “verso d’esordio”, mentre il secondo scrive il ku inferiore, ora wakiku (脇句), “verso che corre vicino”.
La renga collegata, o renga lunga, prevede invece che a questo processo a quattro mani si accodino altri poeti, generalmente non più di dieci, per comporre catene di renga di dieci, cento o addirittura mille ku. Il gioco chiaramente non si esaurisce nella giustapposizione di versi: ogni ku deve avere infatti un legame semantico con quello che lo precede e con quello che segue, in modo tale che il risultato finale sia un poema collettivo concettualmente solido, fluido, coerente, in cui, come si dice, tout se tient. Nello stesso tempo, come sottolinea bene Cenisi, ogni nuovo ku deve portare in sé un seme innovatore, originale: ogni poeta deve quindi essere abile ad accostare i propri versi a quelli degli altri per mantenere la tenuta e l’armonia concettuale del componimento, ma anche di contribuire con un apporto personale, un valore aggiunto, un colore diverso su una tavolozza coerente ma varia.
A vigilare sulla buona riuscita di questo processo e sul rispetto delle regole è lo shuhitsu (執筆, “scrivano” o “segretario”), che ha il compito di registrare i componimenti prodotti. Qualora ritenga uno o più versi non rispondenti al regolamento, rimette la decisione di espungerli o meno dalla redazione finale al poeta più eminente del consesso, un arbiter litterarum detto sabaki (捌き, derivato dal verbo sabaku, 捌く, “giudicare”), il cui responso è inappellabile.
Per comprendere meglio l’importanza del ruolo della renga nell’emancipazione della forma haiku occorre entrare più nel dettaglio della prassi compositiva.
Lo hokku di una renga è l’elemento principale della composizione; più in particolare, il primo hokku della catena funge da saluto e da benvenuto, e ha carattere stagionale. L’incarico di comporlo o selezionarlo dalla letteratura precedente è affidato al poeta più autorevole e costituisce un grande onore. Proprio in virtù di questa rilevanza, è diffusa la pratica del wakiokori (脇起り), “fare da spalla”, cioè prendere in prestito uno hokku di un grande poeta del passato.
Dopo questa apertura, il secondo poeta è incaricato di stendere il wakiku, verso che, come detto prima, deve essere in armonia concettuale con il precedente e dare l’avvio al successivo hokku.
Il terzo artista compone il cosiddetto daisanku (第三句), letteralmente “terzo ku” della catena, che era considerato il vero e proprio ku d’esordio, al netto dei primi due considerati proemiali, ma la cui portata concettuale, sia ben chiaro, dava la direzione all’intera renga.
Renga: il jo-ha-kyu
La composizione di una renga sottostà inoltre al concetto fondamentale del jo-ha-kyū (序破急), letteralmente “inizio-rottura-enfasi”, composto dalle tre partiture che ne formano il nome:
- jo (序), ovvero “introduzione”, “inizio”: è il momento proemiale, sobrio, piacevole sia musicalmente sia dal punto di vista contenutistico. Banditi dal jo sono infatti argomenti “difficili” come la morte, la sessualità, la guerra, la religione, la malattia…
- ha (破), la “rottura”: dopo un inizio sereno, lontano dalle forme e dai concetti esclusi dal jo, nella ha il componimento può allargare il proprio respiro e in questo momento è possibile parlare di qualsiasi argomento. È qui che si crea terreno fertile per la sperimentazione e l’innovazione letteraria;
- kyū (急), l’“enfasi” o “urgenza”, il culmine esplosivo della composizione. Qui il dettato poetico si espande fino alle sue massime capacità in un assolo travolgente che, proprio come un’esplosione, raggiunto l’acme, finalmente si dissipa.
Bashō e i princìpi della poesia
A questo punto non è possibile parlare di poesia haiku glissando sulla figura di colui che è stato ritenuto, a torto o a ragione, un kami (神), ovvero una divinità dello haiku: Matsuo Bashō. Nato nel 1644, morto a soli cinquant’anni, questo poeta eremita e girovago fu colui che diede nuova linfa, nervature, innovazione e spessore alla poesia haiku, l’artista dopo il quale fiorirono in tutto il Giappone scuole di poesia le quali, sia che ne seguissero i dettami, sia che se ne discostassero per tentare nuove strade, sia che li ricusassero con ferma opposizione, ebbero la sua figura come centro di gravità.
Nel suo percorso artistico, che di fatto ha coinciso con la sua vita, Bashō ha ricercato la cosiddetta fūga no makoto (風雅の誠) o “verità poetica” perseguendo il fūga no michi (風雅の道) o “cammino dell’eleganza”, che porta a un continuo affinamento dell’espressione poetica in termini di semplicità e immediatezza. Attraverso questi elementi, Bashō auspica e tenta un rinnovamento totale dello haiku che affranchi definitivamente il genere, donandogli uno statuto poetico autonomo e la dignità della grande poesia, quella capace di misurarsi con il tempo.
Attraverso la sua scuola, denominata Shōmon (蕉門), Bashō rielabora alcuni princìpi cardine dell’estetica haiku, di cui cercherò di riassumere le caratteristiche prima di concludere:
- fueki ryūkō (不易流行): traducibile con “immutabilità e contingenza”, è il principio secondo cui un buon componimento deve essere in grado di «cogliere tanto la verità immutabile delle cose (fueki) quanto i tratti fondamentali del mondo contemporaneo (ryūkō)» [Cenisi, cit., p. 32]; ryūkō (流行) è infatti traducibile anche come “moda”, dunque qualcosa di passeggero;
- karumi (軽み), o “leggerezza”: il termine, inizialmente inteso nell’accezione negativa di frivolezza, viene concettualmente rielaborato nell’opera di Bashō, in cui assume il deciso significato di ciò che si oppone alla pesantezza, all’artificiosa elaborazione o, in altri termini, all’inutile complicazione che impedisce di raggiungere la verità poetica;
- shiori (しおり), “delicatezza”: la parola deriva dal verbo shioru (しおる), “essere flessibili” ma indica anche ciò che è destinato ad avvizzire, evocando sentimenti di sottile malinconia di fronte alla caducità delle cose;
- hosomi (細身) o “sottigliezza”, ovvero quella disposizione del poeta che lo porta a comprendere la vera essenza degli oggetti, a entrare in essi per ricavarne, di nuovo, la loro verità poetica o fūga no makoto;
- wabi (侘) e sabi (寂): indicano l’uno una disposizione alla vita frugale e solitaria come occasione per una vera comunione con la natura; l’altro il fascino melanconico che il poeta è capace di provare di fronte alla transitorietà delle cose, nonché la serena accettazione di questo aspetto della vita. Dunque, in estrema sintesi, il wabi-sabi consiste nella disposizione del poeta a cogliere e apprezzare la bellezza della caducità delle cose;
- yūgen (幽玄) o “profondo mistero”, consiste nella capacità del poeta di evocare sensazioni o sentimenti attraverso allusioni o immagini rarefatte;
- mono no aware (物の哀れ): il “sentimento delle cose”, ovvero la capacità del poeta di lasciarsi attraversare dalle innumerevoli suggestioni che derivano dal mondo, con stupore e ammirazione, conservando, similmente al wabi-sabi, una malinconia sottesa per la necessaria caducità delle cose;
- shibui (渋い), ciò che è “astringente” o ancora “aspro”, in opposizione a tutto ciò che è dolce (amai, 甘い). Questo principio estetico privilegia ciò che è acerbo, in qualche modo austero, e si concretizza nella capacità del poeta di cogliere con immediatezza il carattere essenziale del fenomeno, teso verso un’eleganza minimalista tipica dello haiku, che predilige il vuoto al pieno, il silenzio al suono, il poco al molto…
Arrivati a questo punto, molta carne è stata messa al fuoco, perciò, per il momento, è bene fermarsi qui, ma il viaggio continuerà con il secondo capitolo, in cui faremo luce sull’anatomia di uno haiku visto dall’interno.
Nel frattempo, vi lascio con i versi del poeta Uejima Onitsura (1661-1738), scritti in ricordo della morte del figlio, ma nei quali non c’è tristezza, solo composta e serena contemplazione di ciò che è mutato, pur dolorosamente, in ossequio ai principi del wabi e del sabi.
A presto!
膝に子のない
月見かな
hiza ni ko no nai
tsukimi kana
sulle ginocchia non ho mio figlio
guardo la luna
つづく
Tsuzuku
Continua
***
Note
[1] Roland Barthes, L’impero dei segni, Torino, Einaudi, 1984, p. 81.
[2] Ivi, pp. 83-84.
[3] Ivi, p. 80.
[4] Ku, traducibile con “frase”, “espressione”, qui in chiave poetica, quindi anche “poesia”.
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Questo è il primo di quattro appuntamenti sulla storia e sull’evoluzione della poesia haiku.
Di seguito, i link alle prossime tappe. Non perdertele!
Haiku – Anatomia di un genere #2 – Paesaggi alieni
Haiku – Anatomia di un genere #3 – L’effimero e l’eterno
Haiku – Anatomia di un genere #4 – L’eretico e il santo
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Qualche suggerimento per avventurieri letterari
- Leonardo Arena (a cura di), Al profumo dei pruni. L’armonia e l’incanto degli haiku giapponesi, Milano, Rizzoli, 1995
- Roland Barthes, L’impero dei segni, Torino, Einaudi, 1984
- Luca Cenisi, La luna e il cancello. Saggio sullo haiku, Roma, Castelvecchi, 2018
- Elena dal Pra (a cura di), Haiku. Il fiore della poesia giapponese da Bashō all’Ottocento, Milano, Mondadori, 1998
- Masaoka Shiki, Bashō zōdan. Bashō in frammenti, a cura di Lorenzo Marinucci, Milano, La Vita Felice, 2017
- Angela Urbano, “Dai canti degli dei allo splendore della poesia di corte”, in Poesia. Rivista internazionale di cultura poetica, nuova serie, anno II, n. 7, maggio/giugno 2021, Milano, Crocetti Editore, pp. 43-45; segue l’articolo, alle pp. 46-60, una selezione di poesia giapponese tratta da Edoardo Gerlini (a cura di), Antologia di poesia giapponese, vol. 1. Dai canti degli dei allo splendore della poesia di corte (VIII-XII sec.), Venezia, Marsilio, 2021