Soeliok
Il sospiro del lettore
Introduzione
Sarebbe bastata una mongolfiera.
È ciò che ho pensato quando, a fine lettura, mi sono chiesto come avrei potuto sintetizzare in quattro parole il mio pensiero su Soeliok. Il respiro della terra, primo volume di una trilogia fantasy scritta da Daniele Barioglio e pubblicata fra il 2019 e il 2020.
Si tratta di un progetto editoriale chimerico dalle grandi ambizioni – prova ne siano il sofisticato apparato tecnico che lo accompagna (voci, musiche, suoni, grafiche…) e la persistente campagna pubblicitaria –, ma altresì dai risultati molto modesti, almeno per ciò che riguarda il punto principale della mia analisi: il romanzo inteso non come prodotto editoriale ma come entità letteraria, e il contrasto con ciò che se ne dice.
A leggere certi post promozionali, Soeliok non è solo una trilogia di romanzi, ma una “rivoluzione del fantasy”, un “kolossal della narrazione”, nonché un metabook, ovvero
un testo digitale che si può leggere e ascoltare (anche contemporaneamente) direttamente dal sito web. È l’unione di un e-book con un audiolibro, ma con il vantaggio di non dover scaricare nessuna app e nessun file.[1]
Se è vero che l’efficacia di ciò che vogliamo dire dipende in gran parte da come lo diciamo, è anche vero che l’entusiasmo (legittimo, sia chiaro) con cui un autore ci parla della propria creazione non dovrebbe distoglierci dalla sostanza. E la sostanza è che in Soeliok non c’è molto di innovativo, a meno che innovazione non significhi riunire formati di libro diversi – digitale e audio – in un unico contenitore. Non proprio tutta questa novità, ecco.
Soeliok nasce in seno all’agenzia di comunicazione ZoneCreative, che fa capo allo stesso Barioglio; esiste un sito web dedicato in cui poter godere delle meraviglie del metabook, e persino un blog redatto da una penna disincarnata che scrive articoli in prima persona ma senza firmarli, e si rivolge al team di ZoneCreative come se fossero una realtà esterna alla pagina, e non invece i padroni della baracca. Peraltro, incensando il progetto in maniera piuttosto goffa, vista da fuori.
Come ho detto, il comparto tecnico che circonda il progetto è molto sofisticato: chi volesse fruire dell’audiolibro, ascolterebbe la voce di Carlo Valli, storico nome del doppiaggio e cavallo di punta nella strategia promozionale di Soeliok, ma anche quattro ore di colonna sonora originale e “suoni e rumori come al cinema”, frutto di migliaia di ore di lavoro della cui bontà (ed eccezionalità, in termini di sforzi e investimenti) non discuto. Un impegno titanico per un prodotto che fin dall’inizio emana la fortissima aura di passione e dedizione di chi lo ha curato. Ma tutto questo non basta.
Non basta, perché è un di più, un orpello, qualcosa che si dovrebbe poter espungere senza timore di intaccare il cuore del progetto, cioè il romanzo, che tuttavia da solo non è in grado di reggere il peso delle ambizioni di cui è stato investito. A bastare, dicevo, sarebbe stata una mongolfiera: ovvero il fare le cose più in piccolo. E non per mancanza d’ambizione o ritrosia davanti a un azzardo artisico, no! Ma per assicurarsi che, sotto impalcature fastose ed entusiastiche, l’edificio narrativo non sia così esile come in effetti è.
Parliamone.
Il romanzo
A volte mi piace lasciarmi sopraffare dal marketing. Se in genere oppongo una corazza adamantina alla pubblicità, di quando in quando mi piace che qualcuno scelga per me e mi induca a prendere decisioni lasciandomi però la convinzione che siano mie, e non invece semi depositati nel mio cervello in lunghi mesi di insistenza mediatica. È ciò che è successo con Soeliok: a un certo punto ho accettato di lasciarmi ghermire come una lepre dal falco. Ed eccomi qua, a rimuginare su una lettura che avrei potuto risparmiarmi, ma che d’altro canto mi ha dato un’occasione in più per fare esercizio critico. Perciò alla fine ci ho comunque guadagnato qualcosa. Non il piacere di aver avuto per le mani un buon romanzo, ahimè: quello no.
Soeliok. Il respiro della terra è viziato sia dalla sua origine nel grembo di un progetto tentacolare, sia nella sua intrinsecità di romanzo.
Sarebbe bastata una mongolfiera, scrivevo all’inizio. Una punzecchiatura, naturalmente, ma che del pungolo ha solo il travestimento, poiché affonda le radici in questioni narrative concrete. Che cosa significa, dunque? Per rispondere, occorre dare prima un accenno di trama.
La falsa premessa
***Possibili spoiler!***
Nel Respiro della terra, il lettore si ritrova bruscamente in un mondo fantastico popolato da nani ingegneri che vivono in una regione circondata da una catena montuosa invalicabile, il Kélamnkor. Dalla roccia dei monti sgorga il soeliok, un gas leggerissimo che i nani hanno imparato a sfruttare per far levitare mezzi di trasporto volanti detti volandieri, i quali, tuttavia, per qualche misterioso motivo non sono in grado di superare le vette più alte della catena.
Il giovane nano Gaman vuole scoprire la verità sulle proprie origini, verità che probabilmente si nasconde nelle terre popolate oltre il Kélamnkor. Per questo, insieme a nonno Eldur e all’amico Nodfri, partirà per la sua avventura e riuscirà a valicare i monti volando.
Bene. Affrontiamo allora uno dei primi problemi che viziano il romanzo: una falsa premessa.
«So bene che le nostre navi sono in grado di volare solo all’interno del Kélamnkor» afferma il giovane protagonista. «Nessun mezzo volante è in grado di oltrepassare la catena montuosa esterna» conferma un altro personaggio.
Problema non da poco, in effetti. Ma perché il Kélamnkor è invalicabile? Non è dato saperlo, nessuno si premura di spiegarcelo; né tantomeno sappiamo quanto siano alte queste montagne. Possiamo solo dedurre che i palloni aerostatici gonfiati a soeliok non siano in grado di generare abbastanza spinta ascensionale. Ma non conoscendo le caratteristiche chimico-fisiche del gas in questione, non siamo in grado di estrapolare un’altitudine massima plausibile a cui i mezzi possono arrivare. E qui è nato il tarlo che mi ha accompagnato per tutta la lettura di questo libretto: non sarebbe stato sufficiente usare una mongolfiera?

Gaman valica il Kélamnkor senza troppi giri di parole.
Mi spiego: se il problema, come credo (perché il romanzo non lo esprime con chiarezza), è la pressione, cioè il fatto che il soeliok immagazzinato nell’aerostato, a una certa quota, vinca la bassa pressione esterna ed espandendosi faccia esplodere il pallone, allora non sarebbe stato più semplice affrontare i tentativi di scavalcare il Kélamnkor riscaldando l’aria all’interno di un pallone non ermetico? Certo, ma il romanzo sarebbe finito a pagina due.
O forse no?
Gli apparati
L’ho detto prima, Soeliok è un progetto chimerico. Il sito soeliok.com raccoglie tutti gli apparati sonori e grafici utili a una maggiore immersività in questo universo narrativo. È possibile trovare degli approfondimenti grafici anche su personaggi, mezzi di trasporto, artefatti e luoghi. E tra i luoghi, naturalmente, c’è il Kélamnkor. Una semplice illustrazione (consultabile qui) ci informa che le vette più alte della catena raggiungono gli 8000 metri: in pratica la comunità dei nani di Fiòrderik (la città in cui è ambientato il romanzo) è prigioniera in una gabbia naturale le cui sbarre sono tanti Everest messi in fila. 8000 metri è una quota ragguardevole e, una volta in possesso di questa informazione, appare più plausibile – o quantomeno accettabile – che i mezzi volanti dei nani non riescano ad affrontarla. (Per inciso, una mongolfiera avrebbe davvero risolto la situazione a pagina due.[2]) Il neo di tutta la faccenda è però un altro: l’insufficienza del romanzo costringe il lettore a reperire da fonti esterne informazioni cruciali alla comprensione o, peggio, alla credibilità della vicenda, che le pagine del libro non sono in grado di garantire. (A meno di non voler lavorare al cento per cento di fantasia, s’intende, ma a quel punto il romanzo me lo scrivo da solo.)
Questo singolo aspetto, in sé forse trascurabile a voler chiudere un occhio, è in realtà sintomo di una malattia sistemica che colpisce l’intera storia. Il respiro della terra dipende severamente dai suoi apparati, non ho ben capito se per volontà dell’autore o per una stortura a monte del progetto. Sta di fatto che si tratta di un errore: le carenze nella scrittura degli ambienti, dei personaggi, degli artefatti e dei mezzi di trasporto sono funzionali a un’interazione del lettore con i materiali collaterali come gli sketch ambientali, i bozzetti dei personaggi, i trafiletti descrittivi presenti sul sito. Tutti elementi che una buona narrazione, in quanto tale, dovrebbe fornire da sé.
Perché, mi domando, scegliere la forma romanzo se poi la parte più succulenta del lavoro – ossia la comunicazione attraverso l’invenzione e la messa in prosa – viene demandata a qualcos’altro?
Per chiarire: non metto in dubbio che del materiale di supporto possa aiutare a fissare alcuni punti, a focalizzare concetti, o a rendere più intelligibili particolari come direzioni, distanze e posizioni nello spazio finzionale (mi riferisco alle immancabili mappe, naturalmente). Ma questo compito è bene lo assolvano i paratesti[3], cioè per l’appunto quegli apparati collaterali come note, indici, appendici, le stesse mappe ecc., che arricchiscono il testo di base, ma la cui assenza non ne pregiudicherebbe la fruizione.
Pertanto, archiviando come del tutto legittima la volontà e la possibilità di un autore di espandere il proprio universo narrativo come meglio ritiene, se ciò si traduce in un gioco a somma zero in cui per ogni informazione posta tra i materiali collaterali ne viene espunta una dalla narrazione principale, ecco che il rapporto tra romanzo e apparati non è più, per usare una metafora, come quello tra un velocista e delle buone scarpe da corsa, ma assomiglierà piuttosto a quello tra uno zoppo e la sua stampella.
Facciamo un altro esempio.
Sembra che nella vicenda una parte importante, ancorché soltanto adombrata in questo primo volume, l’abbiano gli orkran. E chi o che cosa sono gli orkran? Non è molto chiaro, il romanzo è tanto avaro di parole che dobbiamo accontentarci di qualche frase di circostanza.
Non era un orso, ma una minaccia ben più inquietante. Era un orkran. Uno di quei terribili mostri descritti nei racconti delle Terre Popolate. […] L’orkran era mastodontico. Un manto scuro lo copriva quasi per intero nascondendo un fisico possente.
Oppure
[…] sia manifesto che data la frequenza delle truci azioni che succedono a causa degli orkran, ed essendo superato ogni limite della loro bestiale ferocia…
O ancora
Questi orkran sembrano esseri micidiali, la loro forza è pari a quella di un grosso orso adulto e abitano le profondità della roccia.
“Si vedono orkran ormai dappertutto”, leggiamo verso la fine del libro. Non una sola occasione, però, in cui si riesca a inquadrarli con un espediente qualsiasi. Di loro sappiamo che sono “terribili mostri”, definizione alquanto vaga; a causa loro “succedono truci azioni” (sorvoliamo, per pietà, sulla sintassi) e sono caratterizzati da “bestiale ferocia”; sono “mastodontici”, vigorosi e coperti di pelo scuro. Elementi attribuibili a una vasta gamma di vertebrati terrestri. Per contro, non sappiamo che forma abbiano: sono più forti di un orso, ma a cosa assomigliano? Sono antropomorfi? Perché sono così feroci? Sono senzienti e quindi malvagi, o hanno un’indole animalesca e agiscono per istinto, senza uno scopo razionale?
Non c’è pericolo che tra le pagine del Respiro della terra troviate la risposta a questi semplici quesiti, a meno che non consultiate il sito, dove, per esempio, troverete un bozzetto che ritrae una di queste creature a mezzobusto, tanto per farvene un’idea. Forse leggere l’intera trilogia può essere d’aiuto, e tuttavia non è così che dovrebbe funzionare. Ma arriviamo anche questo, con calma.
Errori di prospettiva
Sul blog di soeliok.com c’è un articolo dall’eloquente titolo Cos’è Soeliok? Tra le righe di questa paginetta ho rintracciato due errori di prospettiva a mio avviso fondamentali commessi a monte dell’intero progetto, le cui conseguenze hanno portato agli opinabili risultati del romanzo. Ora, in verità non è che abbia dovuto fare una gran fatica a cercarli: da quanto si può leggere sul blog questi due errori sono considerati addirittura punti di forza del progetto, il che spiega una buona parte dei difetti dell’opera di cui stiamo parlando.
Ma partiamo dall’inizio.
“Un libro fantasy adatto a tutti”, apprendo.
Soeliok non è un libro solo per ragazzi, è adatto davvero ad ogni età: dai lettori più giovani fino agli adulti. Questo per un semplice motivo: l’universo di Soeliok è ambientato in un contesto estraneo al nostro tempo, ma i protagonisti vivono e affrontano valori e tematiche attualissime.
Dato che non voglio essere pedante, non evidenzierò che Soeliok non è “un libro”, ma sono tre. Mi concentrerò piuttosto sul concetto di libro “adatto a tutti”. Un’espressione che dal punto di vista comunicativo forse può avere la sua efficacia, ma solo verso un lettore superficiale. Da un punto di vista editoriale, per contro, non esiste un libro “adatto a tutti”; ogni scrittore o aspirante tale dovrebbe sapere che descrivere in questo modo il proprio lavoro equivale a commettere suicidio in termini di credibilità: il fatto che un autore ritenga il proprio libro “adatto a tutti” non è solo spia di una certa boria, ma anche dell’incapacità di individuare un pubblico di riferimento e una possibile collocazione editoriale coerente. Insomma, l’autore in questione dimostrerebbe di non sapere con chi voglia parlare, né tantomeno cosa gli voglia dire. Ed è grave.
Per non parlare dell’assurdità della frase in sé: asserire che un romanzo di genere sia adatto a tutti è un palese controsenso. Nella fattispecie, adottando il fantasy, si è scelto un indirizzo letterario ben preciso che, al di là delle possibilità espressive più o meno articolate che offre, esclude di necessità più di qualcuno, a partire banalmente da chi non ama il fantasy.
La chiosa di tale affermazione ne rafforza la sciocchezza: Soeliok sarebbe adatto a tutti perché ambientato “in un contesto estraneo al nostro tempo” in cui però i personaggi “vivono e affrontano valori e tematiche attualissime”. Ma questo non è forse ciò che tradizionalmente fanno tutte le storie?
Prendiamo l’Iliade: redatta in forma scritta intorno alla metà dell’VIII secolo a.C., racconta la fine di un conflitto consumatosi cinque secoli prima, e mette in luce “valori e tematiche” ancora attuali nel momento in cui viene sistematizzata: l’ira, la pietas, la vergogna, l’onore, il valore in battaglia, l’amore per la famiglia e la propria terra eccetera.
Oppure prendiamo una fiaba qualsiasi: “C’era una volta” è la formula incipitaria per eccellenza; e cosa fa se non collocare la storia che stiamo per leggere in un “contesto estraneo al nostro tempo”, cioè in un passato imprecisato che ci trattiene dall’applicare le nostre categorie a un racconto che ambisce ad avere respiro universale? E che dire dell’intento spesso pedagogico e sotteso a queste narrazioni che si propone come un possesso per sempre, una saggezza eternamente pronta all’uso?
Questo, dunque, per quanto riguarda la disposizione alla scrittura: tentare di scrivere un romanzo “adatto a tutti” è una prova inutile perché insensata, e perciò destinata sempre a fallire. Essere convinti di avercela fatta non è un buon segno.
Intorno alla scrittura in atto, invece, si concretizza il secondo errore di prospettiva, di natura strutturale stavolta, del quale l’autore si autodenuncia nuovamente responsabile:
… la storia scorre in modo piacevole, mentre i sotto-capitoli rendono il ritmo sempre più incalzante, senza annoiare mai. Soeliok si lascia leggere e scorre via fluido perché non è poi così lontano dal nostro mondo.
Allora… Come posso dire?
Che un libro sia piacevole, incalzante e non annoi mai dovrebbero dirlo gli altri, non il suo autore. È poco elegante lodare sé stessi, e nel migliore dei casi si affermerebbe di pensare l’ovvio: chi pubblicherebbe mai un lavoro di cui non fosse appassionato, convinto ed entusiasta? In un sano percorso di crescita artistica ogni lavoro di ogni autore dovrebbe essere, di volta in volta, il migliore. Ma abbandoniamo la mancanza di classe, che è poco più di un pettegolezzo, e concentriamoci sui “sotto-capitoli”, sul ritmo e sul “lasciarsi leggere”.
Ancora una volta ho l’impressione di trovarmi di fronte all’opera di qualcuno che non ha ben chiaro in mente che cosa stia maneggiando.
In letteratura, il ritmo e il suo incalzare possono essere veicolati in molte maniere. Una di queste è per esempio il fraseggio: un brano, anche molto lungo, può essere cadenzato internamente dall’uso ritmico ed espressivo della punteggiatura, dall’impiego sapiente di artifici retorici, dalla scelta oculata del lessico, al fine di creare partiture quasi musicali che intrattengono di per sé stesse, ma hanno anche il pregio di veicolare contenuti semantici. Forma e sostanza, nell’arte, hanno pari peso e pari dignità.
Un’altra leva di controllo del ritmo è la struttura del romanzo, come l’autore sembra aver intuito. Eppure, un attimo prima della comprensione, eccolo arenarsi: in che modo frammentare la narrazione in “sotto-capitoli” di poche pagine renderebbe il ritmo incalzante? In altre parole, come può lo spezzarsi continuo del ritmo, attraverso l’esasperante saltellìo da un personaggio o da una situazione all’altra, creare tensione, un climax, un’acme, uno scioglimento?
Altro che fluidità: Il respiro della terra sembra un libro con la tosse che “si lascia leggere” a singhiozzo senza mai un campo lungo a darci modo di respirare e afferrare la situazione nella sua interezza.
Ecco, lo scambiare i difetti per punti di forza o le normali caratteristiche di una generica storia per qualità innovative e peculiari sono errori di prospettiva da cui sarebbe bene guardarsi, ma che in questo romanzo hanno prontamente scavalcato ogni muro di difesa.
I personaggi
In verità sui personaggi del Respiro della terra non c’è molto da dire. La maggior parte sono figurini appena abbozzati, poco caratterizzati sia dal lato puramente descrittivo, sia da quello linguistico. Parlano tutti allo stesso modo, non hanno registri peculiari, atteggiamenti, tic, difetti di pronuncia che li differenzino, e le loro interazioni “si lasciano leggere”, sì, ma nel senso più deteriore: scorrono senza lasciare traccia.
A questo piattume generale mi sento di opporre però due eccezioni: Gaman, il giovane nano protagonista; e suo nonno Eldur. Vediamo perché.
Gaman
“Certo che no!”, ribadì Gaman. “Ma non intendo arrivare a quel giorno impreparato, né tanto meno senza un mezzo adatto alle competizioni, non so se mi spiego”.
[…] Gaman ne era consapevole, ma il desiderio di conoscere le sue origini generava in lui pensieri troppo difficili da controllare. La sua non era solo curiosità: c’era un desiderio nascosto da qualche parte, che lo invitava a spingersi oltre, più lontano di qualsiasi altro.
Gaman estrasse dalla sua cinghia un piccolo punteruolo in ferro. “Singolare attitudine alla ricerca…”, gli balzò in mente. “… Al furto con scasso sarebbe più appropriato, caro professor Kamegdav.”
Da queste poche citazioni si può dedurre, da parte di Gaman, una spiccata proprietà di linguaggio, una notevole padronanza sintattica e lessicale, e un registro medio-alto (sebbene appiattito su questo livello per tutto il romanzo). Il che, sulla carta e con qualche finezza in più, potrebbe anche andare; se non fosse però che Gaman ha otto anni. A quanto pare, essere un marmocchio non gli impedisce di esprimersi come un arcade, né di avere conoscenze aeronautiche e abilità di pilotaggio degne di un pluridecorato dell’aviazione. A coronare l’assurdità, l’inspiegato “desiderio di conoscere le sue origini”, primo motore immobile e increato dell’intera vicenda. Mi spiego: Gaman è un trovatello che, appena nato, viene lasciato sulla soglia di casa Grìtmabjork. Cresce consapevole di non essere il figlio naturale della donna che chiama mamma e probabilmente (suppongo io) di quando in quando si domanderà chi siano i suoi veri genitori. Ciò che non sa è che mamma e papà sono gli unici nani in più di mille anni ad aver valicato il Kélamnkor. Lo verrà a sapere, com’è ovvio, ma la spinta a voler valicare le montagne per sapere chi sia davvero precede questa scoperta di almeno tre capitoli. Perciò, da dove e perché nascono il suo desiderio e la sua inclinazione al viaggio in cui, senza colpo ferire, si imbarcherà a fine romanzo? Mettiamola così: le esigenze di trama si rivelano più ingombranti della trama stessa.
Eldur
Parliamo adesso del personaggio più tedioso e sconclusionato dell’intero romanzo: nonno Eldur incarna lo stereotipico mentore vecchio e saggio, che ha buoni consigli per tutti e trova soluzioni o chiavi di lettura nascoste con rassicurante facilità. Nulla di insolito, almeno in questo. Eldur però non è un nano comune. La sua caratterizzazione punta inspiegabilmente tutto su un’eccentricità tanto forzata quanto foriera di esiti infausti per la lettura:
In verità non gli era mai importato molto di ciò che gli altri nani pensavano di lui, ne era la prova il fatto che da quasi un secolo ormai, aveva sviluppato una predilezione nel parlare in rima. Quello che sulle prime non era che un gioco, divenne col tempo una vera passione, fino a essere completamente sostituito al parlare comune.
A voler commentare quest’uso e i problemi che implica per come è stato gestito, partirei notando la lunghezza spesso estenuante delle strofe. La contrainte del verso e della rima comporta che il vecchio Eldur abbia bisogno di un notevole spazio per esprimersi, dovendo forzare la sintassi per ottenere uno pseudo-ritmo. Uno spazio sproporzionato rispetto a delle normali linee di dialogo, che possono essere più o meno articolate, ma generalmente di entità non così espansa, e per un motivo molto semplice: un dialogo prevede più voci e uno scambio di informazioni; perché sia incalzante occorre calibrare con attenzione la quantità di queste informazioni e il modo in cui vengono trasmesse, modulando i registri, la retorica, il lessico e gli elementi paraverbali (espressioni, gesti, intonazioni, prossemica eccetera).
Con Eldur ciò non accade, perché, da un lato, come tutti gli altri personaggi, adotta un solo registro e lo mantiene per l’intera narrazione a prescindere dai contesti comunicativi, contribuendo al piattume già menzionato. Dall’altro la bizzarria forzata con cui si vuole distinguere il personaggio lo porta, come dicevo pocanzi, a espandere la dizione costringendolo a lunghi monologhi dal retrogusto sempre un po’ paternalistico. Eldur infatti non ha mai un botta e risposta con nessuno degli altri personaggi, ma, una volta interpellato, sciorina le sue pillole da ultracentenario in questo pasticcio senza capo né coda.
Anche le ragioni narrative di questa singolarità scricchiolano sonoramente: asserisce il narratore che è una generica “predilezione” poi diventata “passione” per le rime, quella di Eldur. Insomma il nano comincia a parlare in rima, poi ci prende gusto e cambia il proprio modo di esprimersi in maniera permanente. Ma perché? È chiaro che l’idea ha solleticato la mente dell’autore, forse il personaggio ispirava simpatia, chessò io, ma non basta a ottenere una caratterizzazione solida e coerente. Certo è che nonno Eldur è un personaggio memorabile, ma per tutte le ragioni sbagliate. E di nuovo, come molte altre volte nel mio lavoro, mi ritrovo a pensare che spesso chi scrive ed è alle prime armi fraintende il concetto di fantasia e libertà creativa.
Appurato che quella della parlata in rima è un’idea campata in aria, occorre sottolineare che la sua resa è forse più discutibile della trovata stessa. È chiaro che a monte di quest’uso di verso e rima non ci si è posti un interrogativo fondamentale: a che cosa servono e quali sono le loro peculiarità?
Rispondere a questa domanda in riferimento al Respiro della terra non è affatto facile, dato che si tratta di un vezzo stilistico assecondato per partito preso. Ma storicamente il verso (quindi il ritmo) e la rima nascono per rendere più facile la memorizzazione e la declamazione dei componimenti poetici. Ci sono però anche accorgimenti tecnici da tenere presenti e che l’autore dimostra di non osservare: in parole povere, spesso i versi di Eldur non sono versi e le sue rime non sono rime.
Facciamo un esempio:
La politica è la ruota di un carro volante,
al timone c’è un giudice sorretto da chi lo vota,
se questo è un idiota che piace alla gente,
avanti tutta! Si dice; vedremo chi è il pilota.
Io credo sia il caso di agir da rivale,
siete in tre favoriti, è inutile non farci caso
non storcere il naso è tutto legale
e se in due sarete uniti, si darà un bell’aiuto al caso.
Dal punto di vista delle versificazione, in questo passo non esiste la minima omogeneità: ogni rigo ha una misura casuale. Non si può nemmeno dire che sia un testo “ritmico”, perché la musicalità è assente: versi come il secondo, il quarto, il sesto e l’ultimo contengono sgradevolissimi inciampi che affossano la pur lieve parvenza ritmica di misure più regolari (vv. 2 e 5). Riguardo alla presenza di rime, su otto versi soltanto la metà delle parole in clausola rimano fra loro, tecnicamente parlando: “rivale” e “legale”, e “caso” con sé stesso, in rima identica. Per il resto, mi sentirei di escludere dalla questione l’articolata categorizzazione delle rime che in questo contesto non mi pare vada presa in considerazione. Dunque, se ci atteniamo alla definizione di “rima” come semplice identità fonica tra due parole a partire dalla vocale tonica, allora “volante” non rima con “gente”; allo stesso modo “vota” e “pilota” hanno rispettivamente la “o” chiusa e aperta, e come “cuore” e “amore” non rimano, almeno se prediligiamo un’aderenza stretta alla definizione di rima. In questo caso si tratterebbe di rima per l’occhio, dato che i suoni non coincidono ma i grafemi sì; non bisogna dimenticare però che, primo, Soeliok non è un canzoniere (per questo abbiamo escluso a priori le finezze accademiche) e non c’è dunque alcun intento poetico nell’eloquio di Eldur; secondo, queste “strofe” sono battute di dialogo che il personaggio pronuncia, non scrive.
Cosa c’è di male in tutto ciò? Nulla, si capisce. Ma anche nulla di buono, cioè di utile alla comprensione, di coerente né di narrativamente plausibile. Sembra solo un superfluo e irritante capriccio.
Lascio un paio di altri esempi di ritmo zoppicante e rime arbitrarie perché il lettore tragga da sé le proprie conclusioni sull’uso di questi artifici:
Nelle sue vene scorre fiero il sangue dei sognatori,
se è questo che cerchi di dire non posso certo darti torto,
e non ti voglio contraddire quando mi dici che spesso è assorto
in un esule pensiero, come il più impavido dei viaggiatori.
Ma ciò che io vedo, quando lo guardo in quegli occhi rotondi
non è una nuova scoperta, né un mezzo volante da pilotare,
gli vedo un amore profondo e sincero verso chiunque lo circondi
e questo è un dono prezioso che tu gli hai saputo insegnare.
E per finire:
Credo che ora sia tutto palese
ho letto la lettera, davvero meravigliosa.
Lasciamo che passi questo giorno di attese
e stasera con Eira chiariremo ogni cosa.
Il tuo compito oggi è di non farti trovare,
sono certo che Kalmot starà già controllando
e se non trova la lettera ti verrà a cercare;
scova un buon nascondiglio… mi raccomando!
Conclusioni
Malgrado le definizioni roboanti e le autoincoronazioni à la Napoléon, Soeliok. Il respiro della terra deve fare i conti con la realtà: la passione, l’entusiasmo, la perseveranza e persino la dotazione dei mezzi auspicabilmente migliori per realizzare “il sogno di una vita” (sic), sono senza dubbio virtù necessarie alla riuscita di un’opera; con altrettanta certezza è bene ribadire che non sono sempre sufficienti. Tuttavia, quand’anche lo fossero, ecco che lo scrittore si troverebbe di fronte a un nuovo bivio: realizzare un’opera o realizzare una buona opera?
Insomma, la scelta – spesso obbligata dalle proprie capacità – è tra la mediocrità e il valore. Valore il quale – ed è empirico – non può misurarsi unicamente in consenso: altrimenti non si spiegherebbe l’enorme disparità fra Guido Morselli e un Baricco qualunque.[4]
Ebbene, il romanzo in questione è, come si è visto, mediocre, e non ori né stucchi potranno salvare una sostanza carente.
La voce di Carlo Valli, per quanto io stesso l’apprezzi, leggerà per voi un romanzo mediocre. La colonna sonora e i rumori di scena, per quanto ricercati, abbelliranno per voi un romanzo mediocre. Sarebbe stato bene profondere nel racconto la stessa dedizione riservata agli apparati multimediali.
Nemmeno un editing e una correzione di bozze professionali[5] sono stati in grado di soccorrere grandi o piccole storture la cui emendazione avrebbe fatto la differenza. Mi riferisco a un radicale e necessario editing strutturale che spronasse l’autore a redistribuire la materia in capitoli più consistenti ed evitasse l’effetto “brogliaccio di sceneggiatura” che rendono i mille sotto-capitoli da due o tre paginette ammazza-ritmo. Ma penso anche a un intervento sulla caratterizzazione dei personaggi che sarebbe dovuta procedere in maniera verticale, in profondità, e invece ristagna come una patina d’alghe su un laghetto.
Che dire, infine, della correzione di bozze? Tra interviste e Crediti a fine volume apprendo che il romanzo è stato letto da più persone in qualità di revisori; due di esse sono correttrici professioniste. Eppure a fronte di tutto questo dispiegamento di forze, nel testo sopravvivono non i pochi, fisiologici e tollerabilissimi refusi che talvolta passano anche i filtri a maglie più strette,[6] ma errori di coerenza e grammaticali che in un libretto di appena 150 pagine e attorniato da così tanta gente non dovrebbero esserci.
Sciocchezze, all’apparenza, pedanterie, ma che sembrano tali se hai poco interesse per l’opera a cui stai lavorando. E in ogni caso, se sei il pubblico, non dovrebbe importartene nulla, perché non dovresti nemmeno accorgerti di loro.
Per salutarvi, ve ne lascio qualche esempio selezionato, corredato da un mio breve commento.
***
Note
[2] Sembra che il record di altitudine per una mongolfiera pilotata da una persona sia di 15.000 metri. Fonti più solide, documentano un viaggio in ascesa fino a 37.000 piedi (11.200 metri circa), datato 1862.
[3] Genette vi ha scritto il bel saggio Soglie. I dintorni del testo, Einaudi, Torino, 1989.
[4] Il fatto che ti stai domandando chi sia Guido Morselli o lo stia cercando su Google dice tutto.
[5] Cfr. Crediti a fine volume.
[6] Beninteso: sempre meglio che non ci siano proprio. Ma, come si dice, la perfezione non è di questo mondo.