Cultura contro natura

Federigo Tozzi, Bestie, 2017 Illustrazione di copertina di Luciano Ragozzino
Come anticipato nella fronda precedente, state per leggere l’introduzione che il mio caro amico Davide Ferrari scrisse in apertura a una ristampa di Bestie – distribuita dalla Libreria CLU (ora libreria San Fermo) di Pavia in una cinquantina di copie numerate e fuori commercio nell’ottobre 2017 – e contestualmente apparsa in veste di editoriale sul numero 1 della rivista Lexis. I libri che non ti aspetti.
Ringrazio Davide di avermi concesso di ripubblicare qui il suo testo, nonché di essere il primo contributore di questo spazio. (Scorri in fondo a questo articolo per sapere di più su Davide e sulla sua attività di artista e scrittore.)
Bestie, dunque: è di questo che si parla. E dell’animalità, condizione che ancora ci accomuna tutti, malgrado la cultura ci allontani sempre più dalla natura.
Ma come? A dirla in questi termini sembra che la cultura sia qualcosa di estraneo e negativo, una corrente che ci trascina lontano dai luoghi dell’essere che naturalmente saremmo portati ad abitare. Eppure è così: cultura è il contrario di natura, di animalità. Non per altro, si è soliti definire spregiativamente “animali” persone incolte, ignoranti, e che a causa di questa loro condizione adottano atteggiamenti e comportamenti contrari alle norme sociali, quindi incivili, animaleschi appunto.
Si potrebbe obiettare che la cultura e la tensione verso di essa siano connaturate all’uomo, gli siano naturali… Ma così non è, allo stesso modo in cui non è naturale indossare un cappello, un paio di jeans o un paio di scarpe, per quanto ci calzino alla perfezione. Quella è cultura, un complesso artificio che vorremmo ci innalzasse sopra l’animalità che ci bracca di continuo.
Persino leggere non è naturale, come non lo è cuocere il cibo e nemmeno praticare l’agricoltura, nonostante sia comune dire di essere “immersi nella natura” pur trovandosi tra filari di vigne o in mezzo a campi di granoturco che mai crescerebbero a schiera e in tale quantità se non ci fosse la mano dell’uomo a dirigerli. D’altro canto “cultura” e “coltivare” condividono la stessa etimologia latina: colĕre, cioè, di nuovo, “coltivare”. E la cultura cos’è se non qualcosa, per l’appunto, “da coltivare”?
L’animalità ci riguarda ancora, che ci piaccia o meno: siamo animali quando “sbianchiamo dalla paura”, perché il sangue ci corre alle gambe e ci prepara alla fuga; siamo animali quando a priori diffidiamo della novità, perché in fondo potrebbe nascondere un pericolo; siamo animali quando cerchiamo di apparire migliori di quello che siamo, perché se sembriamo migliori (più intelligenti, più forti, più grossi, più veloci, più belli, più colti) avremo più chance di incappare in occasioni migliori, a prescindere da quale sia il nostro obiettivo: il lavoro (nutrimento), le relazioni (accoppiamento), il prestigio sociale (dominio sul branco)…
L’animalità ci riguarda ancora, per questo ne parliamo. È come la farfalla che Tozzi descrive nel frammento 38 di Bestie e da cui prende l’avvio l’intervento di Davide Ferrari, a cui vi lascio.
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Bestie
di Davide Ferrari
Chi non ricorda come si trascina una farfalla ferita, toccando la terra con le ali tremanti! Ma chi può vedere, ne’ suoi occhi, l’espressione del suo dolore violento e improvviso? La farfalla va presto a rincantucciarsi, sapendo sparire dalla nostra curiosità. È come qualche cosa, allora, che riesce a non aver contatto con noi, ad evitarci.
Basterebbe questo frammento – uno dei sessantanove che compongono Bestie – per capire che Federigo Tozzi è un autore straordinario. Non solo per il suo stile innovativo, asciutto ed estremamente personale, comune anche ai suoi romanzi, ma soprattutto per la finezza dello sguardo e per l’eccezionale capacità di lasciare che i meandri della psiche umana affiorino quasi naturalmente sulla pagina.
Bestie, uscito nell’ottobre del 1917 per i tipi dei Fratelli Treves Editori, è il primo libro di narrativa di Tozzi e, insieme ai romanzi Con gli occhi chiusi e Il podere, lo consacrerà pienamente nel panorama della letteratura italiana.
Tuttavia, la carriera dell’autore non fu tutta rose e fiori: la critica, spesso frettolosa, liquidò lui e la sua opera con giudizi superficiali, non considerando a sufficienza le implicazioni esistenziali e psicologiche dei suoi testi. Abbiamo dovuto attendere le storiche lezioni di Giacomo Debenedetti e gli studi di Luigi Baldacci e Marco Marchi per avere uno sguardo nuovo su un’opera complessa e stratificata. Questi studiosi hanno reso giustizia allo scrittore mettendo in luce il suo stampo profondamente psicologico e vicino al simbolismo, e paragonando la sua prosa a quella di Kafka e Dostoevskij per conferirgli finalmente un ruolo di primo piano non solo nell’ambito della letteratura italiana, ma sulla più ampia scena europea del primo Novecento.
Bestie è sicuramente un libro unico nel suo genere e oggi, cento anni dopo la sua pubblicazione, il testo conserva inalterato il suo fascino e la sua forza: è ancora difficile, se non impossibile, rinchiudere gli animali presenti tra le pagine in una gabbia interpretativa. Le prose liriche di lunghezza variabile – possiamo leggere testi di poche pagine, poche righe, o addirittura di una sola: «So che una vipera ha morso uno che m’odia. Pari e patta.» – sono accomunate dalla presenza di un animale che appare sulla scena senza alcun motivo evidente.
Lo sguardo di Tozzi sugli animali è pulito: non li antropomorfizza, come accade spesso in diversi generi letterari, ma li considera per quello che sono, senza forzare legami narrativi di senso.
La scrittura di questo libro è enigmatica, sfugge a ogni classificazione e resiste a ogni accostamento. E forse è proprio per questo che ci parla ancora in modo così diretto: perché ha a che fare con il mistero, con la vita dell’essere umano.
In questi testi l’autore sembra voler indagare la dimensione del ricordo, dell’inconscio, la deriva nel sogno e nell’incubo, partendo dall’osservazione degli oggetti quotidiani e visibili – il vomere, le vecchie fotografie, le foglie degli alberi, le stoviglie, le pareti di casa, il grano – e soprattutto degli animali, la cui presenza sistematica caratterizza la collezione di prose liriche e diventa il filo conduttore della raccolta, per esplorare proprio quel qualcosa che riesce a non aver contatto con noi, a evitarci.
È in quell’assenza di senso che Tozzi riesce a dare misura all’animale e forse anche all’essere umano: lui guarda gli animali non per scovarne e spiegarne il segreto, li guarda riconoscendo quel segreto, preservandolo. In questo modo mostra la profondità della natura umana che accomuna gli uomini alle bestie e alle cose, lasciando tutto così com’è, lontano da giudizi e implicazioni interpretative:
Voglio lasciare inalterati, così come sono e si presentano in una qualunque porzione di realtà guardata, tutti gli elementi della vita.
(Federigo Tozzi, Pagine critiche, Pisa, Ets, 1993, p. 318)
Tozzi lascia liberi gli animali di vivere come animali: appaiono tra le righe, transitano, senza alcun significato apparente, così come i fatti della vita, evidenziando un io frantumato nelle sue innumerevoli sfaccettature e rapidissimi stati d’animo.
La percezione della realtà sembra divenire più importante della realtà stessa che si frantuma nelle vorticose e imperscrutabili spirali di un io allucinato. In questo contesto, ecco che gli animali entrano improvvisamente in scena, spesso proprio nella frase finale dei testi – «Una cavalletta mi salta su una mano»; «Quando fui presso un pino, sentii un usignolo»; «Ma c’è soltanto una rondine che stride» –, diventano ultimo appiglio, ri-stabiliscono il contatto tra essere umano e realtà.
Questo libro fa di Federigo Tozzi un autore capace di un dialogo serrato e privilegiato con il lettore: quello che realmente accade, in uno stato di meraviglia continuamente rinnovato, accade proprio nel lettore che è trascinato non tanto nei ricordi/sogni/incubi tozziani, ma soprattutto nei propri. Restano solo le bestie a garantire che riemergeremo alla realtà che si sottrae.
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Davide Ferrari
Davide nasce a Pavia nel 1983. È attore, regista, autore. Nel 2014 pubblica il poemetto Eppure c’è una meta per quel fiato di universo (Subway Edizioni) con cui vince il concorso internazionale Pop Science Poetry organizzato dal CERN di Ginevra; segue la silloge Dei pensieri la condensa (Manni, 2015), scritta in dialetto pavese e con la prefazione di Franco Loi, con cui vince il Premio Nazionale Giuseppe Tirinnanzi 2016. Nel 2018, insieme a Jurga Po Alessi, cura e traduce dal lituano la raccolta poetica All’asinello sordo (Effigie edizioni) del poeta Donaldas Kajokas. Insieme a Corrado del Bò, Massimo Bocchiola e Andrea de Benedetti scrive il libro 1897 Juventus FC: le storie (Hoepli, 2020). Conduce laboratori di teatro e scrittura creativa per adulti e ragazzi, anche con i detenuti delle Case circondariali di Pavia, Monza e Voghera, dove dirige la compagnia Maliminori. Nel 2021 pubblica la raccolta di poesie dialettali Tutte le altre rose (Effigie edizioni), con uno scritto del poeta, amico e maestro Franco Loi.