Il monomito
o la storia delle storie
Che cosa distingue l’essere umano dalla bestia? Qualcuno direbbe l’autocoscienza, qualcuno la parola, qualcun altro la risata, la capacità di dominare gli impulsi; o ancora l’intelligenza, la tecnica, le scienze, la tecnologia; i cinici direbbero forse il denaro, la cupidigia, l’invidia o il rancore; i romantici l’arte; gli eruditi la filosofia…
Io dico: l’impulso naturale di narrare.
Raccontare
Lo facciamo da sempre, da prima che i primi uomini pensassero di incidere figure nella pietra o scoprissero gli utilizzi del caolino e delle terre rosse e gialle come pigmenti per affrescare le pareti delle grotte. D’altronde l’espressione segue sempre il pensiero e lo stesso vale per ogni forma di racconto. Quanto alla scrittura – strumento di narrazione privilegiato per millenni, accanto alla trasmissione orale – arriva con un ritardo di circa quarantamila anni sulle pitture rupestri.
Vere o inventate che siano, le storie ci svagano, ci intrattengono, ci emozionano, ci fanno scoprire il nuovo e ci permettono di comprendere meglio ciò che già conosciamo, i luoghi e i tempi che abitiamo: noi stessi, insomma.
La complessa e inesauribile varietà di spunti da cui scaturiscono fa sì che sia impossibile ridurre tutte le narrazioni a un minimo comune denominatore. Non possiamo conoscere la prima storia che sia mai stata raccontata. La più antica che potessimo mai considerare farebbe comunque parte del novero delle cose che sappiamo; ma una delle poche, vere certezze al mondo è che ignoriamo molte più cose di quante ne sapremo mai.
Nei millenni abbiamo perfezionato l’arte della narrazione, toccando vette inusitate di bellezza e livelli di complessità, stratificazione e capacità di coinvolgimento sempre maggiori, sia dal punto di vista emotivo, sia da quello intellettuale. Eppure è da sempre che ci raccontiamo la stessa storia.
La biblioteca e la piazza
Ora, un lettore attento avrà notato una leggera contraddizione nelle mie parole. Poche righe fa ho detto che non è possibile ridurre tutte le storie a un minimo comune denominatore; adesso ho appena affermato il contrario. Ma non è confusione, lasciate che mi spieghi.
Le narrazioni non sono tutte uguali, le storie non parlano tutte della stessa cosa: Il Signore degli Anelli racconta di popoli che mettono da parte le loro differenze per unirsi contro una grande minaccia totalitarista; Il conte di Montecristo della vendetta di Edmond Dantès dopo un’ingiusta prigionia; Il nome della rosa di una serie di omicidi in un monastero italiano del Trecento che ruotano attorno a un libro proibito.
Ora, sulla falsa riga di una famosa finzione borgesiana, immaginiamo una biblioteca ideale che custodisca una sola copia di ogni romanzo esistente, così che le storie che contiene siano uniche. Ciascuna sarà scritta con uno stile peculiare, un proprio grado di dettaglio, una diversa proprietà di linguaggio. Anche se, per caso, alcune storie si somigliassero, differirebbero comunque per alcuni particolari: il finale, magari, o le scelte dei protagonisti, la morte o la sopravvivenza di questo o quel personaggio, e via dicendo.
Bene. Ora immaginiamo invece una piazza gremita di persone. Facce diverse, corporature diverse, abiti diversi, diverse acconciature, segni particolari, tatuaggi, accessori, atteggiamenti del corpo, voci, inflessioni, colore della pelle… In questa piazza le persone sono uniche, al punto che niente sembra accomunarle. Però, malgrado le estreme differenze, le riconosciamo come nostri simili. Allo stesso modo, nelle storie infinitamente diverse della nostra biblioteca ideale, riconosciamo uno scheletro, un’ossatura intorno alla quale si dispongono i muscoli, i nervi e i tendini delle varie narrazioni.
Le persone, per quanto diverse, rimangono persone; e le storie, per quanto diverse, rimangono storie.
La matrice
Se quindi è così, che cosa rende le storie riconoscibili in quanto tali nonostante le differenze?
In narratologia esiste un concetto noto come monomito, un modello narrativo che si riscontra in ogni tempo, luogo e cultura. Il mitologo Joseph Campbell, prendendo in prestito il termine dal romanzo Finnegan’s Wake di James Joyce, nella sua opera L’eroe dai mille volti (1949) definisce il monomito come l’unità nucleare di tutte le storie.
La parabola convenzionale dell’avventura dell’eroe costituisce la riproduzione ingigantita della formula dei riti di passaggio: separazione-iniziazione-ritorno, che potrebbe definirsi l’unità nucleare del monomito. […] L’avventura dell’eroe […] segue sempre l’unità nucleare sopra descritta: separazione dal mondo, penetrazione sino a qualche fonte di potere, e ritorno apportatore di vita.
Joseph Campbell, L’eroe dai mille volti, Roma, Lindau, 2016 (II ed.), pp. 41-47.
Il grafico qui sopra, tratto da L’eroe dai mille volti[1], sintetizza la parabola che rende tale una storia. Il monomito, conosciuto successivamente, anche grazie al lavoro di Christopher Vogler[2], come viaggio dell’eroe, è un tracciato generale, nato spontaneamente nell’inconscio umano come una sorta di codice sorgente o matrice generativa di tutte le storie. Mosso da un bisogno, l’eroe lascia il mondo che conosce per addentrarsi in un mondo sconosciuto, dove incontrerà ostacoli e avversari che lo metteranno alla prova; superate le difficoltà, conquisterà l’oggetto della sua ricerca e farà ritorno al suo mondo con il tesoro, ricomponendo l’equilibrio spezzato all’inizio della parabola.
Uno schema semplice
Tutte le storie, per quanto lo manipolino, guardano allo schema del monomito – o viaggio dell’eroe – che altro non è se non il riflesso di ciò che l’umanità ha sperimentato fin dall’alba dei tempi e che si è instillato così nella psiche collettiva. Facciamo un esempio.
30.000 avanti Cristo. Un uomo (l’Eroe) vive con la sua famiglia in una grotta che offre riparo dal freddo, dalle intemperie e dalle belve feroci. La grotta è ciò che Campbell e Vogler chiamano rispettivamente mondo normale e mondo ordinario. A un certo punto, però, un bisogno improrogabile, la fame, spinge l’uomo ad abbandonare ciò che conosce (chiamata all’avventura). Si addentra così in un luogo nuovo, ignoto e pieno di pericoli – una prateria o una foresta – dove il suo valore verrà messo alla prova nella caccia (strada delle prove, prova centrale). Se saprà superare gli ostacoli, otterrà l’oggetto della sua ricerca – cibo – e potrà tornare alla sua grotta per sfamare la sua famiglia (ritorno con l’elisir).
Per certi aspetti, nulla è cambiato nelle nostre vite moderne: la mattina ci svegliamo nel nostro letto (mondo ordinario), usciamo di casa mossi dal bisogno di guadagnarci da vivere (chiamata all’avventura), lavoriamo otto, dieci, dodici ore (strada delle prove) e torniamo a casa con lo stipendio in tasca (ritorno con l’elisir).
Tutto questo lo raccontiamo, ancora, ancora e ancora, da sempre.
Tre atti
Come si è visto, Campbell individua nello schema del monomito la tripartizione fondamentale “separazione-iniziazione-ritorno” che potremmo anche tradurre in “equilibrio-rottura-ricomposizione”. Questi tre momenti costituiscono i tre atti che generalmente compongono una storia e che permettono la messa in scena di una situazione di equilibrio rotta da un conflitto e infine ripristinata dopo una serie di peripezie. Approfondiremo questi tre atti prossimamente.
Seguire lo schema del viaggio dell’eroe
è obbligatorio?
Viene spontaneo chiedersi se, dato che tutte le storie presentano una stessa matrice strutturale, non sia obbligatorio per un autore seguire in maniera certosina tutte le tappe teorizzate da Campbell e riprese poi da Vogler.
La risposta è: no.
Innanzitutto lo schema del viaggio dell’eroe, oggi, è utile nel definire la fase progettuale di una storia piuttosto che la sua stesura. In secondo luogo, bisogna tenere presente che il monomito è una teorizzazione a posteriori. Che cosa significa? Significa che il sistema di Campbell riconosce e descrive una tendenza generale della narrazione che è esistita in autonomia per millenni senza che nessuno si occupasse di descriverla, ma non la rende una regola. Tanto che il monomito è stato da sempre manipolato, applicato integralmente o in maniera parziale; gli autori ne hanno conservato alcune parti e rifiutate altre. L’applicazione dello schema a livello pratico è pur sempre un utile strumento, ma deve servire l’intento espressivo dell’autore, che può anche decidere di rifiutarlo in blocco esplorando nuove frontiere della letteratura.
Anche se, in chiave meta-letteraria, persino rifiutare il monomito risponde in qualche modo al modello del monomito. Guardate qua:
- un autore sta scrivendo una storia di impianto classico (mondo ordinario);
- all’improvviso sente il desiderio di esplorare nuovi modi di raccontare (chiamata all’avventura);
- si cimenta quindi nell’invenzione di qualcosa che sovverta tutte le regole e le convenzioni, testando le proprie potenzialità e quelle della scrittura (strada delle prove);
- apprende o inventa nuove tecniche e scrive un romanzo sperimentale che porta nuova linfa alla letteratura (ritorno con l’elisir).
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Note
[1] P. 41
[2] Sceneggiatore americano, pubblica nel 1992 (e poi in due riedizioini nel 1998 e nel 2007) il volume Il viaggio dell’eroe. La struttura del mito ad uso di scrittori di narrativa e di cinema, edito in Italia per Dino Audino Editore (1999, 2020). Vogler prende le mosse dalle argomentazioni di Campbell per analizzare la struttura delle narrazioni moderne, a uso di scrittori e sceneggiatori, realizzando un utile manuale tecnico-divulgativo.