Jonathan Strange
&
Il Signor Norrell
L’esordio esemplare di Susanna Clarke
Introduzione
Immagino che la libreria di ciascuno possa dirsi un florilegio e ogni volume un fiore. Nell’ordine personalissimo dei tomi, il lettore può cimentarsi in un recupero archivistico, persino archeologico talvolta, e ammirarsi come in uno specchio siderale: che rende cioè la luce del passato e ci mostra quali eravamo.
Com’ero io? E quando?
Era il 2005, in autunno avrei compiuto tredici anni, ed ero un lettore disorientato in un mondo di meraviglie.
Dopo vent’anni di lontananza – un paio d’odissee – sono tornato a un’Itaca letteraria che avevo abbandonato sul mio scaffale di quasi-adolescente. Un acquisto compulsivo, forse; un cedimento al fascino di un volume corposo e dalla bella confezione. Parlo di Jonathan Strange & Il Signor Norrell della britannica Susanna Clarke, con il cui ultimo romanzo, Piranesi ho inaugurato questo spazio.
Jonathan Strange & Il Signor Norrell è l’esordio di Susanna Clarke, che ho letto nella bella prima edizione di Longanesi, ma che da qualche anno è riedito nella veste brilluccicosa ma esteticamente meno intrigante (per quel che può valere) di Fazi. Come accennavo recentemente nell’introduzione a Samurai William, vent’anni fa Susanna Clarke mi sfiancò in appena un centinaio di pagine; qualche anno dopo, il secondo tentativo – forse questo non l’ho detto – ebbe il medesimo risultato. Ora però, di necessità, qualcosa deve essere cambiato in me, dal momento che nei decenni di letture trascorsi ritengo di non aver mai incontrato nel fantastico contemporaneo una voce così complessa, stratificata, elegante e a un tempo così fresca. Sì, Piranesi è un eccellente saggio della penna di Clarke, lo confermo con rinnovato entusiasmo; ma Jonathan Strange & Il Signor Norrell è una prova d’autrice adamantina sotto ogni aspetto.
Parliamone.
Magia

Il signor Norrell. Illustrazione di Portia Rosenberg.
La trama del romanzo è troppo espansa e pregevolmente ingarbugliata per darne un sunto che sia anche soddisfacente. È più utile quindi trattare dell’oggetto di questa narrazione, ossia il ritorno della magia in Inghilterra nei primi anni dell’Ottocento. Da ciò si può facilmente dedurre che in precedenza se ne sia andata o che in qualche modo la società dei maghi se ne sia allontanata. È in effetti così, ma non se n’è affatto persa la nozione. Clarke tratta la magia in maniera molto particolare: una materia d’accademia, un argomento di studio teoretico, inquadrato nella prospettiva storica di un evento che ha sì contribuito a foggiare l’attualità, ma che al contempo ha esaurito il suo arco di sviluppo. Le sue vestigia non possono più che animare le speculazioni dei membri dell’Accademia di York.
La magia è però anche un’efficacissima leva di potere per colui che solo in tutto il Regno Unito ha la capacità di fare incantesimi: il burbero e cupo Gilbert Norrell, l’unico mago pratico rimasto. Norrell sfrutta i suoi indiscutibili poteri per accreditarsi presso il governo e avere un ruolo cardine nelle guerre napoleoniche. L’aspetto interessante della concezione della magia di Clarke è che tali poteri, così come la conoscenza dei maghi teorici, possono derivare solo dai libri: la magia assomiglia a una scienza dura, è regolata da rituali e formule codificate, è frutto di tentativi documentati ed esperimenti falliti; una biblioteca sconfinata e un’impareggiabile dedizione allo studio sono gli ingredienti irrinunciabili per diventare un vero mago, a patto però di possedere i volumi giusti. Libri cioè di magia e non semplicemente sulla magia, come quelli intorno a cui si lambiccano gli accademici di York. Ma i libri di magia sono ormai introvabili: Norrell ne possiede una copia di ognuno e ha provveduto a distruggere le altre, così che nessuno, malgrado la parallela necessità di un lungo e severo apprendistato, possa cimentarsi in questa disciplina. A meno che non sia lui a volerlo.
Una questione ideologica

Jonathan Strange. Illustrazione di Portia Rosenberg.
È a questo punto che entra in scena l’intraprendente Jonathan Strange, tutt’altro che mago, all’inizio; quindi discepolo di Norrell; poi collega, avversario e infine nemico.
Strange apprende quanto più possibile dal suo maestro, che tuttavia è molto avaro di sapere e gli preclude l’accesso a specifici libri che ritiene saggio, per la sua preminenza, non condividere. Strange, che non è uno sciocco, nota questo atteggiamento e se dapprima accusa il proprio ostracismo da alcune branche della magia, fa virtù del proprio ingegno e sviluppa col tempo una visione ideologica diametralmente opposta a quella di Norrell.
Il maestro si ritiene non solo l’unico mago degno di possedere la conoscenza completa della magia, ma anche colui che la rifonderà in Inghilterra recidendo per sempre il legame con il passato, in particolar modo con il più grande mago mai esistito, John Uskglass, il Re Corvo.
L’allievo è invece affascinato da tale figura e ritiene che l’Inghilterra tutta debba riscoprirla: il nome di John Uskglass deve tornare a risuonare nelle menti degli inglesi: da troppo tempo infatti hanno perso il contatto con la magia, che nei secoli passati permeava ogni albero, ogni pietra e ogni rivolo d’acqua del Regno Unito.
Se dunque Norrell ha tra i propri fini la conoscenza massima, ciò non è però accosto al principio illuministico di divulgazione, incarnato per esempio dalla recente pubblicazione dell’Encyclopédie a opera di Diderot e D’Alambert (1751-1772), o anche dallo spirito corporativo dei teorici dell’Accademia di York. Accentrare la conoscenza, così come accentrare risorse, non può che portare all’impoverimento generale, e in questo Norrell mostra tutti i limiti della propria senile concezione del potere.

Il gentiluomo dai capelli lanuginosi. Illustrazione di Portia Rosenberg.
Strange, al contrario, nutre posizioni assai più liberali, sia, come detto, sul versante ideologico, sia su quello pratico: non esiterà infatti a praticare magie complesse quando non proibite, come la necromanzia, che peraltro Norrell ha sempre avuto cura di non insegnargli e che lui non soltanto pratica al bisogno, ma ricava da solo dal selezionato materiale elargito dal suo maestro.
A questa differenza, che nella mia lettura fa pendere la simpatia verso il buon Jonathan Strange, si aggiunga la maligna contraddizione del vecchio mago, che si rivela quando, pur di entrare nelle grazie del primo ministro Sir Walter Pole, accetta di resuscitare la sua giovane moglie appena morta. Per farlo, nel buio e nella solitudine dove giace il corpo di Lady Pole, si spingerà a sconfessare ciò che esprime pubblicamente: il disprezzo per gli esseri fatati. È infatti un pericoloso essere fatato, noto per tutto il romanzo come “il gentiluomo dai capelli lanuginosi”, che Norrell evoca all’insaputa di tutti, per stringere con lui un patto diabolico e riportare in vita la defunta Lady Pole.
Il gusto della parola
L’umanità dei personaggi, il suo spettro cangiante, il divertente realismo delle scene mondane, la bizzarria dell’elemento magico e tutti gli altri tasselli che concorrono al grande mosaico di questo romanzo passano attraverso il filtro di un raffinato gusto per la parola, cifra stilistica principale di Susanna Clarke.
In altri termini, la bontà della storia è intessuta in maniera indissolubile al fenomeno puramente estetico della scrittura: una prosa magistrale (in una traduzione eccellente), divertentissima, capace di partiture sempre varie, sempre disinvolte, anche nella digressione più articolata. Il romanzo si legge anche solo in virtù di questa prosa e del godimento che dona al lettore.
Così ci si imbatte, per esempio, nell’uso sapiente di semplici artifici retorici, come nel brano che segue:
Childermass gli aveva assicurato che il momento era propizio e Childermass conosceva il mondo. Childermass conosceva i giochi dei bambini agli angoli delle strade, giochi che tutti gli altri adulti avevano dimenticato da molto tempo; Childermass sapeva che ciò che pensavano i vecchi accanto al fuoco, anche se nessuno lo aveva più chiesto loro da anni; Childermass sapeva ciò che i giovani udivano nel rullo del tamburo e negli squilli di tromba e che li spingeva a lasciare le loro case per andare a fare il soldato; e conosceva la tazzina di gloria e la damigiana di infelicità che li aspettavano. A Childermass bastava guardare un elegante avvocato per saper dire cosa avesse nelle tasche del suo abito alla moda. Tutto ciò che Childermass sapeva lo faceva sorridere e in qualche caso ridere forte; e niente di ciò che sapeva riusciva a tirare fuori da lui un solo briciolo di compassione.[1]
Nelle righe che precedono il passo citato qui sopra, veniamo a sapere come John Childermass, servitore di Norrell incaricato di sbrigare per lui qualsiasi faccenda per così dire “non domestica”, abbia convinto il suo padrone ad abbandonare il conforto della sua casa di Hurtfew Abbey, nel Nord, per trasferirsi nella capitale.
In questo paragrafo la narrazione adotta il punto di vista del vecchio mago e ripete con una frequente anafora il nome del servitore: ciò per mettere in risalto non solo la grande considerazione in cui Norrell tiene Childermass, ma per suggerire attraverso l’uso oculato della retorica informazioni importanti sulla relazione di dipendenza che Norrell intrattiene con questo personaggio.[2] Con questo semplice ma arguto espediente, Clarke caratterizza tre elementi in una volta sola: Childermass, naturalmente; poi Norrell, nella misura che si è detta; e infine il rapporto tra i due.
Per rimanere nel solco della retorica, sia d’esempio la descrizione di come la magia è avvertita dai personaggi, attraverso alcune belle sinestesie:
Dopo due ore smise di piovere e nello stesso istante l’incantesimo si ruppe, cosa che Perroquet, l’ammiraglio e Jumeau capirono da un curioso sovvertimento dei sensi, come se avessero per un momento avvertito in bocca il gusto di un quartetto d’archi o fossero stati assordati dalla vista del colore blu. Solo per un istante le navi di pioggia divennero navi di nebbia, poi la brezza gentile le disperse.[3]
Nel corso del romanzo narrazione procede spesso per disinvolte alternanze di discorso diretto e indiretto, che si completano a vicenda creando un gradevole movimento nel fraseggio complessivo, che scongiura l’appiattimento dei dialoghi in aridi botta e risposta conditi da beat o banali didascalie.
Dove il testo si fa narrazione pura, Clarke indulge volentieri in digressioni, anche molto espanse, sovente intrise dell’obliqua ironia inglese, come accade nella descrizione delle scomode frivolezze di un ricevimento qualunque che la piccola nobiltà londinese infligge a sé stessa in nome della mondanità:
E come descrivere un ricevimento a Londra? Dappertutto candele accese e lampadari a gocce di cristallo, in una profusione che stordisce; eleganti specchiere triplicano e quadruplicano la luce tanto che la notte è più luminosa del giorno; maestose piramidi di frutta dai vari colori, coltivata in serra, si ergono su tovaglie candide; divine creature risplendenti di gioielli si aggirano per le sale a due a due, tenendosi a braccetto, ammirate da tutti coloro che guardano. Il caldo è eccessivo, la ressa e il chiasso lo sono quasi altrettanto, non si sa dove sedere o stare in piedi. Vediamo il nostro migliore amico in un’altra parte del salone, abbiamo una quantità di cose da dirgli, ma come facciamo a raggiungerlo? Se siamo fortunati forse ci imbattiamo in lui e facciamo in tempo a stringergli la mano prima di essere trascinati via. Circondati da sconosciuti irritati e accaldati, se ci trovassimo in un deserto dell’Africa avremmo le stesse possibilità di conversare in modo razionale. Unico desiderio è salvare il nostro abito migliore dagli assalti rovinosi della folla. Tutti si lamentano che fa troppo caldo e si soffoca, tutti dichiarano che non si può assolutamente resistere. Ma se gli ospiti soffrono, che dire di coloro che non sono stati invitati? Le nostre sofferenze sono niente a paragone delle loro! E domani noi potremo dirci l’un l’altro che è stata una festa bellissima.[4]
Accanto a questa modulazione di elementi formali interni al testo, Clarke agisce anche su aspetti più generali, come la commistione di generi, sia a un livello intrinseco (il testo adotta di volta in volta o in una mescola, toni da comedy fo manners, suggestioni dal sapore dickensiano, stilemi del romanzo del terrore, impronte byroniane – si veda il personaggio di Jonathan Strange – eccetera), sia a livello per così dire architettonico.
L’impianto generale è infatti quello di un romanzo storico: le vicende dei due maghi e dei loro antagonisti si dipanano in un primo Ottocento del tutto verosimile, e i riferimenti alla storia d’Europa e a noti personaggi dell’epoca (Napoleone, re Giorgio III, Lord Byron, Mary Shelley…) sono numerose. Il tutto però si avvia ben presto sul binario di una divertente ucronia: i francesi sono sconfitti a Waterloo grazie all’impiego della magia da parte delle forze inglesi; l’infermità mentale di Giorgio III è causata dall’influenza maligna del gentiluomo dai capelli lanuginosi (e non dalla presunta porfiria); Lord Byron, durante il suo soggiorno veneziano – coatto, a causa dei debiti e della pessima fama – diventa amico di Jonathan Strange, e così via.
Questa ossatura si abbiglia di panni gotici, in special modo nelle parti che osservano più da vicino il signor Norrell e lo spaventoso essere fatato, la sua estetica improntata al macabro e alla decadenza cimiteriale, la continua prossimità della morte, la tristezza e la depressione che induce nelle sue vittime, l’esasperato cinismo, l’eloquenza del nome del suo dominio: Senzasperanza…
Clarke, nella sua indole digressiva, innesta nel flusso del racconto principale, un altro racconto che occupa l’intero capitolo 14 (La fattoria Crepacuore), dalle chiare influenze poeiane.
E a proposito di innesti e digressioni, evidentissimo appare il carattere pseudo-documentario del romanzo, fitto di note al testo: talvolta chiose o approfondimenti che ampliano la prospettiva sul passo di riferimento; talaltra indicazioni bibliografiche che rimandano a fonti fittizie, pseudobiblion redatti o dai personaggi della storia o da figure storiche altrettanto finzionali ma che arricchiscono di ulteriore profondità la complessità già notevole dell’opera.
Il grano e la pula
Jonathan Strange & Il Signor Norrell è un romanzo impegnativo. Lo consiglierei caldamente a chiunque, ma per esperienza diretta so che si tratta di un’opera estremamente selettiva, non adatta a tutti né a qualsiasi momento. Contiene una buona dose di evasione, questo è indubbio, ed è oltremodo divertente – lo ripeto: anche solo per godere della sua prosa varrebbe la pena dedicarcisi –, ma richiede una giusta disposizione: la fretta gli è nemica, la distrazione gli è nemica, l’indole sbrigativa con cui ormai affrontiamo la fruizione di ogni contenuto gli è nemica. La sua consistenza oscilla tra le quasi 900 pagine (ed. Longanesi) e le quasi mille (ed. Fazi), ed è un primo deterrente per i lettori dal fiato corto. Viene poi il primo centinaio di pagine, quello che in passato mi ha respinto due volte. Insomma, Jonathan Strange & Il Signor Norrell separa fin da subito il grano dalla pula: come un buon classico, ai suoi lettori domanda tempo e dedizione, ma ripaga con generosità. Se potete, leggetelo.
*
Note
[1] P. 50. (I riferimenti a questo e agli altri brani del romanzo citati nel presente articolo sono tratti dall’edizione Longanesi, 2005. Pertanto i numeri di pagina potrebbero non corrispondere alla recente riedizione Fazi, 2021.)
[2] In realtà, con tutta la servitù. Nella seconda parte del romanzo, Norrell troverà difficoltà nell’affrontare una situazione in fondo banale tra le mura di casa propria, dal momento che tale incombenza è sempre stata affidata ai domestici.
[3] P. 124.
[4] P. 54.