*** Attenzione: può contenere tracce di spoiler ***
Premessa
Ho accolto con una certa curiosità l’uscita del secondo capitolo delle indagini di Takeshi Nishida, il ruvido investigatore di Tokyo che nella sua prima avventura aveva seguito le tracce di un banalissimo ombrello di plastica usato come arma del delitto e sul quale erano state rinvenute le impronte di niente meno che l’imperatore del Giappone.
Di quell’esordio non ero rimasto particolarmente entusiasta, però ricordo di avervi riconosciuto del potenziale. Certo, sarebbero stati necessari alcuni aggiustamenti di rotta, ma presagendo con facilità un progetto continuativo che avrebbe visto Nishida al centro di una serie di romanzi, confidavo che ci sarebbe stato modo di prendere quota.
Tuttavia, se il primo volume ha rappresentato una lunga e non molto efficace rincorsa, il secondo si è concretizzato in una modesta planata di 300 pagine a pochi centimetri da terra. Razionalizzando un po’, forse è anche normale e sono pronto a scommettere che la mia delusione sia frutto più di aspettative sproporzionate che delle qualità intrinseche di questo racconto; quindi, in sostanza, colpa mia. Provo a spiegarmi: i tempi editoriali sono notoriamente lunghi, lunghissimi a volte. Opere appena uscite possono essere entrate nel tritacarne dell’editoria uno, due o diversi anni prima di arrivare al pubblico, il che farebbe presupporre che questo tempo venga impiegato nella maturazione dell’opera che poi finirà nelle mani del lettore. Non starò qui a ribadire l’ovvio dicendovi che non è così, vi basti dare un’occhiata al tanto ciarpame che piega gli scaffali delle librerie. Ad ogni modo, anche ammesso di vivere in un mondo ideale, i due romanzi di Scotti escono a stretto giro: L’ombrello dell’imperatore a gennaio 2021, Le due morti del signor Mihara ad aprile 2022. A stretto giro e forse un po’ troppo, in questo caso: sfornare un romanzo all’anno non è da tutti. Provateci, se non ci credete. Non serve che abbiate un contratto con una casa editrice per fare questo esperimento, l’essenziale è avere un romanzo pronto da proporre. Uno all’anno. Complesso ma non impossibile, certamente, e qualcuno ci riuscirebbe pure con risultati egregi; riguardo alla saga di Nishida, però, data la vicinanza di uscita delle due opere e la qualità generale della prima, non sarebbe fuori dal mondo ipotizzare che difficilmente Le due morti del signor Mihara possa discostarsi tanto da L’ombrello dell’imperatore in quanto a stile, trovate, ingaggio del lettore eccetera… E così è, in effetti.
La storia, in breve
Takaji Mihara viene trovato morto nella sua casa, ucciso da una pugnalata al cuore. Sulla scena viene rinvenuto un tantō, una lama corta tipica dei samurai che pare proprio essere l’arma del delitto, malgrado sia posata su un tavolo di fronte al cadavere. Nishida ha già un sospettato, un certo Omizu, un uomo con problemi psichiatrici che per qualche ragione ancora da chiarire ha rinvenuto il corpo e ha dato l’allarme, farneticando di essere perseguitato dal fantasma del defunto. Le impronte di Omizu sono sul manico del tantō e sembrerebbe esserci poco da investigare, senonché un dettaglio tanto nascosto quanto cruciale non quadra: dalle recenti cartelle cliniche della vittima, sembra che prima di morire fosse perfettamente in salute; eppure da una parte il suo cadavere presenta un tumore a uno stadio molto avanzato, dall’altra l’esame del DNA conferma che il corpo è proprio quello del sanissimo signor Mihara. Come è possibile? Perché, nonostante la vittima indossi un completo, il pugnale ne ha squarciato solo la camicia, lasciando intatta la giacca? Che l’uomo si sia suicidato? Altrimenti per quale motivo l’assassino si sarebbe preoccupato di un simile dettaglio? E cosa c’entra Omizu con tutto questo? A cosa alludono le sue stralunate dichiarazioni?
Didascalia portami via
Ancora una volta tocca a Nishida sbrogliare la matassa, a lui e a nessun altro. Sì, perché di nuovo l’investigatore nippoamericano (che ricordiamo essere un hāfu, un mezzosangue) agisce da solo, pensa da solo, fa domande da solo, non ha comprimari e, appena di quando in quando, vede materializzarsi un paio di colleghi che gli passano informazioni importanti. La agente Umeda, che Nishida si accorge improvvisamente essere bella, intraprendente, irreprensibile nel suo lavoro ecc., e con la quale sembra instaurare un principio di romance che però non scatta mai, ma lascia terreno fertile per il futuro; e Joe, al secolo Kabuto Jōtarō, detto Kabupedia (dalla crasi del cognome Kabuto e la parola Wikipedia), colonna portante della centrale di polizia, almeno per quanto riguarda l’intelligence, tanto da essersi guadagnato il soprannome che porta per via delle sue conoscenze impareggiabili in ogni branca dello scibile umano.
E proprio lui, Kabupedia, incarna uno dei primi punti deboli di questo romanzo. Partiamo dalla sua funzione: fornire informazioni. Non ci sarebbe nulla di male in questo, la spalla che colma le lacune del protagonista mentre lui si arrovella per arrivare a un dunque. Però questo suo tratto ne rende gli interventi terribilmente didascalici, come le voci di un’enciclopedia appunto, che in un romanzo stridono un bel po’, e a dire che è esattamente l’effetto desiderato si farebbe brutta figura:
«Sai che ci sono 1,7 divorzi ogni mille persone?» continuò Joe. «E sai quand’è stato il picco dei matrimoni?»
«Per carità, non cominciare, che la giornata è ancora lunga» lo implorò Nishida.
«C’è stato un gran bel calo, se pensi che oggi siamo intorno ai 600.000.»
Uno dei peccati principali dell’intera narrazione è l’indulgenza verso la didascalia, verso l’enunciazione a discapito della messa in scena. In proposito esiste il vecchio mantra dello show, don’t tell, del quale non sono un sostenitore oltranzista, ma dove serve lo apprezzo molto. Invece Le due morti del signor Mihara ha il vizio di sciorinare informazioni, dati e aneddoti in maniera meccanica e male integrata con il racconto. Intendiamoci, le chicche che regala sul Giappone non sono malvagie, anzi alcune sono davvero curiose per l’occidentale medio, ma ho comprato un romanzo, non una Lonely Planet.
Da Kabuto in giù, veniamo a conoscenza di “un Giappone inedito e spesso frainteso”, come recita la bandella posteriore della sovraccoperta, e più in generale delle caratteristiche meno conosciute del Paese e della sua società, ma è sempre tutto troppo “spiegato”. Un altro esempio? L’ex moglie di Nishida ha deciso di sbarazzarsi della gatta Kuromame, a cui la figlia Mia è molto affezionata. La bambina lo dice al padre, che a sua volta ne parla, tanto per cambiare, con Joe:
«Che ne dici di iniziare dalla dream box allora?» suggerì Nishida. «Io ne so qualcosa solo per sentito dire, e sono certo che tu muori dalla voglia di farmi un seminario in proposito», disse ironizzando sull’abitudine del collega di lanciarsi in orazioni interminabili riguardo agli argomenti più disparati. […]
«Che vuoi sapere?» domandò Joe con un mezzo sorriso. «In poche parole, le dream box non sono altro che camere a gas. Padroni che non possono più accudire un animale, o che semplicemente si sono stufati, li portano lì per sbarazzarsene.»
Nishida chiuse gli occhi […]. Era quanto già sapeva, ma sentirlo così…
Qui non solo veniamo a conoscenza di questa pratica da quattro righe buttate lì (e tanto ci basti), ma il narratore tiene particolarmente a ribadire che Nishida possedeva queste poche informazioni di base fin dall’inizio. Quindi, se consideriamo che i personaggi di questo romanzo non hanno coscienza di essere parte di una storia inventata né sanno che oltre la pagina un pubblico segue le loro vicende, a beneficio di chi va questa sorta di voce della Treccani? Del lettore, naturalmente, ma dal punto di vista narrativo sento scricchiolare qualcosa.
Sempre Joe:
«Lascia stare. Preferirei di gran lunga venire a Kamakura. Lo sai, vero, che dal 1185 al 1333 fu la sede dell’omonimo shogunato e quindi, di fatto, la capitale del Giappone? Il ventennio che inizia dalla nascita di Minamoto no Yoritomo, fondatore e primo shōgun di quella stirpe, fu pieno di eventi straordinari che ancora oggi… pronto? Pronto?»
Nishida gli riattacca il telefono in faccia, e meno male!
Intreccio vs. assemblaggio
Questo andamento si trascina in trovate narrative variegate e poco comprensibili, se non calate sempre nel solco della vocazione divulgativa del romanzo: si tratta di inserti più o meno lunghi che mettono in mostra ancora una volta il Giappone “inedito” di cui sopra, ma che nell’economia del racconto non sono altro che tasselli giustapposti all’intreccio vero e proprio, e che hanno ben poca influenza su di esso. Uno fra i tanti: Nishida riconosce per strada Sayaka Kabuto, la figlia di Joe, intenta a prostituirsi. Io l’ho fatta semplice, ma la faccenda si inquadra nel fenomeno delle papa-katsu, ovvero giovani donne, spesso minorenni (come Sayaka), che dietro compenso offrono le proprie attenzioni a paparini attempati in cerca di qualcosa di più di ciò che offre la loro vita da schiavi aziendali. Bene, Nishida ferma Sayaka prima che possa pentirsi delle sue azioni, le fa una bella ramanzina davanti a un caffè e poi si congeda raccomandandosi di non fare cose che, quando sarà grande, potrebbero farla vergognare di sé stessa. Che gran cuore. Lui sì che empatizza coi giovani, e al padre di questa ragazzina (che vorrei ricordare essere il suo migliore amico) non dice mezza parola a riguardo, perciò questo segreto tra lui e Sayaka non andrà a intaccare di un millimetro il rapporto tra i due colleghi, né il senso di responsabilità personale dell’investigatore. Semplicemente, concluso il breve momento “Superquark” sulle papa-katsu, non se ne farà più menzione fino alla Nota dell’autore delle ultime pagine, dove apprendiamo che si tratta di un fenomeno sociale tristemente vero eccetera eccetera.
Vogliamo andare avanti? Andiamo avanti.
Riempitevi di riempitivi
Dato che di Joe non ne abbiamo ancora abbastanza, dirò che a un certo punto viene preso in ostaggio dal buon Omizu (il principale nonché unico indiziato per l’omicidio Mihara) esasperato dagli incessanti interrogatori a cui è sottoposto da quando è stato arrestato. Questo teatrino dura una buona pagina e mezza, sciapa come brodo allungato, in cui Nishida fa la sua mossa spettacolare e salva l’amico da un pericolo che è (e rimane) tutto nella testa dell’autore. Nemmeno per un secondo il lettore è portato a credere che Joe stia rischiando la vita. Perché? Innanzitutto perché la scenetta si consuma alla centrale di polizia: non il posto migliore per sequestrare un poliziotto… Poi perché l’ostaggio è Joe, il miglior amico di Nishida, qualcuno la cui morte imprimerebbe una svolta irreversibile nella psicologia del protagonista e al suo peso nei futuri capitoli delle sue indagini. Un personaggio che, se non sei Martin, non ti bruci al secondo di enne romanzi, e che è naturalmente rivestito di una spessa plot armor che lo terrà in vita finché serve. Ma soprattutto, l’intero episodio è qualcosa che sa di riempitivo action da così lontano che crederci valica la sospensione dell’incredulità e sconfina nell’atto di fede. Allora perché sprecare in questo modo una scena d’azione, un po’ campata in aria a prescindere, ma che potrebbe avere la sua ragione se fosse pensata meglio? Non lo so. Ma resta il fatto che a livello di trama non ha prodromi né produce conseguenze.
Così come l’episodio del tizio che si butta sotto un treno. Nishida, tornando in ufficio, nota un capannello di persone nei pressi di una stazione e coglie dalla folla che qualcuno si è gettato sui binari mentre passava un convoglio. Che cosa c’entra questo con la storia? Nulla, serve solo a dirvi, cari lettori, che i giapponesi non pensano “povero cristiano, è morto sotto un treno, chissà cosa stava patendo per arrivare a tanto”, no, loro pensano “che maleducato”, perché ha arrecato danno alla collettività facendo accumulare ritardo al trasporto pubblico su rotaia. Il che può anche essere – è quello che pensiamo tutti quando il nostro regionale fa tre ore di buco perché da qualche parte un quindicenne attraversa i binari con la musica nelle orecchie e un Frecciarossa lo stira –, però l’episodio nasce e muore in un paio di paragrafi; noi prendiamo atto del ritardo di Nishida e andiamo a dormire comunque tranquilli.
Dialoghi
Un altro particolare degno di nota, che mi farebbe molto ridere se solo non mi desse fastidio, è la gestione di alcuni dialoghi in cui c’è di mezzo la lingua giapponese.
Interno giorno, Omizu al tavolo degli interrogatori viene torchiato da Nishida e blatera di fantasmi e anatemi.
«Mi ha maledetto, ispettore. È stregoneria. La stanza 4219! Shini-iku, quattro numeri che messi di seguito si possono pronunciare come “andare a morire”» sbottò […].
Cosa c’è che non va in queste due righe, al di là del fatto che nessuno parlerebbe così? Ricordate la questione del dogeza del primo romanzo? No? La potere recuperare qui. Il succo è pressappoco lo stesso: un giapponese madrelingua (Omizu) spiega a un altro giapponese, anch’egli madrelingua e per di più fervente purista (Nishida), il significato di parole immediatamente ovvie per entrambi. Ancora una volta: tutto va a beneficio del lettore, è chiaro come il sole delle sei del pomeriggio negli occhi mentre guidi. Ma è anche tutto così grossolano…
Round 2: a una decina di pagine di distanza, la mamma di Tomohiko Akiyama dice al figlio:
«[…] gli stranieri stanno tutti un po’ fuori. Lo dice pure la parola, non per niente si chiamano gai-jin».
Frase che, a voler vedere, suona leggermente tautologica, perché il dialogo da cui ho estrapolato la battuta avviene tra persone che nella finzione narrativa si stanno esprimendo in giapponese; inoltre, se da una parte siamo sommersi di informazioni inutili – come quelle sullo shogunato di Kamakura del 1185 –, dall’altra di espressioni come queste è difficile comprendere il senso. E allora facciamo chiarezza. La parola gaijin significa “straniero”, ma a un’analisi più approfondita scopriamo che si scrive così, 外人, dove 外 gai significa “fuori” e 人 jin “persona”, quindi per associazione “persona che viene da fuori” o “che sta fuori”, cioè appunto “straniero”. Da ciò, l’insipida battuta della mamma di Akiyama. Forse dovremmo dedurre tutto questo dal trattino che separa gai e jin (che, per inciso, formano una parola unica) nella linea di dialogo? La vedo dura…
Menzioni speciali
Passiamo ora alle menzioni speciali, vizi che, come già scrissi nel pezzo su L’ombrello dell’imperatore, sarebbero veniali se non fossero così ricorsivi all’interno dello stesso libro e, ora, di romanzo in romanzo.
Partiamo dalla sciatteria, con un aforisma in una squisita prosa da bar:
Omizu gli aveva raccontato un fracco di balle.
Un fracco di balle. Capito? Evviva lo stile.
Nambaa tsuu:
Nel 2000 […] il governo aveva finalmente introdotto l’uso della parola «poliziotta». Tuttavia per l’ispettore quelle non erano che idiozie politiche prive di senso. La vera uguaglianza si poteva raggiungere soltanto attraverso l’educazione e i gesti concreti.
Di conseguenza nel suo piccolo Nishida faceva quanto poteva per far sì che il lavoro delle donne fosse apprezzato tanto quanto quello degli uomini. Sempre che fosse un lavoro valido, s’intende. Detestava il buonismo a tutti i costi che sembrava stesse pian piano dilagando nel resto del mondo. Un sentimento poggiato su basi senza dubbio nobili che però stava pericolosamente degenerando. Se uno era un cretino era un cretino. Minoranza o meno.
A questo riguardo, due postille: uno, è pacifico che l’autore caratterizzi i personaggi come gli pare. Due, lungi da me impelagarmi nel discorso delicato e attualissimo sul linguaggio inclusivo e la parità di genere, non ne ho voglia. Però il qualunquismo con cui vengono tratteggiati questi moti intestinali di Nishida mi lascia un po’ perplesso. Non è obbligatorio agganciarsi all’attualità a tutti i costi, non è peccato evitare certi argomenti nel proprio romanzo se non si ha voglia di parlarne (e l’autore chiaramente non ne ha: la sua incursione inizia e finisce nel paragrafo che ho citato); non è dovuto, se non sono il focus del racconto né costituiscono l’ossatura di un personaggio (cosa che, al contrario, li renderebbe di peso nell’intreccio). Quindi che senso ha ’sto pippone infarcito di massime e buon senso da capovillaggio? Forse la parità di genere è una questione ancora lontana dal Giappone contemporaneo? Bene (cioè, male), ma allora rendiamo organico questo pensiero di Nishida così in controtendenza con l’andazzo del suo Paese. Altrimenti sembrerà solo la filippica di un vecchio lamentoso, amareggiato dai cambiamenti e dal nuovo che avanza.
Nambaa surii: leggete attentamente la citazione che segue, magari ad alta voce, poi vi farò un quiz di grammatica.
Il frigo, oltre a una nuova scorta di lattine Boss adatta a un disastro nucleare, conteneva poco altro. Non cucinava di frequente. A pranzo non c’era mai, spesso nemmeno a cena. E non era comunque un gran cuoco. Di conseguenza, o mangiava fuori o comprava da qualche parte un bentō pronto da portare via. E poi negli ultimi anni erano spuntate anche molte applicazioni per consegne a domicilio. Insomma, difficilmente sarebbe morto di fame.
Ecco la domanda: qual è il soggetto di questi periodi? Ci sono due risposte, una giusta e una sbagliata. Quella giusta è: il frigo. Quella sbagliata è… sempre il frigo. Non so se mi sono spiegato.
Voi direte, “oh, ma che palle che sei, Ale, non ti va bene niente”. Certo che no: quando pago un libro una cifra ingiustificatamente alta,[1] che io non lo apprezzi sono affaracci miei, ma cose come questa mi vanno di traverso, perché basterebbe poco per accorgersene e correggerle (o per evitarle proprio).
Nambaa foa:
«… Se proprio hai voglia di uccello
vorrà dire che comprerò scatolette di pollo.»
Uscita maldestra, eh?
Questa battuta ha in realtà un suo contesto, ma volevo farvela assaporare, riproducendo anche l’a capo (casuale, s’intende, ma sfortunato) che potete trovare nel libro al capitolo 20, pagina 259. Mi si tacci pure di infantilismo, ma chiedete a voi stessi: “qual è la prima cosa che ho pensato leggendo la metà superiore della frase?”. Non mentite, la vostra coscienza lo saprà.
Ad ogni modo, diamo due coordinate per comprendere questo capolavoro di comicità involontaria: un corvo chiamato Edgar si presenta regolarmente alla finestra di Nishida, che gli si è affezionato tanto da dargli il nome che porta. L’uomo si è anche preso in carico Kuromame, la gatta della figlia, salvandola da morte certa in una dream box (vedi sopra). Da ciò la battuta dell’ispettore rivolta a Kuromame, che sta fissando Edgar dall’altro lato della finestra come un leone tra gli sterpi fissa la gazzella.
Ridere non costa niente (?)
Mi sono fatto una grossa risata leggendo la perla citata qui sopra, poi mi sono ricordato quanto mi è costata e ho smesso. Non me ne vogliate se torno su questo punto, me ne lamento qui, ma in realtà vale per tutte le uscite costose ma deludenti. Quando studiavo, il pimo giorno del corso di Gestione dell’impresa editoriale, il mio docente esordì dicendo che l’editoria libraria non ha nulla a che fare coi libri, il che è senz’ombra di dubbio un’iperbole poco romantica, ma in fondo coglie nel segno: un editore vende un prodotto – un libro, nello specifico – e da quel prodotto deve avere un ricavo. È l’economia, bellezza. Ma i conti in tasca se li fanno pure i lettori, soprattutto quando scoprono che l’esborso non è stato ripagato dal contenuto del libro in questione, vuoi per imperizia, vuoi per la fretta di farlo uscire per cavalcare la popolarità dell’autore, dell’argomento o di un filone narrativo con un ottimo mercato (ricordate le tonnellate di titoli che iniziavano con “La ragazza del”, “La ragazza che”, “La ragazza con” usciti dopo La ragazza del treno di Paula Hawkins?).
Al lettore (a un buon lettore…) però non importa un fico secco. A me non importa un fico secco. E presagisco che non spenderò altro denaro per i romanzi di Scotti; forse il mio tempo, se troverò le sue prossime opere in biblioteca, se me le regaleranno, se le incontrerò a una stazione di bookcrossing e se avrò voglia di fare un terzo tentativo, vallo a sapere. Ma per adesso il sentimento è questo.
Torniamo seri
Ora però non vorrei averla messa giù in maniera troppo spessa. Le due morti del signor Mihara non è tutto da buttare, per quanto, a mio gusto, sono costretto a bocciarlo.
Quindi cosa ho trovato di pregevole in questo libro? Il finale. Non lo scioglimento del mistero investigativo, quello lascia il tempo che trova. Ma ho ritrovato nella conclusione quella delicatezza e quella poesia che avevo già incontrato nel congedo di L’ombrello dell’imperatore. Un sentimento agrodolce di nostalgia per il passato, la tristezza che deriva dalla consapevolezza che il ricordo è solo un’eco di un tempo perduto per sempre e che, per quanto fulgida, la memoria resta intangibile; allo stesso tempo, la malinconia è lenita dall’accettazione della realtà passeggera delle cose, e non è da poco. È la poetica del wabi-sabi (fra le tante cose, ne parlo qui), che chissà perché si manifesta nuovamente solo nell’epilogo. Ho quasi il dubbio che voglia essere un tratto di stile, un po’ come il refrain che accompagna l’esordio di molti capitoli di questo romanzo,[2] in cui il dato olfattivo si impone alla descrizione degli eventi che seguono, conferendo loro la nota dominante. Eppure la poesia è riservata solo alle ultime pagine, senza un motivo per non allargarsi al resto della narrazione. Forse allora è un caso? Non lo so. So solo che è una bella cosa e un peccato insieme.
Poi cos’altro? Ah, sì, il progetto grafico di copertina: pur meno essenziale di quello del primo romanzo e decisamente più stereotipico, fa comunque la sua figura (La grande onda di Kanagawa di Hokusai è un classicone meraviglioso anche se un po’ usurato, ma proprio per questo lo conoscono tutti). Peraltro, ora che il Giappone va molto di moda, capisco anche la facilità con cui le indagini di Takeshi Nishida possano entrare nelle librerie dei lettori, ma per fare di una storia una buona storia il Giappone non basta.
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Note
[1] 18,80 €. Se per caso voleste sapere quale sarebbe un prezzo onesto secondo me, ve lo dico: 13 euro.
[2] Prologo: “Il falco respirava il profumo del mare”; Capitolo 1: “Takeshi Nishida respirava affannato”; Capitolo 2: “La foresta respirava una gentile brezza primaverile”, Capitolo 5: “Tetsuya Nakamura respirava silicio”, e così via, in ordine sparso, per tutto il racconto.