Con questa terza fronda si chiude il breve ciclo sull’animalità letteraria. Se ve le siete perse, potere recuperare qui le due precedenti: Una scatola foderata di specchi e Cultura contro natura.
Buona lettura.
L’ALFABETO INESAURIBILE
Bestiari medievali e umanità allo specchio
Ignoriamo il senso del drago, come ignoriamo il senso dell’universo,
ma c’è qualcosa nella sua immagine che si accorda
con l’immaginazione degli uomini,
e così il drago appare in epoche e a latitudini diverse.
J.L. Borges
Il libro della natura supera in complessità e criterio il più immaginifico dei marchingegni concepiti dall’uomo. Il suo studio richiede attenzione, perizia e disponibilità all’esercizio della profondità: una profondità di pensiero e soprattutto di lettura. Decifrarlo richiede la consapevolezza che, almeno per quanto ci riguarda, non saremo noi, oggi, a districarne la matassa; è necessario pertanto che si studi e si lavori insieme per quelli che verranno, così come noi, oggi, prendiamo le mosse da chi ci ha preceduti nel solco della cultura.
Sin dall’antichità analizzare i regni della natura ha costituito il metodo più efficace per avvicinarsi alla comprensione del disegno che la governa. La tradizione letteraria, con l’ausilio imprescindibile della filologia, ci ha consegnato un testo esemplare di questa tensione conoscitiva: il Physiologus greco. Composto tra il II e il IV secolo d.C. ad Alessandria d’Egitto, il Physiologus è suddiviso in quarantanove capitoli che descrivono la natura di animali (anche leggendari), pietre e piante. Il catalogo è denso di simbolismo scritturale e ne sono testimonianza le frequenti formule di apertura dei singoli capitoli, tratte dalla Genesi, dai vangeli, dai Salmi. Luigina Morini[1] sottolinea la centralità di questo aspetto: la preponderanza dell’argomento scritturale su quello naturalistico individua nel Physiologus un vero e proprio manuale di dottrina cristiana. Morini nota ancora come il termine stesso “fisiologo” rimandi non tanto a uno studio della φύσις (physis) – cioè della natura – da una prospettiva didattico-divulgativa, quanto più a una sua esegesi proprio sulla scorta delle Scritture. Anche l’influenza del pensiero platonico su questo libello è evidente: ogni elemento sensibile ha una propria matrice ideale (diremmo iperurania) da cui discende e di cui è controparte terrena. Il comportamento degli animali, le proprietà delle pietre e delle piante sono allegoria delle virtù cristiane che l’uomo è chiamato a mettere in pratica o dei vizi da cui deve astenersi. Fra i molti esempi, vi è il caso della lucertola solare, che invecchiando perde la vista e la ritrova appostandosi a oriente, ricevendo la luce del sole che sorge;
allo stesso modo anche tu, o uomo, […] cerca il Sole nascente della giustizia, Cristo Dio nostro, il cui nome è detto Oriente nel libro del profeta [Zac., 6.12], ed Egli aprirà gli occhi del tuo cuore.[2]
O ancora, quello del leone-formica, ibrido dalla doppia natura carnivora ed erbivora che lo porta a morire di fame:
così anche ogni uomo indeciso, incostante in tutti i suoi disegni. Non si deve avanzare per due vie, né parlare doppiamente nella preghiera.[3]
Un passaggio nodale nella formazione del genere “bestiario” è costituito dalle traduzioni latine del Physiologus greco. Iniziate in epoca incerta, la più nota rimane alla cosiddetta versio B, datata intorno all’VIII secolo d.C. La sua evoluzione, segnala Morini, «è, in sostanza, l’evoluzione del genere stesso in Occidente».[4] Nel corso dei secoli la versio B subisce sistematici innesti dal libro XII (De animalibus) delle Etymologiae di Isidoro di Siviglia e raggiunge la fisionomia detta versio BIs, nucleo di quasi tutta la tradizione romanza dei bestiari. L’argomento zoologico costituisce ancora l’alfabeto privilegiato per interpretare il libro della natura, ma da una prospettiva mutata: certo la tradizione patristica e scritturale non si dissolve, ma nasce un nuovo sguardo scientifico-enciclopedico che si fonda sull’apporto di Isidoro, accanto alla riscoperta di Plinio, che di Isidoro è stato fonte primaria. Il codice non è più solo allegoria di matrice scritturale, ma si fanno strada lo studio e la ricostruzione delle etimologie quali mezzi per la descrizione delle essenze.
Il merito della divulgazione scientifico-enciclopedica del sapere zoologico, nel XII secolo, spetta a Philippe de Thaün, compilatore del Bestiaire (1121-1135), primo bestiario in volgare che apre così al folto pubblico dei cosiddetti illitterati, coloro che non conoscevano il latino. Quasi allo stesso tempo, elementi tipici dei bestiari confluiscono nella produzione lirica trobadorica e viceversa. Il più noto trovatore ad avvalersi della tradizione bestiaria è Rigaut de Berbezilh (XII-XIII secolo). Nel contesto di una poesia ispirata al “servizio d’amore” verso la donna, Rigaut fa uso di similitudini tipiche dei bestiari, svincolandone la simbologia dalle precedenti fonti scritturali moralizzanti e volgendola a tematiche profane, di natura amorosa. Ne è un esempio la famosa canso Atressi con l’orifanz (Così come l’elefante), citata peraltro in Novellino XLIV, e di cui riporto la prima cobla a titolo di esempio:
que quant chai no·s pot levar
tro li autre, ab lor cridar, de lor voz lo levon sus,
et eu voill segre aquel us,
que mos mesfaitz es tan greus e pesanz
que si la cortz del Puoi e lo bobanz
e l’adreitz pretz dels lials amadors
no·m relevon, jamais non serai sors,
que deingnesson per mi clamar merce
lai on prejars ni merces no·m val re.
che quando cade non può levarsi
finché i suoi compagni gridando
non lo levino con le loro voci, anch’io voglio far così,
ché la mia colpa è tanto grave e pesante
che, se la splendida corte del Puy
e lo schietto pregio dei leali amanti
non mi rialzano, degnandosi di invocare
pietà per me dove pregare e chieder pietà
a me nulla vale, giammai tornerò in piedi.
Se nella tradizione moralistica l’elefante è l’uomo caduto nel peccato che non può rialzarsi se non grazie alla voce dei profeti e di Cristo, nell’accezione poetica profana è il cavaliere caduto in disgrazia presso una donna e al quale potrà venire in aiuto solo un consesso di dame e altri cavalieri innamorati che, con le loro voci, preghino appunto la donna di concedergli il perdono.
Prima ancora del Berbezilh, la tradizione trobadorica accosta tema zoologico e amor profano in un testo di Guglielmo IX (1071-1126), Farai un vers pos mi sonelh (Farò un canto poiché sonnecchio), attraverso l’emblema del gatto. Un cavaliere viene scambiato per un pellegrino da due donnas de mal conselh (donne di mal consiglio) che tentano di concupirlo ed egli, gaudente, decide di approfittare dell’equivoco. Le due sono quasi certe di farla franca, dal momento che l’uomo si finge muto e dà l’impressione di non poter raccontare a nessuno il misfatto, ma per sincerarsene lo sottopongono a una prova: gli appoggiano un gatto sulla schiena, l’animale vi si aggrappa con le unghie e le due donne lo tirano verso i talloni del finto pellegrino; questi, pur di non tradirsi e godere della situazione, tollera il supplizio senza proferire parola.
Il gatto, per tutto il periodo che precede la Peste Nera del Trecento, non gode di buona fama; in particolare, qui simboleggia la lussuria delle due donne, aggravata dal loro essere sposate e dall’empietà di voler sedurre un pellegrino (presumibilmente un monaco o un chierico). Più in generale, nell’immaginario medievale il gatto è legato all’oscurità per la sua ottima vista al buio e l’abitudine di essere attivo anche a notte fonda. Il binomio oscurità-lussuria culmina nei sabba stregoneschi che vedono, al termine delle orge rituali, l’apparizione del demonio sotto forma di gatto. Infine, una falsa etimologia associa il gatto, catus in latino, all’eresia catara,[5] nemica della Chiesa e di necessità legata al maligno.
Il genere “bestiario” compie un altro passo decisivo, da antologia di exempla teologico-morali a vero e proprio alfabeto amoroso di matrice cortese, con Li Bestiaires d’amours di Richart de Fournival (1201-1259 o 1260). Debitore verso la tradizione di Berbezilh, Fournival costruisce un racconto pseudoautobiografico di un amore non corrisposto: attraverso cinquantasette figure animali ripercorre la vicenda d’amore e riscontra nelle nature e nei comportamenti delle bestie elencate le ragioni, le virtù e i vizi degli amanti. A questa altezza sono ormai consolidati nel genere i motivi convenzionali della lirica trobadorica, fra i quali la servitù d’amore del poeta verso la dama, che discende dalla superiorità di lei rispetto allo spasimante; la virtù nobilitante del sentimento e la necessità di tenerlo nascosto (motivo del çelar), per salvaguardarlo dalle insidie delle malelingue (motivo del lauzengier) che vogliono rovinarlo. Il passaggio di testimone tra argomento sacro e profano è meno tranchant di quanto sembri; anzi, nell’influsso della lirica cortese sul genere “bestiario” ancora molto si conserva dell’originaria tensione conoscitiva verso il libro della natura: accanto all’argomento erotico, il divino persiste sublimato nella donna, oggetto di lode e venerazione, sola depositaria della fedeltà e della felicità dell’amante, nonché suo unico tramite per elevarsi spiritualmente. La grammatica che regola questo pensiero rimane, a mille anni dal Physiologus greco, il catalogo animale, in cui ogni creatura è lettera di un alfabeto inesauribile che, nelle sue varie combinazioni, dà forma al ritratto di un’umanità alla continua ricerca di una chiave di lettura di sé e del mondo.
*
Note
[1] Luigina Morini, (a cura di), Bestiari medievali, Einaudi, Torino 1996.
[2] Francesco Zambon (a cura di), Il Fisiologo, Adelphi, Milano 1975, p. 41.
[3] Ivi, p. 59.
[4] Luigina Morini (a cura di), cit., p. XII.
[5] La parola “cataro” deriva invece dal greco katharόs (καθαρός), “puro”.