*** Disclaimer ***
Le considerazioni che seguono maturano da frequenti letture e ascolti di fautori più o meno ferventi della scrittura immersiva. In genere tale entusiasmo correda la vendita di corsi di scrittura che insegnano i princìpi di questa tecnica; d’altra parte, c’è anche chi la promuove in quanto discepolo, malgrado risultati letterari modesti verificabili leggendo gli estratti messi a disposizione dalle varie piattaforme e-commerce, per chi non volesse investire male il proprio denaro.
In coerenza alle mie posizioni sull’argomento, non farò pubblicità a nessuno di costoro, ma per trovare traccia degli argomenti che tratterò di seguito basta una ricerca su Google, YouTube o un social qualsiasi.
Infine, dato che l’ambientino è frizzante e le mie argomentazioni sono articolate e assai lucide, invito chiunque passi di qui (chi mai, in effetti?!) a leggere con molta attenzione prima di (eventualmente) scaldarsi.
Pace!
*
Si caret arte
L’abbaglio della scrittura immersiva
Non è una novità. In tutti i sensi.
Non è la trovata dell’ultimo momento: circola ormai da anni nell’ambiente di nasse da triglia che è quello dei guru e dei corsi di scrittura online italiani.
Non è nemmeno un’invenzione nostrana, ma un distillato di nozioni di storytelling a stelle e strisce interpretate peraltro in chiave prescrittiva (perdonali, Campbell, se puoi).
Non nasce da riflessioni di carattere semiotico, filologico, antropologico né tantomeno da ricerca letteraria, ma dall’opportunità di mungere una vacca grassa.
Non apporta nulla di nuovo al dibattito sulla letteratura contemporanea, ma propone un insieme di norme arbitrarie e stantie come ricetta per adeguare le lettere ai bassi standard degli altri media di quest’epoca serial&social.
Inventa un falso problema e viene indicata come unico approccio corretto, perciò necessario, affinché un aspirante romanziere abbia successo nell’odierno agone editoriale.
Non sa spiegare come mai, se davvero è così indispensabile agli autori e ai lettori di oggi, uno dei segmenti più solidi dell’editoria rimane quello dei classici. O forse, per sicurezza, elude la questione.
Non ha alcun valore culturale né estetico.
Non ha basi scientifiche.
È la scrittura immersiva.
Parliamone.
Per cominciare
Forse noi siam l’homunculus
d’un chimico demente
Mi aggiro per il sottobosco della Rete, in quell’isola ecologica che raccoglie writing coach, guru o sedicenti editor che, durante pallosi live editing, discutono questioni di lana caprina come fossero alta esegesi, quando il testo d’esempio a cui stanno lavorando andrebbe cestinato e basta. Insomma, l’impressione è spesso di avere davanti dei cialtroni che direbbero qualsiasi cosa a un autore, meno che la verità, pur di vendergli un corso di scrittura. Perché la verità – e un professionista serio lo sa bene – è che ci sono bozze di romanzo in cui non vale la pena mettere le mani; ci sono tentativi di racconto che andrebbero rispediti al mittente – con il dovuto garbo, si capisce, ma anche con il caloroso consiglio di riprovare daccapo dopo un paio d’anni di esercizio e letture. E invece…
Invece pare esista una ricetta infallibile, perfetta per i tempi in cui viviamo, così frenetici e pieni di stimoli, dominati dalla serialità e, interpreto, da un horror finis che paventa l’horror vacui del dopo-abbuffata su Netflix.
Sto parlando della cosiddetta scrittura immersiva, un concetto, anzi meno, una nozione che sembrerebbe rispondere al meglio (secondo qualcuno) alla domanda di intrattenimento che segna in maniera sempre più compulsiva le nostre vite, ed è la cartina di tornasole del danno che il cattivo uso della tecnologia sta provocando alla società intera privandola della complessità.
Prima che qualcuno rotei le palle degli occhi, preciso che il mio non sarà un discorso in stile o tempora o mores, tranquilli. Sarà al contrario un’analisi argomentata di un fenomeno erosivo che da tempo abbaglia molti aspiranti scrittori, facendo in realtà danno a loro e ai lettori.
Tutto chiaro?
Bene, si comincia.
I pilastri della scrittura immersiva
La scrittura immersiva si regge sull’assunto primario che per essere buona un’opera narrativa debba consentire al lettore di immergersi, appunto, nella storia che sta leggendo. Un po’ assiomatico come principio di base, e, da un punto di vista retorico, fondato su una falsa dicotomia: esisterebbe infatti un solo tipo di buona scrittura, quella immersiva, contrapposta all’insipienza e alla bruttezza di tutte le altre maniere. Ma nel mondo reale, vivaddio, l’arte letteraria è ancora terreno di libertà espressiva e sperimentazione.
Seconda colonna portante: l’assenza del narratore invadente, o più in generale del narratore onnisciente, che in troppi, constato, credono essere la stessa cosa, senza capire che se un narratore invadente è sempre un narratore onnisciente, non è vero il contrario. Non voglio dilungarmi in questioni troppo tecniche, ma basti sapere che a seconda della sua ingerenza nella narrazione, il narratore onnisciente può essere palese (e quindi invadente) o occulto. Due esempi scolastici. Il primo tipo, lo si trova nei Promessi sposi: l’anonimo secentesco commenta la vicenda, giudica, imbastisce digressioni, si rivolge al lettore ecc. Il secondo, lo si può trovare nei Malavoglia: non commenta, non giudica, si cala al livello socioculturale dei personaggi e racconta la vicenda come fosse uno di loro, tuttavia non si espone mai.
Ma perché un narratore onnisciente sarebbe fuori luogo in seno alla narrativa contemporanea? Il problema, secondo gli immersivisti (li chiamerò così per amore di sintesi), sta nel fatto che il rivelarsi del narratore agli occhi del lettore infrangerebbe la sospensione dell’incredulità prevista dal patto narrativo.
Per chi non lo sapesse, il patto narrativo è un accordo implicito che il lettore stipula con l’autore del romanzo che legge, in base al quale il primo sospenderà la propria incredulità e crederà vere le vicende narrate dal secondo. A condizione, naturalmente, che il romanzo sia coerente con sé stesso. Facciamo un esempio: se sto leggendo dell’indagine di un profiler del’FBI su un killer piromane, tutto deve essere coerente al contesto generale di stampo realistico/scientifico in cui si svolgono le vicende. Solo così, malgrado la storia sia una totale invenzione dell’autore, io crederò a ogni evento che mi viene raccontato. Se invece di punto in bianco capitasse qualcosa di estremamente incoerente, come per esempio la rivelazione che l’assassino è un drago sputafuoco, ecco che in un primo momento salterei sulla sedia e subito dopo destinerei il libro a fare da fermacarte.
Ma andiamo avanti.
Terzo pilastro, una “scrittura semplice”. Espresso così, il concetto suona perfino sensato nel suo non significare assolutamente nulla. Ma il radicalismo di certi immersivisti, mossi dall’aspirazione a fare scuola, li spinge a considerare porcheria barocca qualsiasi tentativo di impostare uno stile che sia letterario, di fare ricerca, di uscire dal seminato e di evitare di scrivere siccome si caca, ovvero spingendo e aspettando di vedere cosa esce. E allora “semplice” sta qui per elementare, piatto, privo di guizzi, un’insipida codifica di notizie attraverso le innumerevoli permutazioni dell’alfabeto. Così sarà estremamente più semplice farsi pagare fior di quattrini l’editing di un testo a cui potrebbe lavorare anche un sasso, e con risultati ugualmente soddisfacenti.
Quarto, la sostanza stessa della scrittura immersiva, la chiave di volta che regge qualsiasi arco narrativo, il rifugio di ogni dilettante che vuole scrivere a tutti i costi, ma che al massimo, e nei giorni buoni, con le parole fa a pugni: la tecnica dello show don’t tell. Ma per adesso lasciamola qui a macerare; la recupereremo più avanti.
Errori di metodo
Tornando all’immersività della narrazione letteraria, gli immersivisti compiono alcuni errori di metodo quantomeno preoccupanti per gente che si crede competente. Peggio ancora se si tratta di professionisti del settore. Vediamoli.
Immersione, sì, ma di chi?
Lo abbiamo già detto: la scrittura immersiva ha come scopo l’immersione del lettore nella storia che legge. E potremmo anche chiuderla qua. Senonché, la mia cartesiana propensione al dubbio e la malizia di certi santoni nel presentare questa pratica come sola panacea delle lettere mi spingono ad analizzare la questione per assurdo.
Fingiamo dunque che l’immersione predicata dalla scrittura immersiva non sia del lettore, bensì dell’autore. Sarà l’autore a ricercare una dimensione immersiva all’interno della pratica della scrittura, oltre che nella propria storia. E da quella immersione può darsi venga fuori qualcosa di buono, una qualche catarsi dell’animo, uno scavo psicologico, una mirabile autofiction, una terapia… Ma resta un problema: a noi lettori, che ce ne importa? Mi spiego: nel caso ipotetico appena illustrato ci troveremmo a formulare considerazioni sul processo creativo di un autore, una prassi estremamente personale, non replicabile, insindacabile e che prescinde da qualunque norma, perché ritagliata su misura per sé dallo scrittore stesso. E se anche fossimo curiosi di saperne di più, in che modo questa conoscenza potrebbe influire sulla nostra fruizione dell’opera? È chiaro dunque che la scrittura immersiva non potrebbe occupare questa nicchia con successo, un po’ perché la scrittura chiamiamola consapevole? terapeutica? esiste già da qualche tempo (Duccio Demetrio se ne occupa da trent’anni), un po’ perché l’obiettivo di mercato sarebbe quello di sfornare libri estremamente vendibili, che buchino l’annosa reticenza dei lettori italiani con una forma che, di nuovo, li immerga nelle storie proposte. L’autore non può quindi essere il beneficiario di questa pratica.
Torniamo allora sull’immersività eterodiretta, dall’autore verso il lettore. È un’immagine suggestiva, lo ammetto. La scelta del campo semantico dell’immersione è azzeccata, personalmente nell’immediato mi fa pensare all’acqua, oppure a uno scrittore che scrive a mano su un libro dalla copertina blu. Ma salendo appena più su del piloro, la considerazione si fa più razionale, la suggestione viene accantonata e ci si domanda: perché mai dovrebbe essere il libro a fare immergere il lettore? In che modo potrebbe farlo? Con quali mezzi? E ammesso che sia possibile, non sarebbe una sorta di costrizione? La volontà del lettore non conta? È paradossale.
Ma approfondiamo. Anzi, immergiamoci nella questione.
Come nota Cesare Segre[1], richiamandosi anche agli studi di Jakobson, la letteratura è comunicazione mediata da un canale fisico, il libro. Questo assunto comporta che il diaframma spazio-temporale tra l’autore e il lettore non è quantificabile a priori: in altre parole, l’autore scrive la propria opera, ma non sa né chi, né quando né come la leggerà e la interpreterà. Una volta scritto il romanzo, dunque, non avrà più il controllo della comunicazione che ha avviato in qualità di mittente, e che perciò nella fase di ricezione sarà in totale balia del destinatario, cioè del lettore. La comunicazione narrativa trascende il tempo e lo spazio, ma paga lo scotto di essere monodirezionale.
Scrive Segre:
Il lettore al quale dobbiamo riferirci, perché statisticamente corrisponda agli infiniti (o almeno non numerabili) lettori di un’opera letteraria attraverso il tempo, non ha con l’autore altri legami che la curiosità, la simpatia, l’attrazione, senza le quali non si accosterebbe all’opera. Questo lettore si trova tra due poli: la comprensione e la variazione. Egli può cercare di comprendere i significati che l’opera sprigiona, o abbandonarsi ad associazioni fantastiche e sviluppi liberi. Parlo di poli perché non c’è lettura che possa emarginare la libertà dell’immaginazione (feconda spesso di proposte interpretative), né lettura che possa reprimere totalmente il dettato del testo.
E ancora:
Mentre l’autore è il garante della costituzione semiotica del testo, il lettore è il garante della sua azione semiotica. I significanti infatti resterebbero nel testo, tracce nere sul bianco della pagina, se le successive letture non rinnovassero la loro funzione segnica, cioè la loro capacità di indicare significati.
[…]
Il testo costituisce insomma un diaframma segnico: prima di esso sta l’impegno dell’emittente, di tradurre significati in segni letterari, dopo di esso l’impegno del destinatario, di recuperare i significati racchiusi nei segni.
Quanto appena esposto comporta un aspetto fondamentale della letteratura, che la caratterizza fin dall’inizio della sua storia e di cui i fautori della scrittura immersiva sembrano (deliberatamente o meno) non tenere conto: immergersi in un’opera narrativa è prerogativa di chi legge.
E questo vale oggi più di ieri. Dicevo all’inizio: viviamo in un’epoca di iperstimolazione, le nostre facoltà ricettive sono oberate di segnali visivi e uditivi che ci comunicano qualcosa, anche quando non siamo interessati a ricevere messaggi. Il flusso di informazioni è continuo e la fruizione di un’opera d’arte qualsiasi è afflitta da un generale stato di distrazione permanente, che ci costa uno sforzo innaturale in termini di risorse cognitive per raggiungere e mantenere uno stato di vera concentrazione. La predisposizione a immergersi in una lettura deve perciò scaturire con ancora più tenacia dal lettore e non può essere indotta con trucchi da quattro soldi: un libro può fare ben poco se non offrirsi alla lettura.
Che poi un autore scriva un romanzo guidato dall’auspicio che i suoi lettori si immergano in esso mi pare di un’ovvietà disarmante. Trovatemi chi scriva augurandosi di venire ignorato. Guido Morselli si è tirato un colpo, per questo.
Il canone televisivo
La necessità di dedicarsi alla scrittura immersiva deriverebbe da un (arbitrario!) giudizio di inadeguatezza sulla narrazione per così dire “tradizionale” (narratore esterno, focalizzazione zero, terza persona, passato remoto ecc.) rispetto ai tempi in cui viviamo.
L’argomentazione – che tenta di darsi uno smalto socio-culturale – parte dal facile presupposto che i tempi sono cambiati rispetto al passato: ora siamo tutti schiavi dello smartphone, dei social e della serialità televisiva; ci abbuffiamo di serie TV, e anche molti prodotti per il grande schermo (vedi i cinecomic) si sono piegati a questo standard produttivo. La fruizione di “contenuti” sul Web è rapidissima: short su YouTube, reel su Instagram, TikTok, tutta roba che, quando richiede il massimo dello sforzo, ci tiene occupati trenta secondi, e sono già troppi.
Perciò come si può pretendere che un cervello assuefatto alle scariche di dopamina indotte da questi due tipi di fruizione – serialità compulsiva e contenuti istantanei – riesca a concentrarsi su un’attività complessa come la lettura?
Qui verrebbe in soccorso proprio la scrittura immersiva. Ma non nel modo più intelligente che ci si aspetterebbe da qualcosa spacciato per unica soluzione al problema, cioè avanzare una florida alternativa alla decadenza generale. No: la scrittura immersiva si adegua. E in particolare si adegua alla natura “visiva” dell’intrattenimento che oggi va per la maggiore.
Che cosa significa?
Significa che attraverso la semplificazione della prosa, la miope riduzione di tutte le prospettive possibili alla sola presa diretta, l’affermazione dello show don’t tell come cardine dell’intera operazione e l’abolizione dall’armamentario retorico dello scrittore di parti fondamentali del discorso (arriviamo anche questo, abbiate pazienza), l’immersivista punta a un’immersione totale del lettore nel vuoto pneumatico di valore artistico, linguistico, filosofico, esistenziale ed epistemologico della nuova letteratura che propone. E tutto ciò come se fosse una bella trovata.
A mio avviso, però, l’errore di metodo più grossolano sta a monte: tutto questo delirio deriva dal continuo e insensato accostamento della letteratura con altre forme di narrativa: cinematografica, televisiva, videoludica…
Sia chiaro: non è questione di primato né di prestigio: il punto è che media diversi hanno esigenze espressive, tempi, maniere e canali diversi in cui declinare la narrazione. A parità di storia, serie TV e cinema per esempio hanno un potere di sintesi infinitamente maggiore della pagina scritta, perché fanno perno su una sensorialità composita e immediata, lasciando assai poco all’immaginazione e bypassando con disinvoltura l’ostacolo (per qualcuno…) della descrizione.
Sostenere l’esigenza di una letteratura più “visiva”, secondo l’equazione visivo = immersivo è una sciocchezza, e per un paio di buone ragioni.
La prima: che un film o una serie TV siano prodotti intrinsecamente immersivi per lo spettatore è un assunto non dimostrato. Peraltro, proprio a causa dell’enorme pervasività della tecnologia nella nostra vita quotidiana, i prodotti televisivi o cinematografici sono quelli meno immersivi di tutti. Lo streaming si sta riempiendo di pubblicità, che introduce e interrompe la visione (riportandoci ai tempi d’oro della TV generalista, con la differenza che adesso paghiamo un mensile per guardare degli spot). Non solo: per comodità (leggi “pigrizia”) film e serie TV sono spesso fruiti da cellulare, pur non essendo stati pensati per schermi così piccoli; sempre la fruizione di contenuti video tramite smartphone ci espone alle continue notifiche che, pur ignorate, ci distraggono lo stesso e rubano risorse cognitive destinate in teoria alla visione. Perciò, di nuovo: l’immersione in un’opera narrativa, in qualsiasi forma essa si presenti, è prerogativa di chi ne fruisce.
La seconda: dare per buona l’identità fra i concetti di “visivo” e “immersivo” presuppone che la “visività” sia una caratteristica di per sé aliena alla letteratura e che pertenga all’attività di lettura soltanto nella misura in cui si legge con gli occhi. Senonché l’attività immaginativa scaturita dalla lettura coinvolge, guarda caso, proprio la corteccia visiva, attivata in prima istanza, com’è ovvio, dalla visione delle parole sulla pagina; ma anche la storia che “vediamo” nella mente mentre leggiamo attiva gli stessi circuiti neurali.
Dirò di più: la corteccia visiva si attiva anche nelle persone ipovedenti o non vedenti che leggono in Braille, il che è sorprendente se consideriamo che lo stimolo tattile durante la lettura viene elaborato da aree del cervello normalmente preposte a elaborare stimoli visivi! (Ma non voglio che crediate a me: vi lascio qualche studio al riguardo qui, qui e qui.)[2]
Che cosa vuol dire tutto questo? Che lettura e visione sono intrinsecamente correlate nell’esperienza di ciascuno di noi, a prescindere dalla tecnica con cui è stata scritta la storia che leggiamo; e con ciò, ancora una volta, posso cogliere il destro per sostenere che la scrittura immersiva, nel migliore dei casi, è paccottiglia.
Appiattire dunque la scrittura su, chiamiamolo così, un canone televisivo è un pessimo errore di metodo che dovrebbe mettere in allerta ogni aspirante scrittore che si imbatta in un immersivista.
Per concludere questa parte, facciamo due considerazioni sul paragone tra letteratura e narrativa videoludica. Alla luce di quanto detto fin qui, appare chiaro quanto questo confronto regga meno di tutti gli altri: se la scrittura immersiva ha come obiettivo il fruitore di una storia, cioè il lettore, in un videogioco il fruitore corrisponde piuttosto a un demiurgo. Mi spiego: soprattutto nei giochi RPG (i più coinvolgenti, narrativamente parlando), e ancor più in quelli a trama variabile a seconda delle scelte prese durante il gioco, pur non essendo autori della storia giocata diventiamo i demiurghi del suo sviluppo, poiché con le nostre decisioni influenziamo i risvolti di trama che ci porteranno a un finale piuttosto che a un altro, e di fatto saremo stati noi a scegliere quale. Il che devia sensibilmente dal tracciato immersivista.
Show-don’t-tell, avverbi, aggettivi e altri divieti
Il massimo errore di metodo dell’immersivista riguarda proprio il famigerato principio dello show, don’t tell: mostra, non raccontare.
Almeno dal punto di vista teorico, l’esortazione è di non indulgere nel resoconto di una vicenda ma di mostrarla, appunto, attraverso le interazioni dei personaggi fra di loro o con l’ambiente. In sostanza, l’invito è a non essere didascalici.
In sé non è affatto male come principio, perciò non fraintendetemi: l’errore di metodo dell’immersivista non sta nello sfruttare questa tecnica, ma nel considerarla dogma e mistero di fede, in virtù della quale applicare il principio sempre e comunque come sola igiene del testo, quando invece si tratta di uno strumento come gli altri, una delle numerose frecce all’arco dell’autore.
Autore che, superata l’adolescenza, dovrebbe accettare il fatto che la realtà è molto più sfaccettata di quel che sembra e che non esiste un unico modo di fare le cose. Esiste invece la capacità di adattare, modulare e combinare le risorse che abbiamo a disposizione e, guarda un po’, questo vale anche nella scrittura.
Dunque la scrittura immersiva distingue in modo oserei dire manicheo tra la bontà del mostrato e l’oscenità del raccontato, che ho scoperto essere anche definito, in gergo, tellato, dal verbo to tell. (E questi vorrebbero insegnare a scrivere…)
Ad ogni modo, per evitare di raccontare – pur volendo scrivere un romanzo – gli accorgimenti sono diversi.
Il punto di vista dev’essere in prima persona, localizzato nel “qui e ora”. Bandito il narratore onnisciente, definito talvolta, come abbiamo visto, “invadente”, con un automatismo che segnala o una lacuna o malafede argomentativa (ognuno consideri cosa sia peggio). Vietato l’uso di vocaboli vaghi, rarefatti, astratti, e in generale di tutte quelle espressioni che non rimandino a un referente diretto e concreto nella realtà. Vietato approfondire le descrizioni, considerate l’espressione più triviale del raccontato. Vietato l’uso degli avverbi in –mente e in generale dei connettivi come le congiunzioni subordinanti (alla faccia della coesione del testo). Caldamente sconsigliato l’uso degli aggettivi: se e solo se necessari, altrimenti facciamo senza, ché se no si finisce nel raccontato e l’immersione ne risente. Vietato rivolgersi al lettore. Vietato l’uso dei verbi di dire nei dialoghi. Eccetera.
Si capisce che un’autocastrazione del genere porterà un autore a scrivere in uno stile scialbo, insipido, dominato dalla paratassi, cioè da una sequela di frasi semplici (se non minime) separate da un punto fermo. Un elenco, insomma, non proprio l’apoteosi della narrazione. La rimozione dell’ipotassi e più in generale della complessità morfosintattica di una lingua frustra fin dall’inizio qualsiasi possibilità di ricerca stilistica, linguistica, filosofica e anche – rullo di tamburi… – d’intrattenimento.
Sull’altare del culto
Il concetto alla base della scrittura immersiva sembra avere a cuore la capacità intrattenitiva di un’opera. Se il focus privilegiato è l’immersione del lettore, è logico pensare che la godibilità della storia sia l’aspetto da esaltare maggiormente. E tuttavia gli accorgimenti per arrivare a questo risultato sono estremamente controproducenti, un po’ come bucarsi da soli le gomme della bici prima del Giro d’Italia: ti escludi dalla competizione e hai pure la pretesa di vincere?
Il fatto è che l’intrattenimento di una storia passa necessariamente attraverso il filtro formale. E per ottenere una storia coinvolgente non è possibile pensare forma e sostanza come due entità separate, né tantomeno standardizzare la forma così che tutte le sostanze (cioè i contenuti) vengano raccontate in un solo modo, peraltro orbo, monco e storpio.
Letteratura non è solo espressione, un esternare o, peggio, un espettorare le proprie idee – prima dicevo, scrivere siccome si caca –, ma è anche ricerca. Ricerca di stile, che non è la prima cosa che esce dal corpo quando un autore si sforza di scrivere. Allo stesso modo, l’intrattenimento letterario non è una sessione di improvvisazione né tantomeno è valido l’assunto crociano secondo cui l’intuizione artistica e la sua immediata espressione, aggiungo io, coincidono con l’arte stessa. Al contrario, il moto spontaneo va raccolto, incanalato, lavorato e rifinito. E l’intrattenimento scaturisce innanzitutto da una buona disposizione di entrambi gli attori in gioco (l’autore, che deve offrire una buona opera; e il lettore, che deve essere ben disposto a dedicarvisi); poi da una attenta calibratura delle parti, figlia di studio, letture ed esercizio, per la quale non esiste una formula risolutiva.
Capisco che sia molto più rassicurante credere all’esistenza di un sistema universalmente valido, ma questo da una parte condurrà alla morte della letteratura prim’ancora che un autore scopra se abbia o meno il potenziale per farla. Dall’altra concederà di non fare i conti con sé stessi, con le proprie capacità e con i propri limiti, annullando così il rischio di fare brutte scoperte… Molto comodo. Impedirà infine di esplorare la complessità della lingua e dell’invenzione narrativa in favore di un modello dall’impalcatura posticcia.
Così, sull’altare del culto, avrete sacrificato la letterarietà della letteratura a favore di regole assurde, di un registro monocorde, della presa diretta, di una generale aridità espressiva; vi sarete privati inutilmente di molte parole, delle loro sfumature e possibilità combinatorie; avrete rinunciato alla ricerca e alla libertà creativa, allo sviluppo del gusto per la profondità, alla sensibilità per la diversità, al cambio di scorci, a prospettive inedite.
E tutto per niente.
Contropartita
Ricapitolando, tanta faciloneria, mascherata da unico rimedio alla mediocrità, ignora le istanze più basilari di stile, gusto, ricerca e cultura che informano la letteratura.
A questo proposito, benché detesti ribadire l’ovvio, farò uno sforzo e ripeterò che per letteratura non si intende il frutto della peristalsi intestinale di chiunque abbia accesso a uno strumento di scrittura; bensì un progetto guidato da studio, esperienza, passione e libertà da dogmi formali (e ho scritto “dogmi”, non “regole”. Non fate i furbi).
La questione dell’immersione riguarda il lettore, piuttosto che il testo: fuori dai denti, se per entrare in intimo contatto con la storia e i personaggi fosse davvero necessario il sistema della scrittura immersiva, il problema sarebbe di tipo squisitamente ricettivo, cioè un serio limite cognitivo di quel lettore che non riuscisse a “immergersi” in un racconto scritto in terza persona e che non fa uso dello “show, don’t tell”, o che indulge in brani di prosa anche ricercata e vede nella tessitura della lingua – non solo nel dipanarsi degli intrecci – un elemento di valore.
E se fosse davvero questo il problema – malgrado io ci andrei piano a considerare il lettore un povero imbecille –, sarebbe una soluzione appropriata impoverire un’arte così complessa come la scrittura riducendola a un vademecum? Varrebbe davvero la pena di abbassare l’asticella così tanto e in un modo tanto crasso e deliberato?
Scrive il poeta: in vitium ducit culpae fuga, si caret arte.
Una pessima contropartita, solo per vendere qualche corso di scrittura a degli sprovveduti.
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Note
[1] Avviamento all’analisi del testo letterario, Torino, Einaudi, 1985. Le citazioni sono tratte dalle pp. 10 e segg.
[2] Fenomeno analogo si verifica durante la simulazione mentale di un’azione motoria: immaginare un movimento coinvolge la nostra corteccia motoria nonostante non non ci sia un movimento effettivo del corpo. È un importante principio fisiologico sfruttato nella medicina riabilitativa, che dimostra come il cervello sia portato naturalmente a immergersi nelle finzioni che crea, siano esse proprie o indotte da uno stimolo esterno come la lettura.