Cattivi maestri
su Tre volte all’alba
di Alessandro Baricco
Su Baricco ho letto di tutto e un po’. Irriducibili detrattori che lo schifano a prescindere e fedelissimi che lo incensano con altrettanto poco senso critico. Quasi mai, tra chi non lo stima, qualcuno si è premurato di produrre una vera recensione di un suo libro, lamenta lui. (E mi pare legittima la frustrazione di essere giudicati in base al sentito dire o al grado di simpatia che si ispira, piuttosto che per la bontà del proprio lavoro.) La medesima superficialità di giudizio si riscontra però anche in segno contrario: chi ammira Baricco afferma spesso, ma senza dimostrarlo[1], che abbia uno stile eccezionale e che “scriva da Dio” (fate un giro su Anobii). Ecco, ho il forte sospetto che chi dice o pensa questo non abbia ancora ben chiara la differenza tra qualità e successo di pubblico.
Dal canto mio, ho letto diverse opere di Baricco e non me n’è piaciuta nessuna. Un libro dopo l’altro, ho avuto la costante sensazione di venire preso in giro, tra supercazzole, manierismi, trame inconsistenti, poeticità fuori luogo… Il che ha allontanato da me qualsiasi ombra di curiosità verso questo autore, e ho semplicemente smesso di leggerlo. Dopo Tre volte all’alba, una burla confezionata in brossura, ho capito che se proprio avessi voluto perdere il mio tempo, avrei potuto farlo in milioni di modi più soddisfacenti.
Negli anni, però, ho leggermente cambiato il fuoco della mia prospettiva. No, non ho rivalutato le mie posizioni. Intendo dire che ciò che sulla ventina mi sembrava uno spreco imperdonabile di tempo ed energie, ora che ho raggiunto i trent’anni comincio a considerarlo pacificamente parte del mio bagaglio: qualcosa da cui ricavare del buono. Ho imparato che talvolta anche i cattivi maestri sono preziosi.
Nel caso di Tre volte all’alba, ho voluto puntare il mio pur modesto faretto su come sarebbe bene che un autore non scrivesse se volesse scrivere bene.
Tra le voci dei miei venticinque lettori sento già levarsene una a ricordarmi che, mentre io titillo la tastiera del mio portatile, Baricco vende migliaia di copie, scrive un libro dopo l’altro, dirige una scuola di scrittura eccetera.
E tuttavia, questa Voce farebbe bene a tacere perché, primo, a fare brutte figure ci si mette un attimo, e io vorrei evitarglielo. Secondo, sono un lettore – per diletto e per mestiere –, quindi ho sia il diritto sia la capacità di farmi un’opinione sulla letteratura che “consumo”. Perciò silenzio, Voce, ché si fa un discorso serio.
Premessa
Tre volte all’alba viene menzionato, in origine, nel romanzo Mr Gwyn.
E diciamole due parole anche su questo: uscito nel 2011, Mr Gwyn racconta del talentuoso scrittore eponimo deciso a farla finita coi romanzi. Però, campare bisogna campare, quindi che si fa? Ci si inventa di ritrarre le persone, ma mica coi pennelli, no… Con le parole! Notevole, se solo ci fosse una minima traccia di questi “ritratti” all’interno del romanzo, e a voler escludere a tutti i costi opere come Poeti maledetti di Paul Verlaine, una raccolta di prose definite dall’autore stesso “ritratti” di suoi contemporanei come Rimabud e Mallarmé… O L’ingegnere in blu, di Arbasino, un ritratto – appunto – di Carlo Emilio Gadda. Tanto per fare un paio di esempi.
Vabbè.
Verso la fine di Mr Gwyn viene citato un romanzo fittizio intitolato proprio Tre volte all’alba, scritto da un certo Akash Narayan. D’un tratto, però, confessa Baricco
… mentre scrivevo quelle pagine mi è venuta voglia di scrivere anche quel piccolo libro, un po’ per dare un lieve e lontano sequel a Mr Gwyn e un po’ per il piacere puro di inseguire una certa idea che avevo in testa.
“… E un po’ per spremere fino in fondo il mio pubblico” sembra essersi dimenticato di scrivere. Che poi non ci sarebbe niente di male, intendiamoci. Chi vive di scrittura, bravo lui, vende la propria opera al pubblico, e che i soldi siano sporchi e puzzino (quando vanno in tasca agli altri) o che “l’arte non ha prezzo” sono cose tutte italiane di cui dovremmo liberarci. È anche vero, però, che la merce deve valere la spesa.
E qui non parlo di soldi: parlo dell’investimento di tempo, energia e fiducia che il lettore fa nei confronti di un libro e del suo autore. Esiste il gusto personale, naturalmente, non sia mai che ce lo dimentichiamo. Così come esistono momenti sbagliati per leggere un certo romanzo, che ce ne danno un pessimo imprinting e possono spingerci ad abbandonarlo per sempre, a volte a ragione, a volte no.
Ma esistono anche libri farlocchi.
L’avvertenza
Per quel che riguarda nello specifico Tre volte all’alba, voglio analizzare qui il primo dei tre racconti che contiene. Gli altri due condividono gli stessi protagonisti, la medesima struttura e le medesime opacità. Perciò – ed è terribile da dire, me ne rendo conto – uno vale l’altro.
E allora cominciamo dall’inizio, cioè dalla primissima delle superflue contorsioni baricche: l’avvertenza.
Queste pagine raccontano una storia verosimile che, tuttavia, non potrebbe mai accadere nella realtà. Raccontano infatti di due personaggi che si incontrano per tre volte, ma ogni volta è l’unica, e la prima, e l’ultima. Lo possono fare perché abitano un Tempo anomalo che inutilmente si cercherebbe nell’esperienza quotidiana. Lo allestiscono le narrazioni, di tanto in tanto, e questo è uno dei loro privilegi.
Neanche una mezza dozzina di parole, e già si inciampa in una fumosità assoluta che, se assunta a cifra stilistica, non può che contaminare a cascata tutti gli apparati del testo, dalle frasi che non vogliono dire niente fino alle singole parole, forse scelte a caso o forse soltanto per come suonano o per ciò che evocano, malgrado esso non sia la verità. Sì, perché Tre volte all’alba non è “una storia”, e chi le storie le scrive da trent’anni e insegna a farlo agli altri – oltre a essere l’autore dell’opera in questione – dovrebbe saperlo bene. Come dicevo pocanzi, questo libretto contiene tre racconti, di certo conchiusi, ciascuno a sé. Hanno punti in comune, si capisce, ma non formano un organismo narrativo unitario. Sarebbe tanto come dire che tre fratelli sono la stessa persona perché condividono i genitori.
Subito dopo viene un pasticcio che è difficile giustificare: ciò che stiamo per leggere, dice Baricco, è “verosimile” eppure “non potrebbe mai accadere nella realtà”. Il lettore sprovveduto crederà di avere davanti agli occhi una rara finezza, e invece sta solo contemplando una stupidaggine così grande che in effetti potrebbe essere difficile comprenderla a un solo sguardo.
Sappia costui che esiste un principio logico detto di “non contraddizione”, per il quale affermare una cosa e il suo contrario rende la proposizione falsa. A qualcuno suonerà ovvio, ma Baricco sembra essere il primo a prenderci per fessi, quindi credo sia bene ribadirlo.
Proseguiamo.
Una tendenza convenzionale nella scrittura contemporanea è quella di usare con parsimonia e ragionevolezza le triple, ovvero sequenze di tre elementi: tre aggettivi, tre avverbi, tre volte all’alba… Quella roba lì.
E perché mai? Innanzitutto per una questione di ridondanza, prosodica e semantica. Le triple hanno il frequente risultato di appesantire un testo (per lo meno in prosa) e dal punto di vista del significato si traducono spesso in un accumulo di sinonimi, e da lì alla ripetizione è un attimo.
Se poi la tripla che abbiamo in mente è di una banalità sconcertante, nessuno ci prenderà mai sul serio, perché avremo dimostrato di padroneggiare male sia la retorica sia la lingua. Eppure a Baricco sembra bene di dover specificare che i suoi personaggi si incontrano per tre volte “e ogni volta è l’unica, e la prima, e l’ultima”. Ora, l’aggettivo “unico” racchiude in sé tutto ciò che ci serve sapere sulla qualità di queste “tre volte”: se ognuna è l’unica, è ovvio che sia la prima e anche l’ultima. Ma evidentemente ai seguaci del culto piace sentirsi ripetere sempre la stessa cosa, un po’ come a messa. O forse Baricco pensa che ai suoi lettori manchi la facoltà di comprendere un testo scritto…
La seconda metà dell’avvertenza precipita nella voragine della stupidità, ma lo fa con la raffinata mollezza dello scrittore à la page che si accomoda su una Chesterfield, accavalla le gambe lentamente, liscia la piega dei pantaloni e ti osserva attraverso i suoi occhialetti, mentre una bava di fumo azzurro si leva dalla sigaretta che stringe con garbo tra l’indice e il medio della mano destra. Intanto, tra i circonvolvoli sprigionati dal tabacco acceso, la mano sinistra ricama nell’aria dei gesti che accompagnano una dissertazione sul Tempo, un Tempo anomalo, che le narrazioni hanno talvolta il privilegio di allestire e così via. Ma questo scrittore è tanto pieno di sé da non lasciar parlare nemmeno le proprie parole: te lo deve dire lui a cosa vai incontro, e solo dopo potrai leggere in pace. Non sia mai che tu non capisca una mazza.
Ecco, non so bene cosa pensare di questo Tempo anomalo. Mi viene in mente una sorta di wormhole, un buco nel tessuto della realtà che consenta al principio di non contraddizione di venire contraddetto. Dev’essere per forza un elemento di fantascienza o una qualche forma di magia, dal momento che “inutilmente si cercherebbe nell’esperienza quotidiana”. Però, attenzione: è verosimile.
Interpreto questa metafisica in due modi. O è un tentativo di nascondere con drappi e nappine la pigrizia di dedicarsi al montaggio di una narrazione come si deve, oppure è l’equivalente di un deus ex machina, la bestia nera di qualsiasi scrittore che abbia un minimo di amor proprio. In entrambi i casi, mi sa tanto di un modo per lavarsi le mani della propria storia, abdicare alla responsabilità di darle un senso e demandare così a qualcosa di trascendentale, le narrazioni, il compito di allestire un Tempo anomalo e via dicendo, sull’onda dell’onanismo letterario.
Ma perché Baricco mette le mani avanti in questo modo? Perché sente il bisogno di spiegare al lettore cosa troverà nel suo libro? Peraltro con un trafiletto che sembra una quarta di copertina un po’ sciocca, buttata giù in fretta e furia da uno stagista, e invece è una prosa d’autore.
Voglio dire, davvero una raccolta di racconti brevi a cui serve un’avvertenza propedeutica alla comprensione dei suoi contenuti può essere ritenuta un buon libro? Perché i casi sono di nuovo due: o Baricco pensa di aver tirato fuori dal cilindro qualcosa di altissimo livello – e così non è –, oppure non ha alcuna stima del proprio pubblico.
I racconti, in breve
*** Attenzione: questo paragrafo contiene spoiler ***
Per tre volte Malcolm e Mary Jo si incontrano in un hotel.
Nel primo racconto sono entrambi sulla quarantina, lei è un poliziotto che per qualche motivo detesta i concierge e ha una visione cinica della vita; lui è un venditore di bilance che ha commesso un crimine, ma non sappiamo quale. Alla fine lei lo arresta.
Nel secondo, Malcolm è un anziano concierge. Mary Jo è un’adolescente stronza, incinta, attratta dai ragazzi sbagliati. Malcolm la ammorba con un pippotto sulla vita e la luce, le racconta di essere stato in galera per omicidio e la convince a mollare il ragazzo violento a cui si accompagna. Da grande Mary Jo odierà i concierge senza un valido motivo narrativo, se non quello di palesare la connessione con il primo racconto.
Nel terzo, Malcolm è un bambino e Mary Jo una detective disillusa e prossima alla pensione. Malcolm è traumatizzato dall’incendio della sua casa che lo ha reso orfano. Mary Jo lo porta lontano per farlo svagare; intanto ripensa agli errori sentimentali della sua vita e decide di rimediare.
In ogni racconto ci sono indizi di quel “Tempo anomalo” di cui eravamo stati avvertiti e che rende possibili questi incontri. Se ci vogliamo credere.
Io la vedo piuttosto come una variazione sul tema con qualche elemento di raccordo accalappia-gonzi. Un esercizio di stile di quelli che forse ti appioppano alla Holden, e questo è l’esempio dell’insegnante.
Il primo racconto
Partire da simili premesse non può portare a una lettura felice. E infatti il primo racconto ha fin dalla prima pagina un retrogusto di plastica. E anche di “buttato lì”, senza troppa cura per i dettagli. Un senso di trascuratezza perdonabile solo a un canovaccio, tutt’al più a una prima bozza appena terminata, cioè prima che l’autore rimetta mano al tutto.
Vago Vaghissimo
Il primo difetto che si impone al lettore è la già citata vaghezza.
C’era quell’albergo, di un’eleganza un po’ appannata. Probabilmente era stato in grado, in passato, di mantenere certe promesse di lusso e di garbo.
Esordisce così, e subito mi chiedo: quale albergo? Quello, dice Baricco, e tanto mi basti. Io prendo e incasso: magari è presto, non siamo neanche a metà della prima riga. Ma già so – e la lettura me lo confermerà – che di questo albergo non saprò mai un bel niente. È un teatro di posa del tutto accidentale. I racconti potrebbero essere ambientati ovunque, alle poste, in panetteria, alla biglietteria della stazione, è uguale.
L’unica cosa che sappiamo è che forse ha mantenuto “certe promesse di lusso e di garbo”, qualunque cosa voglia dire. È una caratterizzazione caliginosa: sì, d’accordo, lascia intravedere un velo di decadenza, ma ciò che davvero traspare è che ci troviamo da qualche parte tra un ostello di tossici e un sette stelle emiratino. Più vago di così… Ma immagino che a questo punto qualcuno sia già stato travolto comunque dal fascino che l’indistinto, la sfumatura delle percezioni, l’uso premeditato del plurale (“certe promesse”) vorrebbero generare. Io che sono esigente – ma qualcuno forse direbbe arido – provo solo fastidio, perché il fumo negli occhi fa lacrimare.
… una donna entrò, a quell’ora strana della notte, apparentemente pensando ad altro, appena scesa da un taxi.
Qui Baricco scomoda persino l’antonomasia: “quell’ora strana della notte”. Illa ipsa direbbero i latini, proprio lei, l’inconfondibile, non puoi sbagliarti. Se solo sapessimo di cosa sta parlando…
Dunque, a quell’ora della notte – facciamo finta di conoscerla tutti – entra una donna “apparentemente pensando ad altro”. Bene, la parola “altro” ha per sua natura un significato relativo: l’altro è tale rispetto a qualcosa, ma qui Baricco non ci dà termini di raffronto e tutto annega ancora una volta nell’inconsistenza.
Un sentore di vuoto siderale accompagna la lettura (attenta) di questi racconti. Ma l’autore è molto bravo a deviare l’attenzione, di questo gli do atto: per camuffare l’assenza di sostanza anche solo narrativa si appella a un qualche senso comune che in realtà non abbiamo mai avuto, ma che se ben confezionato, come un oroscopo, appena lo incontriamo ci sembra naturalmente nostro.
Prendiamo la porta dell’hotel:
è una bella porta girevole in legno, un particolare che sempre inclina alle fantasticherie.
Oppure l’abbigliamento di Mary Jo, che
… le dava l’aria intrigante di coloro a cui è successo qualcosa.
Adesso andiamo con ordine: la porta girevole.
Alzi la mano chi ha mai fantasticato osservandone una. Peraltro, quali fantasticherie evocherebbe tale oggetto? Intendo, che cosa ci vuole dire Baricco? Quale immagine, riflessione, emozione, fantasia vorrebbe indurre nelle nostre menti? Quale innesco sta cercando dentro di noi per scatenare tutta la potenza narrativa di questo racconto? Ve lo dico io: nessuno. In queste righe non c’è niente. Non un brandello di anima, non un briciolo di indirizzo narrativo, sono parole che forse suonano bene e che proiettano l’ombra di qualcosa di romantico, ma non contengono nulla se non l’ego dello scrittore. E qui ci troviamo di fronte a un altro dilemma: o l’autore ha davvero pensato a questo aforisma “per fare colpo”, ma in fondo, e per volontà, è solo una sagoma di cartone dietro cui non c’è niente; oppure ci ha messo davvero qualcosa di sé e le porte girevoli lo spingono davvero a fantasticare. Ma allora dovrebbe fare la grazia di argomentare un po’ di più, perché a me e a tanti altri delle porte girevoli non è mai fregato niente.
Vabbè, dai, non fossilizziamoci. Procediamo con “l’aria intrigante di coloro a cui è successo qualcosa”.
Ci sono diversi problemi in queste dieci parole. Innanzitutto, sarebbe bello stabilire che cosa sia un’aria intrigante. C’è del fascino, è chiaro, c’è una componente di attrattività, ma questi sono gli effetti. Io voglio conoscere le cause per cui l’aria di coloro a cui è successo qualcosa è intrigante. E la risposta sarebbe da ricercare in ciò che è accaduto loro. Ma forse Baricco era in vena di tirchieria quando ha scritto questo racconto, e liquida la questione con uno sciattissimo “qualcosa”.
Ora, un buon accorgimento per dare forma al proprio stile consiste proprio nel non dire sempre tutto, nell’evitare la didascalia e la ridondanza che ne deriva. La buona scrittura, soprattutto narrativa, crea un contesto e ne tiene conto. Ciò le permette di affidarsi molto al non-detto, al già-detto, al sottinteso, alle allusioni, all’esperienza comune… In questo racconto però il contesto manca del tutto, le informazioni vengono centellinate in dialoghi assurdi ed estenuanti, di cui non ci importa, ma che dobbiamo subire, mentre dove ci vorrebbe un po’ di rifinitura, la narrazione è lasciata a sé stessa, scaraventata sulla pagina con una approssimazione disarmante.
Ma prendiamo atto di ciò e facciamo uno sforzo di immaginazione. Cosa sarà mai successo a questa donna? Visto che il termine “qualcosa” equivale qui a una falla da cui il veliero della narrazione imbarca acqua senza possibilità di scampo, tocca noi lettori metterci una pezza, per quel che si può. Quindi, vediamo: le è morto un parente? Ha fatto un incidente in auto? Le è nato un nipote? Ha vinto alla lotteria? Si è licenziata? Oppure ha appena trovato lavoro? Ha scoperto di essere incinta? O magari ha appena perso il suo bimbo. Forse ha litigato con il fidanzato. Anzi, no, lui le ha chiesto di sposarlo… Chissà. A Baricco non importa. E se non importa a lui…
Lorem ipsum
In tipografia, per avere un’anteprima dell’ingombro di un testo sulla pagina, la sua resa grafica, si usa il cosiddetto lorem ipsum. È un testo riempitivo, un assemblaggio di passi casuali tratti dal De finibus bonorum et malorum di Cicerone che sembra leggibile, ma non ha alcun significato.
Fra i molti vizi di Tre volte all’alba, c’è anche il fatto di contenere passi che, proprio come il lorem ipsum, sembrano un testo vero e proprio ma non hanno spessore, significato né funzione narrativa. Facciamo qualche esempio:
Aveva una sua eleganza nel muoversi, ma anche sembrava un’attrice appena rientrata dietro le quinte, sollevata dall’obbligo di recitare e tornata in un qualche se stessa, più sincero. Così aveva un modo di mettere i passi, di poco più stanco, e di reggere la minuscola borsetta, quasi un lasciarla.
La pigrizia descrittiva tormenta queste pagine, e così l’eleganza, di per sé non bisognosa di descrizioni, diventa un’eleganza “tutta sua”, di Mary Jo. Quindi è particolare e per questo meriterebbe qualche parola in più. Invece no. Mary Jo è elegante “alla sua maniera”, fidatevi. E poche domande.
Segue un tentativo di rendere archetipica un’immagine di assoluta irrilevanza: un’attrice torna dietro le quinte dopo aver recitato. Sembra volersi richiamare a qualcosa, attingere dalle nostre esperienze un modello significativo (come l’Eroe o il Mentore) ma no, la frase fallisce, si accascia sull’interlinea e resta lì, inerte.
Intanto un’eco sbiadita di filosofia pirandelliana (tutti indossiamo una maschera) stuzzica con un bastone la salma dell’archetipo appena abortito. E l’attrice ritorna “in un qualche se stessa, più sincero”: espressione di rara goffaggine semantica e sintattica.
Allora Mary Jo mette un piede davanti all’altro, in un generico “modo”. Il modo di chi? Il suo proprio? Unico e perfettamente distinguibile? Ah, se solo ci venisse raccontato. Oppure il passo dell’attrice? Esiste anche l’archetipo del passo d’attrice?! Averlo saputo!
E questo modo tutto suo, come l’eleganza, è “di poco più stanco”. L’aggettivo è al grado comparativo, Baricco istituisce un raffronto, ma di nuovo dimentica il termine di paragone, e noi restiamo aggrappati a speroni di frasi crollate, dondolandoci da un periodo all’altro, nella fiacca speranza di non cadere di sotto.
Ma a dissolvere la nostra presa, ecco la borsetta: Mary Jo la regge, ma quel reggerla è “quasi un lasciarla”.
Ricordate il principio di non contraddizione? Bene. Ampliamo l’argomento. Per essere credibili e conservare intatto il patto narrativo, è bene rispettare la coerenza interna, ma le risorse della letteratura (e dell’arte in generale) sono molto più varie, profonde e complesse di quelle della logica. Il principio di non contraddizione vale finché ci teniamo nella sfera dei fatti; ma se, per esempio, ci addentriamo nelle emozioni, ecco che l’ossimoro è perfettamente plausibile. E quindi possiamo sperimentare, chessò, una “allegra tristezza”, quando ci manca qualcuno ma scoppiamo a ridere al ricordo di una sua vecchia battuta o di un bel momento passato insieme. Il mio è un esempio senza pretese ma credo renda l’idea. L’ossimoro è una strana bestia, difficile da domare e spesso, quando abbiamo la sensazione di averlo padroneggiato, in realtà abbiamo scritto una solenne cazzata. Tipo questa della borsetta. Il gioco però è sempre lo stesso: sfumare i contorni e intorbidire le acque.
Un altro esempio? Eccolo qua:
… la vide, e allora accavallò la gamba sinistra sulla destra, quando prima era la destra che poggiava sulla sinistra – senza ragione.
I motivi della sciocchezza di questo passo stanno tutti nelle due parole in clausola: “senza ragione”. Mary Jo entra nella hall, Malcolm la vede, e Baricco, potendo decidere su cosa dirigere la nostra attenzione, sceglie questo gesto. A che pro? Intendiamoci, tutti noi compiamo minime azioni senza ragione, spesso non ce ne accorgiamo nemmeno. E se l’intento fosse di conferire maggiore realismo al personaggio di Malcolm, potrebbe anche andare. Ma qui siamo in un’altra dimensione: la dimensione in cui ci sono un mondo fittizio e un demiurgo che lo plasma e stabilisce cosa rendere visibile e cosa no. Al che mi chiedo, con tutto quello che Baricco ha deciso di omettere nelle pagine precedenti, perché puntare il riflettore su un’azione tanto misera in sé e per sé, nonché inutile in termini narrativi? E perché poi ribadire il fatto che tutto ciò accade “senza ragione”? Non ha nessun senso, nemmeno estetico.
Se neanche così vi sentite presi in giro, non so che dirvi. Mi dispiace per voi.
Ma facciamo un terzo esempio.
L’uomo sembrò per un attimo pensare che in effetti avrebbe potuto anche funzionare, ma in realtà non era a quello che stava pensando.
Chiaro? Malcolm sembra pensare a una cosa, ma Baricco si premura di farci sapere che non è davvero così. Quindi cos’è che occupa i pensieri del suo personaggio? Forse, fra qualche decennio, un esegeta del Nostro ci darà la risposta. Nel frattempo, se siete aspiranti scrittori in cerca di un modello, per favore cercate altrove.
Il peso delle parole
Mi sento un disco rotto: le parole per un romanziere sono, letteralmente, gli attrezzi del mestiere. Perché non prendersene cura? Che senso ha? Insomma, a scrivere libri non è che ci capiti, te la vai a cercare, lo vuoi.
Invece, in un cortocircuito che non riesco a spiegarmi, le parole di questi racconti non sono curate, non sono scelte, ma sono buttate lì. Qualcuno che se le beve, nel mucchio lo troviamo, no?
Andiamo veloci, che a questo punto sarete arrivati in due, a corto di fiato e di pazienza. Ora vi farò alcuni indovinelli basandomi su citazioni dal libro.
1) Che cosa distingue dei “quadri incorniciati con devozione” da altri quadri qualsiasi, magari incorniciati da un artigiano arrabbiato, stanco e in crisi con la moglie?
2) Che cosa distingue una “sedia povera” da una sedia normale o “ricca”?
3) Come descrivereste (perché Baricco non lo fa) il concetto di “luce ambigua”?
4) Qual è il significato nascosto della descrizione “… i suoi occhi, che aveva chiari ma grigi”? E qui la spiego, perché forse non è immediata. Intendo: se partiamo dal presupposto che, nel ventaglio dei colori dell’iride umano, il grigio – genericamente inteso, dato che Baricco due parole in più non le spende – è annoverato tra i colori chiari, che senso ha sottolineare l’opposizione “chiari ma grigi”?
5) Dove sta la logica nella frase “lo disse senza enfasi, ma forte”?
Il senso della misura
Potremmo andare avanti a lungo, i racconti sono tre. Ma anche il mio tempo è prezioso e ho detto quello che volevo. Perciò vi lascio i miei due spicci conclusivi.
Le parole hanno un peso, abbiamo detto, e ogni scrittore ha una bilancia interiore con cui misurarlo. Quella di Baricco forse è rotta o tarata su un’altra unità di misura. O forse gliel’ha venduta Malcolm…
Restando nella metafora, abbiamo una bilancia interiore un po’ per tutto: è lo strumento con cui soppesiamo la bontà delle nostre scelte. E Baricco ha scelto di far uscire Tre volte all’alba a tre o quattro mesi di distanza da Mr Gwyn, un tempo ridicolmente breve.
In un’intervista parla di “intermittenza buffa”, di “giocare con il calendario e con le consuetudini”, dello scrivere liberamente… Tutto molto bello e romantico. Ma forse un libro, se vuol essere qualcosa in più che un parlarsi addosso, dovrebbe decantare, affinarsi.
La bilancia interiore di Baricco avrebbe dovuto suggerirgli di aspettare, e non perché due libri dello stesso autore non possano uscire a pochi mesi di distanza, ma perché il risultato di questa operazione, in questo caso specifico, conferma i sospetti peggiori: il libro è stato scritto in fretta, per cavalcare un’onda (diciamo pure quella dell’ispirazione, ma io sono di un altro avviso). E il risultato è un libretto modesto, pieno di difetti facilmente emendabili se solo qualcuno, a suo tempo, ci avesse dedicato un po’ di attenzione e di pazienza.
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Note
[1] Rivelazione: citare il tuo passo preferito del tuo autore preferito non è dimostrare che quell’autore scriva bene.