In breve
Takeshi Nishida, investigatore della Omicidi di Tokyo, indaga sulla morte di Yuki Funagawa, ucciso in casa propria con un ombrello di plastica trasparente. La scena del crimine non presenta segni particolari, senonché, analizzando l’arma del delitto, Nishida vi trova sopra un’impronta illustre, appartenente alla persona più insospettabile di tutto il Paese: l’imperatore.
Secondo le leggi giapponesi, l’imperatore non può essere accusato di omicidio, ma la notizia scatenerebbe comunque un terremoto nell’opinione pubblica, perciò Nishida decide di tenerla segreta mentre cerca di scovare l’assassino, ricostruendo come quell’ombrello sia finito nelle mani di Sua Maestà Imperiale.
Questa, all’osso, la trama del romanzo d’esordio di Tommaso Scotti.
Al netto dell’ambientazione, in bella armonia con il periodo che rinnova l’attenzione sul Paese del sol levante – il romanzo esce a inizio 2021 e le Olimpiadi di Tokyo sono alle porte –, la vicenda fatica a decollare e dopo una cinquantina di pagine di rodaggio mi rassegno al fatto che la lettura assomiglierà più a una regata controvento che a una pedalata in discesa. Non tanto per particolari asperità nella scrittura, che è complessivamente buona, malgrado alcune storture, ma per via del poco mordente del racconto in sé, di cui non svelerò più del necessario per le mie argomentazioni e, in ogni caso, mai la soluzione dell’intreccio.
Hāfu, Tommy Lee Jones e tutte cose
Partiamo dal protagonista: Nishida non è un semplice giapponese, ma un hāfu (ハーフ, dall’inglese half), un mezzosangue, figlio di un giapponese e di una occidentale; tanto hāfu da assomigliare a un Tommy Lee Jones sul filo della mezza età. Non solo, la sua doppia origine comporta che in lui conviva, accanto ai tipici modi rigidi e cerimoniosi dei giapponesi, l’istinto occidentale a dire ciò che si pensa in ogni circostanza e a comportarsi e parlare in maniera diretta, in deroga alle convezioni sociali del Paese. Nishida ha ben presente la differenza tra i due stili, sa che almeno nella prossemica e nei rapporti interpersonali il tessuto giapponese è ancora impermeabile ai modi dell’Occidente. Non così è per la lingua, verso la quale l’ispettore si dimostra un fiero conservatore, avversario di tutte le incursioni, perlopiù anglofone, che ne imbastardiscono la purezza. Tuttavia il Nishida che agisce e indaga è molto più occidentale di quanto dovrebbe essere. In altre parole, se a “Tokyo” sostituissimo una qualsiasi città americana e a “Nishida” un qualsiasi comunissimo ispettore Ford, Smith o Anderson, cambierebbe poco. Il gioco dovrebbe consistere nel colpire, o quantomeno affascinare, un occidentale mettendo in scena un contesto “esotico”, lontano, ma questo non succede; anzi, forse risultati più efficaci li otterrebbe su un pubblico effettivamente giapponese, a cui Nishida, quasi per paradosso, potrebbe apparire un po’ meno cliché che a noi.
L’ispettore ha una fisicità imponente, che suscita timore e gli permette di sfoderare una forza sovrumana (sic) quando più gli serve; questo lo avvicina (ma ignoro se e quanto volontariamente) al commissario Yeruldelgger di Ian Manook, personaggio a tratti un po’ caricaturale e cinematografico. A ciò si aggiunge un passato sentimentale travagliato: la separazione, la contesa per una figlia piccola che la madre non gli concede di vedere, salvo chiedere soldi in continuazione per il suo mantenimento. Per il resto, a parte un’eterocromia che nasconde con le lenti a contatto per camuffarsi meglio tra i connazionali, l’ispettore non ha segni particolari, né metodi di indagine “eterodossi-ma-efficaci” o peculiari doti di intuito (si veda, al contrario, l’Adamsberg di Fred Vargas). Si limita a seguire diligentemente, briciola dopo briciola, gli indizi a sua disposizione fino a risolvere il caso – cosa sacrosanta, intendiamoci: che altro dovrebbe fare un investigatore della polizia?! – ma non buca la pagina, insomma non convince molto.
La scrittura
Tralasciando gli altri personaggi, alcuni semplici comparse, altri, i comprimari o i ricorrenti, poco più che bassorilievi, veniamo alla scrittura.
Buona, dicevo, sebbene non sia scevra di alcuni vizi che mi sento di attribuire alla condizione di esordiente dell’autore. Veniali li definirei, senonché hanno disturbato la mia lettura una volta di troppo per poterli trascurare. Vediamoli.
Parole, parole, parole…
Il primo difetto, nonché il più diffuso, consiste nell’uso di inserti-più-o-meno-prolissi-e-dal-sapore-didascalico-che spezzano-la narrazione-per-imbastire-una-spiegazione-degli-eventi-esposta-come-resoconto-e-non-appunto-narrata-o-fatta-emergere-dai dialoghi,-dall’evoluzione-delle-situazioni-e-dei-rapporti-tra-i-personaggi… O in altre parole: spiegoni.
Nel romanzo di Scotti è un fenomeno che si riscontra soprattutto quando vengono introdotti vocaboli giapponesi di cui si vuole spiegare il significato o l’origine. All’inizio della narrazione si trovano utili richiami a piè di pagina: la soluzione in nota, per quanto non sia il massimo, permette di non interrompere forzatamente la lettura per innestare un paragrafo grigio e del tutto esemplificativo, che è facile percepire come estraneo nel ritmo narrativo. L’effetto peggiora se tali innesti vengono posti all’interno di battute di dialogo, come nell’esempio che segue, per il quale sarebbe stato molto meglio troncare dopo il primo punto fermo e mandare in nota tutto il resto:
«Sì, c’è pure una parola giapponese al riguardo: matahara. Che sarebbe maternity harassment. Una delle tante storpiature un po’ senza senso dall’inglese che a loro piacciono tanto. È un problema molto diffuso.»
I casi sono diversi, ma il più fastidioso, secondo me, è il seguente; prima però, due coordinate essenziali sul contesto: 1) Nishida e Joe dialogano (riporto la battuta di Joe in risposta all’ispettore); 2) Nishida e Joe sono entrambi giapponesi (“Joe”è un soprannome per Jōtarō).
«Dogeza? Addirittura?» sbottò Joe sgranando gli occhi. «Cioè mi stai dicendo che c’è stato un tempo in cui il commissario si è dovuto inginocchiare fino a poggiare la testa per terra? Poveraccio, è un gesto di prostrazione davvero umiliante.»
Che cosa c’è di strano in questo passo? La battuta suona più naturale della precedente, ma a pensarci bene perché Joe dovrebbe spendersi in questo modo e con questo grado di dettaglio per dare la definizione di una parola giapponese a un connazionale che, tra l’altro, per esplicita caratterizzazione è un fervente purista (e si presume quindi profondo conoscitore) della lingua? Chiaro è che tutto va a beneficio del lettore, ma dal punto di vista narrativo è, se non sbagliato, di certo straniante, un po’ come lo sarebbe leggere un dialogo tra due italiani in cui uno prorompe: «Sei pizze? Addirittura? Cioè mi stai dicendo che hai dovuto mangiare sei dischi di pasta cotti in forno a legna e conditi con pomodoro, mozzarella e altri ingredienti a piacere?».
Ci siamo capiti.
Girare a vuoto
Altro vizio frequente in molti esordienti: scrivere frasi-riempitivo che sembrano ampliare il concetto, approfondirlo, metterne in evidenza sfaccettature altrimenti inedite che vorrebbero essere la chiave interpretativa di una situazione, e che invece si rivelano non aggiungere o perfino non dire nulla. Anche qui, un paio di esempi dal romanzo:
«Qui sei colpevole fino a prova contraria, testa di cazzo», disse alla fine, azzittendolo.
Ed era vero. Incredibile come basti cambiare una parola per stravolgere tutto.
Come sempre senza preavviso, il giorno si apprestava a finire.
Nel primo caso il senso della battuta (un po’ sempliciotta, a dire il vero, stile “poliziotto cattivo” made in USA) è autoevidente, perché prende un’espressione molto nota e la ribalta: la specificazione che segue ribadisce l’ovvio e azzera l’effetto, già molto modesto, della frase precedente.
Nel secondo caso, invece, la frase vorrebbe essere una semplice transizione temporale, come l’inquadratura su un cielo stellato dopo una scena diurna, ma perché complicarsi la vita con espressioni senza senso? Intendo: quando mai il giorno è finito senza preavviso? Dai, su!
Sofismi inutili
Anche detti arzigogoli o baricchismi (sì, da Baricco): sono una bestia che aggredisce l’espressione di concetti semplici, lucidi, funzionali o, nella maggior parte dei casi, soltanto banali, che però si è tentati di ammantare di inutili drappi, nappe e arazzi, per deviate ragioni estetiche immagino, che in bocca a un personaggio lo porteranno a parlare o pensare in maniere inverosimili, goffe e persino ridicole, smascherando il compiaciuto solipsismo di un autore che ama leggersi più che essere letto e facendo chiedere al lettore “chi si esprimerebbe mai così?”. Soprattutto dopo una notte in discoteca come nel caso che segue:
«Forse ho solo perso il contatto con la realtà. Forse vivo ipnotizzata da un mondo in cui tutto sembra così vicino quando di vicino non c’è più niente. Forse la realtà è che siamo tutti tremendamente soli. Soli e lontani. E così cerchiamo conforto anche dove non c’è. Sostenuti dal miraggio che a qualcuno interessi quello che facciamo, scaldati da fredde icone a forma di cuore. L’amore digitale, che grande illusione.»
Questa battuta, peraltro, fa parte di un dialogo tra due perfetti sconosciuti, perciò appare fuori contesto sotto ogni aspetto e sembra solo dire: «Ciao, sono l’autore e ho avuto un pensiero tipo troppo profondo sull’amore ai tempi del web e devo farlo dire a qualcuno perché è un aforisma tipo troppo esistenziale…». Ecco, non suona tanto bene.
L’acqua cheta…
E infine, la sciatteria. È forse il difetto più facile da affrontare e da emendare, ma anche quello che, sulla lunga distanza, fa più danni, come un graffio del vostro bel gattino, che pare innocuo, ma dopo una settimana vi regala un’infezione da Bartonella. La sciatteria infligge al lettore il vulnus più sgradevole: il fastidio di leggervi.
Nishida pensò che se la notte avesse avuto una regina, sarebbe stata lei.
Gli andò bene, perché a scusarsi in Giappone sono tutti professionisti.
[…] ma fu accoppato dopo pochi minuti.
A Nishida sanguinarono le orecchie.
Peccati veniali, come ho detto, ma che in quantità rischiano di saturare anche il lettore meglio disposto. Scotti si muove sul filo del rasoio, non tracima perché la tensione superficiale lo salva, ma per chi ha poca pazienza potrebbero essere dettagli capaci di far abbandonare la lettura.
Coda
Il capitolo finale, al contrario, si rivela una piacevole perla che però trovo accordarsi poco alle fluttuazioni del resto del romanzo. La prosa si fa delicata, le immagini poetiche si avvicinano alla rarefazione dei componimenti haiku e in qualche modo mi ricorda con piacere le pagine di Aki Shimazaki. Azzarderei persino a dire che potrebbe costituire un racconto a sé.
E con questa clausola dovrebbe finire il romanzo. Dovrebbe, dico, perché non lo fa. Ma come? Non era il capitolo finale? Sì, narrativamente parlando lo è (si intitola peraltro La fine); ma è seguito da un epilogo del tutto evitabile dove, in brevi paragrafetti, il narratore ci ragguaglia sui vari destini dei personaggi. Una soluzione che inserirei nel novero delle sciatterie e che mi porta alla mente la conclusione di certe commedie, in quei pochi minuti tra il finale e i titoli di coda. Peccato.
Un lungo preambolo
Insomma, L’ombrello dell’imperatore: a freddo direi un’opera prima al limite della sufficienza, auspicando sia solo il preludio a opere di maggiore spinta e mordente. Ci sono gli estremi per una serializzazione, in cui dell’ispettore Nishida si potrà sapere di più, affondando negli strati della sua personalità e della sua vita passata; ma un eventuale prosieguo è anche un’ottima occasione per guardare al futuro in prospettiva e mettere in luce in maniera migliore le doti investigative del protagonista, creando situazioni in cui prenda l’iniziativa, sparigli le carte, introduca elementi di rottura nelle rigide meccaniche del sistema giapponese, si muova come un funambolo sospeso tra le regole e ciò che sarebbe giusto fare, anche se questo potrebbe significare contraddirle, quelle regole; un personaggio che in sostanza corra dei veri rischi e sia messo davvero alla prova. Tutto ciò non succede in questo romanzo; Nishida si trascina per una Tokyo anonima, intervallato da capitoli in cui il narratore ricostruisce la filiera che ha portato l’ombrello sempre un po’ più in là, fino a depositarlo accanto al cadavere della vittima, dove è stato rinvenuto: niente di più, nessun compromesso, nessuna discesa a patti svilenti con personaggi svilenti per amore di un bene superiore, nessun ideale, nulla, se non un uomo che fa bene il proprio lavoro. Ma come lui, ce ne sono tanti, quindi perché affezionarsi proprio a Nishida? Per questo auspico anche l’invenzione di casi avvincenti e non semplicemente dalle premesse curiose, come curiosa è la vicenda dell’ombrello dell’imperatore, che avrebbe potuto essere materia di altro genere, ma chissà perché è diventata il lungo preambolo di un poliziesco che non comincia mai.