Samurai William
L’europeo che cambiò le sorti del Giappone
Ritrovamenti
2003. Lettore acerbissimo, avevo preso ad aggirarmi per le pianure dell’editoria, disorientato pur intuendo i libri come oggetti figurali, ed ero attirato dai tomi spessi, dalla grana della carta, dall’armonia della composizione tipografica, dal profumo della lignina.
Ero un viandante nudo, se così si può dire: scalzo e privo di strumenti, ancora incapace di procurarmi da solo ciò di cui avevo bisogno, vagabondavo raccogliendo ciò che il caso aveva la bontà di mettere sul mio cammino di lettore.
Così, per occasione, ho incontrato Melville, ho attaccato briga e ne sono uscito male; mi sono imbattuto in Tolkien e non l’ho riconosciuto; a Lewis non ho dato ascolto; quindi è venuta Susanna Clarke, che mi ha sfiancato in appena un centinaio di pagine di Jonathan Strange e il Signor Norrell; Ursula K. Le Guin, con La leggenda di Earthsea, ha fatto lo stesso. Era ovvio che non avevo polmoni sufficienti per tenere il passo.
Ma avevo imparato qualcosa. Quando incontrai Giles Milton, nell’inverno dei miei undici anni, mi bastò il Prologo per comprendere che non era il momento di sfidare anche lui. Ero ancora acerbo e di materia informe, ma sapevo di non aver sbagliato. Sapevo che era questione di tempo: ci eravamo incontrati troppo presto, il momento giusto era di là da venire, ma sarebbe venuto.
Da allora sono passati ventun anni. Nel frattempo ho avuto modo di riconciliarmi gioiosamente con Melville, Tolkien, Susanna Clarke e tanti altri. Ma non con Milton: perché Milton non si trovava più. L’attimo prima era sullo scaffale, l’attimo dopo era scomparso. L’ho cercato a più riprese per molti anni, finché, in uno dei momenti in cui ero tornato a chiedermi dove fosse, è ricomparso. Era ingiallito, anchilosato per il troppo tempo nello stretto, e odorava di muffa, ma la fragile sovraccoperta era miracolosamente intatta; non era stato mangiato dai topi, come invece alcuni vecchi libri di scuola che per vent’anni gli avevano fatto compagnia in uno scatolone, al buio, all’umido di una cantina e poi di un’altra.
È quindi nell’estate del 2024 che ritrovo Il samurai che venne dall’Europa, o Samurai William, di Giles Milton, pubblicato in Italia da Rizzoli nel 2003. A meno di non rovistare in un mercatino dell’usato o di trovare una buona offerta su e-bay, il libro è attualmente non disponibile e fuori catalogo, il che è un gran peccato, soprattutto alla luce del giapponismo pop degli ultimi anni e dell’enorme successo riscosso dalla serie Shōgun tratta dall’omonimo romanzo di James Clavell (1975) che dalla storia vera ricostruita nei primi anni Duemila da Milton trae, pur liberissima, la sua ipirazione.
Un altro Giappone
Il 12 aprile 1600, dopo diciannove mesi di navigazione, un veliero olandese provato da terribili peripezie e semidistrutto dai fortunali raggiunge il porto di Bungo, nei pressi dell’attuale città di Ōita, nel Kyūshū orientale. Si chiama Liefde ed è salpato da Rotterdam nel 1598, membro di una spedizione di cinque navi dirette in Giappone, quattro delle quali non hanno portato a termine il viaggio. Dei cento marinai che componevano la ciurma della Liefde, ne restano ventiquattro. Di questi, sei moriranno a breve.
Solo l’inglese William Adams, primo timoniere, ha abbastanza forze da rendersi conto di essere scampato all’oceano e di essere al sicuro.
Intorno a lui gravita la storia che Milton racconta avvalendosi di lettere e diari redatti da testimoni e protagonisti, tra cui lo stesso Adams, negli anni che vanno dal 1603 al 1625.
In questo Giappone misterioso e non del tutto impermeabile alla colonizzazione occidentale, nel 1975 Clavell ambienta il suo Shōgun, che altro non è se non la vicenda romanzata proprio di William Adams – John Blackthorne nella finzione narrativa – che con un sapiente lavoro di mediazione, forza di volontà e incredibile acume diventa il consigliere più fidato di Tokugawa Ieyasu, potente signore della guerra e primo shōgun a unificare l’intero Giappone sotto il proprio comando, con il che ha formalmente inizio il periodo Edo.
Quello di Milton (e di Adams) non è ancora l’austero Giappone isolazionista che diverrà negli anni di Ieyasu e di suo figlio Hidetada. Tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, la presenza cristiana e in particolar modo gesuita, è molto forte nel Paese. Molti sono i giapponesi convertiti dal buddhismo alla Croce.

Portoghesi in Giappone nel XVI secolo
I primi occidentali a sbarcare in Giappone, nel Cinquecento, non sanno quasi nulla dell’arcipelago: né la forma né la posizione nel mondo. I missionari cristiani, forti di una cultura più che millenaria e dei loro libri, non si aspettano di trovare dall’altra parte del mondo una cultura assai più raffinata, profonda e codificata della propria, e soprattutto autosufficiente: la filosofia occidentale non ha nulla da offrire a un popolo ben più avanzato e colto del più colto tra i sapienti cristiani. Il diaframma fra le due culture appare quindi inattaccabile e invalicabile.
Se i primi avventurieri portoghesi giunti in Giappone intorno al 1543, come Fernão Mendes Pinto, sono affascinati dalla grazia degli abitanti del luogo, dalla raffinatezza dei loro costumi e dalla cerimoniosità delle loro consuetudini, non altrettanto si può dire delle impressioni che i giapponesi hanno dei loro ospiti: pur colpiti dalle loro strane vesti e dal modo bizzarro che hanno di agghindarsi, disprezzano la loro mancanza di buone maniere, la loro scarsa consuetudine con l’igiene personale e la loro manifesta inferiorità culturale:
«Palesano i loro sentimenti senza alcun autocontrollo» riferisce uno scrittore disgustato «[e] non capiscono il significato dei caratteri scritti.» Cosa ancor peggiore indossavano abiti sudici e puzzolenti di sudore stantio e non avevano l’abitudine di radersi.
Probabilmente i giapponesi si sarebbero sbarazzati dei portoghesi senza ulteriori indugi se non fosse stato per alcune merci chiuse nelle stive sulle loro navi. Si trattava di una fornitura di armi (moschetti e archibugi) il cui potere distruttivo lasciò di stucco gli orientali.[1]

Tokugawa Ieyasu, 1543-1616
L’interesse dei giapponesi per le armi da fuoco – che dalla metà del Cinquecento armerà la fanteria detta ashigaru con i tanegashima, archibugi nipponici modellati su quelli portoghesi introdotti nel Paese proprio da Pinto – è inizialmente l’unico punto di vero interesse che gli occidentali esercitano sui signori dell’arcipelago, insieme alle loro conoscenze ingegneristiche e alle notizie che portano dal Vecchio mondo. Ciò è vero al punto che il favore accordato da Tokugawa Ieyasu a William Adams, una sessantina d’anni più tardi, si deve in parte anche alla presenza a bordo della Liefde di numerose armi, e soprattutto di diciannove cannoni, decisivi – almeno stando ad alcuni resoconti – nella battaglia di Sekigahara del 21 ottobre 1600, in cui le armate di Tokugawa sbaragliarono quelle del clan Toyotomi condotte da Mitsunari Ishida. Non solo, Ieyasu si mostra estremamente interessato alle competenze di ingegneria navale di Adams, al quale chiede di progettare e costruire caracche adatte a lunghe navigazioni in acque difficili, sul modello delle navi occidentali capaci di solcare i mari di tutto il mondo per arrivare fino in Giappone.
A pochi mesi dall’arrivo di Adams, il Paese è già cambiato: dopo la violentissima battaglia di Sekigahara, l’arcipelago, per secoli frammentato in staterelli opposti o alleati fra loro, ma di fatto indipendenti, si ritrova unificato sotto il vessillo del clan Tokugawa; Ieyasu assume ufficialmente il titolo di shōgun nel 1603, anno che mette fine al Periodo Sengoku (戦国時代, Sengoku Jidai, letteralmente “periodo degli Stati belligeranti”) e dà inizio al Periodo Edo, che prende il nome dalla nuova capitale e sede dello shōgun, Edo appunto, l’odierna Tokyo.
Ma l’influenza di Adams non si ferma qui.
La riforma di Valignano
Mentre racconta la vicenda di Adams, Milton mette in luce molti aspetti della lunga e difficile relazione degli occidentali con i giapponesi. Non vi è dubbio che, al di là dei benefici commerciali che entrambi i popoli possono trarre dalla reciproca frequentazione, se i primi desiderano mettere radici in quella terra così lontana da tutto, la questione culturale è di assoluta rilevanza.
Gli europei in quanto tali, cioè in quanto cristiani, conoscono un solo modo di rapportarsi alla cultura di altri popoli: convertirla nella propria. Non è un caso se i primi cristiani a mettere piede in Giappone sono missionari membri della Compagnia di Gesù. Ma, come già detto, la cultura e la religione giapponesi non hanno alcun bisogno di essere rinfrancate da altre omologhe, che, in aggiunta, per dottrina e complessità sono loro inferiori.
Lo stesso Alessandro Valignano, vicario del Preposito generale della Compagnia, si rende conto del divario che separa la cultura del posto da quella di importazione:
Alessandro Valignano, 1593-1606
[…] era arrivato in Giappone nel 1579 portando con sé i pregiudizi profondamente radicati che aveva assorbito in altre regioni d’Oriente. In precedenza aveva guardato con disprezzo le popolazioni indigene. Aveva affermato che «le razze scure sono assai stupide e dissolute, nonché della natura più abietta» e aveva dichiarato che erano perlopiù «bestiali» e a malapena umane. Aveva però dovuto ricredersi quando era sbarcato in questa nazione lontana. Era rimasto sbalordito di fronte alla raffinatezza giapponese ed era stato costretto ad ammettere che questo strano popolo superava i portoghesi per erudizione e buone maniere. «Noi europei ci sentiamo dei veri e propri fanciulli […] [e] dobbiamo apprendere a mangiare, sederci, conversare, vestirci, comportarci con educazione e via discorrendo.» […] Nella sua ammissione più clamorosa aveva confessato che «l’esistenza di contraddizioni e differenze tra i costumi giapponesi ed europei non significa […] che essi [i giapponesi] siano barbari sotto qualche punto di vista, giacché, in verità barbari non sono affatto».[2]
All’arrivo di Valignano, la missione versa in pessimo stato: malgrado i quarant’anni passati di evangelizzazione, il numero dei proseliti è deludente e non accenna ad aumentare. La causa gli è subito evidente:
Buona parte dei religiosi era molto meno istruita di coloro che cercava di convertire e non era in grado di spiegare la propria fede e la propria dottrina.[3]
Oltre a questo, le profonde differenze nella concezione dell’individuo e della società avevano generato, negli anni, malintesi molto dannosi per la missione: i giapponesi non nutrivano alcun interesse verso il concetto di carità, e l’impianto sociale a caste rendeva i notabili del tutto indifferenti verso la sorte deli ultimi. Il costume cristiano di soccorrere i poveri e i malati – gli yeta, cioè i reietti – aveva fatto sì che la nobiltà si sentisse presa in giro dai gesuiti:
«i mendicanti ricevevano un pasto se esprimevano il desiderio di divenire seguaci della loro religione», mentre i nobili venivano «turlupinati con stravaganti cianfrusaglie […] e lusingati con doni, gingilli e perline».[4]
Valignano trova una soluzione tanto intelligente quanto radicale. Se il problema è la distanza culturale che relega giapponesi e portoghesi in due mondi reciprocamente impermeabili, allora occorre che i gesuiti, in quanto ospiti in terra straniera, facciano il primo passo per venire incontro a tutte le difficoltà e le incomprensioni e ricomporle. Redige quindi un volume dal titolo Advertimentos che contiene tutti i precetti di comportamento che i membri della missione gesuita dovranno osservare per diventare “più giapponesi”. È necessario imparare la lingua e adeguarsi alla complessa etichetta sociale del luogo, imparare cioè gli usi cerimoniosi che caratterizzano i rapporti interpersonali fra gli individui. È necessario mangiare come i giapponesi: ciò comporta sia il mangiare determinate cose (riso, pesce, verdura) e l’astenersi da altre (carne, per lo più), sia l’adottare le maniere di comportarsi a tavola proprie dei giapponesi, come l’uso delle bacchette, il mangiare accovacciati, il cibarsi a piccoli bocconi, il sollevare e poggiare le varie ciotole una volta attinto da esse il riso o qualunque altra pietanza. Anche la condotta personale è oggetto di riforma:
A Valignano non era bastato che i padri adottassero le usanze esteriori dei giapponesi. Li aveva persuasi a pensare e a comportarsi come fossero giapponesi, ad agire con dignità e stoico decoro.[5]
(O)missionari gesuiti
La riforma di Valignano è un successo: in appena due decenni la missione converte 150.000 nuovi proseliti che si aggiungono ai circa 200-250.000 dei quarant’anni precedenti. Non solo: sul finire del XVI secolo i gesuiti hanno instaurato ottimi rapporti con i nobili e i governatori, sono ben inseriti nell’alta società e sono ricevuti a corte con frequenza.
Eppure, nella primavera del 1600, un segreto a lungo celato sta per essere scoperto.
I primi ad accorgersi dell’arrivo della Liefde non sono dei giapponesi, bensì dei missionari. Convinti che sia un veliero spagnolo proveniente dalle Filippine, salgono a bordo, solo per scoprire che si tratta in realtà di una nave olandese, della quale il primo timoniere, William Adams, è un inglese. Protestanti. Eretici. Eretico il legno, eretico l’equipaggio. Ma non è tanto l’avversione che in quanto cattolici nutrono verso i protestanti a mettere in allerta i gesuiti, quanto piuttosto il rischio che, se Adams parlasse, una gravissima omissione che ha consolidato nell’inganno le fondamenta della loro presenza in Giappone potrebbe essere rivelata: i padri della Compagnia non hanno mai parlato a nessun giapponese dell’esistenza di altre confessioni oltre quella cattolica. Al contrario, per sessant’anni hanno descritto la Chiesa come unica, indivisa e per l’appunto cattolica, unita sotto la guida del papa. Su questo falso principio si è sempre basata l’opera di evangelizzazione in terra giapponese, e ora una delegazione di luterani mette a repentaglio ogni cosa.
I tentativi di far giustiziare i superstiti della Liefde falliscono uno dopo l’altro, così come i tentativi di mettere Adams in cattiva luce di fronte all’autorità di Tokugawa Ieyasu, il quale, affascinato dalle sue conoscenze, è molto ben disposto verso di lui, e nel contempo sospettoso proprio nei confronti dei cristiani. Lo shōgun teme infatti che i suoi avversari possano fare leva sulla cristianità e trovare alleati in Europa per opporsi al suo governo. Un’antipatia che nel 1614 porta Tokugawa a ordinare l’espulsione dei missionari e a iniziare le persecuzioni anticristiane che troveranno nel figlio Hidetada e più ancora nel nipote Iemitsu feroci sostenitori.
Dove trovare Il samurai che venne dall’Europa
Basta, non dico altro. La storia vera di William Adams è lunga, molto approfondita e merita di essere letta.
Ho preso in prestito assai poca della sostanza che Milton distilla in questo ottimo libro che chiamerei “saggio” se la prosa non avesse una spiccata e piacevolissima indole narrativa. Né però si tratta di romanzo storico, ma di una cronaca sì avventurosa ma altrettanto rigorosa nel metodo. Alla fine del volume, l’autore fornisce una dettagliata bibliografia delle fonti, e a corredo del testo numerose immagini, per lo più acqueforti o xilografie.
Questo libro è una vera chicca che con grande fortuna ho ritrovato dopo più di vent’anni di ricerche e letto con grande piacere, sentendomi un po’ sciocco per averlo trascurato così a lungo.
Se mai vi imbatteste in una copia, il mio consiglio è di non lasciarvela scappare. Per chi volesse prenderlo in prestito, ho dato un’occhiata al catalogo SBN e ho constatato con piacere che la distribuzione nelle biblioteche italiane non è malvagia. Per chi fosse interessato, la pagina è qui: Il Samurai che venne dall’europa.
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Note
[1] Giles Milton, Il samurai che venne dall’Europa, Rizzoli, Milano, 2003, p. 23.
[2] P. 102
[3] Ibidem.
[4] P. 104.
[5] P. 106.