L’Alchimista
o la favola spiccia
Se ne stava all’impiedi, col suo dorso sottile rivolto verso la stanza, ancorché obliterato da una pila di libri coricati sulla quarta.
Era lì da quasi vent’anni, da quando cioè nel 2005 lo ricevetti come regalo di Natale. Non l’ho mai sfogliato fino a qualche giorno fa (mentre scrivo è il 23 settembre). Ammetto di essere stato distratto, sulle prime, da un pregiudizio nei confronti di Coelho: letteratura facile, pensavo, come se a dodici anni stessi leggendo la Recherche al posto di Licia Troisi… Tant’è, L’Alchimista è rimasto lì, in verità non per pregiudizio, ma per dimenticanza: suppongo di aver annotato nella mente che Coelho non valeva la pena, e che perciò sia uscito dai miei pensieri. Tanto che il preguidizio cui accennavo si è atrofizzato ed è morto: non l’ho coltivato, e fino a qualche giorno fa su Coelho non avevo un’opinione, anzi, non avevo una sola sinapsi dedicata che mi suscitasse una qualche reazione al sentir nominare lui o le sue opere.
Poi, in un momento di vuoto tra un libro e l’altro – disagio ben noto a molti lettori – mi è ricapitato fra le mani. Mi sono informato quel poco che mi desse contezza dei contenuti senza svelarmi nulla sulla trama; ricordo che ho pensato “Oh no, un altro con la scimmia della New Age”, rifacendomi alla dolorosa lettura di un libro di Castaneda che mi sono sobbarcato anni fa solo per dare la mia opinione a chi me l’aveva chiesta (e mi aveva prestato il volume). Non ho alcuna memoria di quella lettura; non ho memoria di cosa dissi per sfangarmela. Rammento solo il profondo disinteresse che nutrivo, e che nutro tuttora, verso lo sciamanesimo, il magismo e in generale verso tutta la roba New Age, che considero paccottiglia.
Malgrado ciò, ho cominciato L’Alchimista e dopo una quarantina di pagine l’ho rimesso dov’era stato nell’ultimo migliaio di settimane. Il giorno dopo però sono ritornato sui miei passi, curioso di riprendere il discorso con il quale a suo tempo lo avevo liquidato. Quindi l’ho letto tutto e l’ho trovato insulso, inconcludente, fastidioso, vago, stucchevole, ruffiano. Letteratura facile, facilissima, negli intenti come nella resa.
Per chi fosse arrivato fin qui e avesse la pazienza (e l’interesse) di leggere un testo che gli ruberà altri cinque minuti, allego di seguito qualche pensierino al riguardo.
Segni, simboli ecc.
Ho studiato alchimia per undici anni. […] Malgrado la mia dedizione i risultati erano nulli. (pp. 9-10)[1]
Tu pensa…
Inizia con simili presupposti la lettura dell’Alchimista di Paulo Coelho, che nella Prefazione si rammarica dell’inesorabile fallimento della sua carriera di Paracelso, nonché della frustrazione per la mancata scoperta della pietra filosofale e dell’elisir di lunga vita, a dispetto del suo grande impegno.
Cosa aspettarsi da chi nutre sinceramente aspettative del genere e su di esse fonda l’impalcatura argomentativa del proprio romanzo?
Sempre nella Prefazione, Coelho precisa:
È importante sottolineare come L’Alchimista sia un libro a carattere simbolico, diverso in questo da Il diario di un mago, che non era un testo di invenzione narrativa. (p. 9)
Una certa confusione anima questa dichiarazione d’intenti. Insomma, simbolo e finzione narrativa andrebbero necessariamente a braccetto, sembra affermare; ma sarebbe un grossolano errore di valutazione. Forse intende che il romanzo è “pieno di simboli”, ossia di “segni”, anzi di “segnali” (per usare il suo lessico)? D’altronde, Melchisedek rivela a Santiago che
Per arrivare fino al tesoro dovrai seguire i segnali. Dio ha scritto nel mondo il cammino che ciascun uomo deve percorrere. Dovrai soltanto leggere quello che ha scritto per te. (p. 44)
Ma no, non è possibile: i segnali indicano, esauriscono cioè la loro funzione nella deissi spazio-temporale. I simboli rappresentano un oggetto ideale attraverso un oggetto sensibile, ma non ne condividono l’intrinseca natura, e soprattutto sono assoluti, svincolati dal contesto: l’oro è stato simbolo di ricchezza, regalità e divinità in innumerevoli culture; il leone, di forza; la serpe, di inganno; il cane, di fedeltà; la pietra, di fermezza; il nero, di lutto; e così via.
I segnali vanno seguiti; i simboli vanno interpretati.
Dunque L’Alchimista dovrebbe sottendere un significato raggiungibile attraverso l’interpretazione del suo carattere simbolico: una sorta di processo iniziatico di scavo negli strati della narrazione e del suo linguaggio, di cui però tra le pagine non v’è traccia. A meno di non voler considerare simboli le altisonanti etichette di Leggenda Personale, Linguaggio Universale o Anima del Mondo eccetera, che altro non sono se non perifrasi: l’una per il destino di ciascuno[2], l’altro per una sorta di koinè spirituale che ci accomunerebbe tutti, l’altra ancora per il senso delle cose, principio dell’esistenza a cui tutto farà ritorno.
Il supposto carattere simbolico dell’Alchimista vorrebbe porre l’opera al di sopra del semplice piano del fantastico, o – finezza – del realismo magico, a cui in verità appartiene. Un tentativo di elevare una narrazione povera e molto scarna a una dimensione che non possiede.
In sostanza, nella Prefazione l’autore ci prepara ad affrontare non tanto un’esperienza narrativa, quanto piuttosto un percorso iniziatico sorretto da un impianto filosofico sciorinato in tono liturgico e fastidiosamente sapienziale: una collettanea di aforismi sulla vita e sulla realizzazione personale che scandiscono la formazione del giovane Santiago, pastore andaluso che solo per il fatto di avere un sogno ricorrente, si inventa d’avere la missione di realizzarlo.
Santiago sogna di un tesoro all’ombra delle piramidi d’Egitto. Parte così per un viaggio che lo porterà a dare forma compiuta alla sua Leggenda Personale. Lungo la strada incontrerà diversi personaggi, i quali, con atteggiamento ieratico e paternalistico, snoccioleranno ciascuno la propria massima, tassello inestimabile nell’apprendistato di un vero Guerriero della Luce.
Destino e libero arbitrio
L’intero racconto è intriso di stucchevole ottimismo, qualcosa di simile a ciò che chiameremmo “pensiero positivo”, uno zuccheroso determinismo che porta il protagonista a non avere mai davanti a sé un vero problema da risolvere, un ostacolo da superare o un pericolo da sventare. La riuscita della Leggenda Personale di Santiago è direttamente proporzionale al grado di fiducia che il giovane nutre verso le proprie possibilità di raggiungere le piramidi e trovare il tesoro. Basta crederci, insomma.
«Ascolta il tuo cuore. Esso conosce tutte le cose, perché è originato dall’Anima dei Mondo e un giorno vi farà ritorno.» (p. 143)
Nulla accade per caso, perché tutto è già contenuto nel grande libro dell’esistenza vergato dalla “Mano che aveva scritto Tutto”. Non solo, per ben due volte e per bocca di due personaggi distinti il romanzo afferma che
«Quando si vuole una cosa, tutto l’Universo cospira affinché si riesca a realizzare il sogno.» (pp. 38 e 130)
Perciò a volte è già tutto prestabilito, altre volte l’intero universo si mette in moto per favorirci: nulla dipende dal soggetto, il libero arbitrio viene espunto dalla mappa esistenziale dell’essere umano, e l’autodeterminazione consiste – per paradosso – nel conformarsi a un solco che è già stato disposto per noi da potenze trascendentali. E tutto ciò, i personaggi dell’Alchimista lo accolgono con gioia e gratitudine.
Il che può quasi apparire sensato all’interno del perimetro della narrazione, se non fosse che un dialogo fra Melchisedek e Santiago pone un serio problema interpretativo. I due stanno conversando intorno al contenuto di un libro:
«È un libro che parla di qualcosa di cui parlano quasi tutti i libri,» proseguì il vecchio. «Dell’incapacità della gente di scegliere il proprio destino. E conclude facendo in modo che tutti credano alla menzogna più grande del mondo.»
«Qual è la menzogna più grande dei mondo?» gli domandò, sorpreso, il ragazzo.
«È questa: che a un certo momento della nostra esistenza, perdiamo il controllo della nostra vita, che comincia così a essere regolata dal destino. È questa la menzogna più grande del mondo.» (pp. 33-34)
Eccolo qui, l’elefante nella stanza: in che modo potremmo conciliare l’idea che “Dio ha scritto nel mondo il cammino che ognuno deve percorrere” con il fatto che proprio ciò sia “la menzogna più grande del mondo”? Come pacificare la possibilità di sottrarre la nostra esistenza ai capricci del destino con il fatto che l’esistere, di per sé stesso, ci richiede di adempiere alla nostra Leggenda Personale? Come interpretare dunque un altro passo, in cui si afferma che il Linguaggio Universale permette di immergersi nella “corrente universale della vita, dove le storie di tutti gli uomini sono legate intimamente fra di loro, e dove possiamo conoscere tutto, perché tutto è scritto”? O ancora, che peso dare a maktub, la parola-feticcio di tutti i poveri Guerrieri della Luce, che secondo il Mercante di Cristalli significa “come è scritto”?
Sostituiamo pure “destino” con “provvidenza”, se aggrada: in fin dei conti, rimane un gioco semantico. Sull’argomento, ne ha tratto granché di meglio Pavese nei suoi Dialoghi con Leucò.
Coerenza e carenza di comprendonio
Gli undici anni passati a studiare l’alchimia devono aver disorientato un poco l’autore, che non riesce a tenere le redini argomentative di questa sgangherata paraboletta andalusa, né tantomeno quelle narrative.
L’intreccio è nel suo insieme molto farraginoso e incoerente. Forse non è il raccontare una storia l’aspetto su cui punta questo romanzo, il che sarebbe un paradosso ingombrante. Ma poniamo pure che sia così: allora forse dovrebbe reggersi sulla dozzinale filosofia che esprime?
A ogni buon conto, è nelle ultime trenta pagine che la narrazione dell’Alchimista tira i remi in barca e decide di andare alla deriva secondo natura.
Quasi alla fine del suo viaggio, ormai vicino all’Egitto, Santiago si ritrova nell’oasi di El-Faiyûm. La zona è sconvolta da sanguinose lotte fra clan e, suo malgrado, anche il nostro pastorello, insieme all’Alchimista, vi si ritrova in mezzo. Catturati dai guerrieri di una fazione e sospettati di essere spie, l’Alchimista – un vero mattacchione – spaccia Santiago per un collega e spiega ai guerrieri che il ragazzo ha il potere di tramutarsi in vento e spazzare via l’accampamento. Il capo guerriero vuole una prova di tanto potere:
«Voglio vederlo con i miei occhi» disse il generale.
«Ci servono tre giorni,» rispose l’Alchimista. «Ed egli si trasformerà in vento, soltanto per mostrarvi la forza del suo potere. Se non riuscirà, noi vi offriremo umilmente le nostre vite, per l’onore del vostro clan.» (p. 156)
Segue un dialogo fra Santiago e l’Alchimista, che, a dire poco, viola il principio di non contraddizione:
«Non abbandonarti alla disperazione,» disse l’Alchimista, con una voce stranamente dolce. «Altrimenti non riuscirai a parlare con il tuo cuore.»
«Ma io non so trasformarmi in vento.»
«Chi vive la propria Leggenda Personale conosce tutto ciò che ha bisogno di conoscere. Soltanto una cosa rende impossibile un sogno: la paura di fallire.»
«Io non ho paura di fallire. Ma non so proprio come trasformarmi in vento.»
«Allora dovrai impararlo. La tua vita dipende da questo.»
«E se non ci riuscirò?»
«Morirai mentre starai vivendo la tua Leggenda Personale […]» (p. 157)
Analizziamo queste poche righe. Santiago ha paura, e ci mancherebbe: l’Alchimista ha appena messo sul piatto la sua testa caricandolo di una responsabilità soverchiante. Ma l’uomo, da buon mentore quale vuol far credere di essere, ecco che partorisce una massima di sapienza: vivere la propria Leggenda Personale conferisce tutte le conoscenze necessarie a un Guerriero della Luce. Ergo, Santiago dovrebbe avere dentro di sé tutte le conoscenze che gli permettano di tramutarsi in vento, ma, per tutta risposta, il pastorello ammette di non saperne niente. Eppure, sul finire dello scambio, l’Alchimista ribadisce che il giovane sta effettivamente vivendo la sua Leggenda Personale. Chi mente? Chi dice il vero? Chi ci sta capendo davvero qualcosa in tutto questo pot-pourri di sciamanesimo da quattro soldi?
Comunque la vera finezza in termini di contraddizione arriva poco dopo: mentre Santiago si dispera per la propria incapacità, l’Alchimista pensa ai fatti suoi e dà da mangiare al suo falco.
«Se io non riuscirò a trasformarmi in vento, moriremo,» disse il ragazzo. «Perché, allora, nutrire il falco?»
«Chi morirà sarai tu,» disse l’Alchimista. «Io so come trasformarmi in vento.» (p. 158)
Ora, i casi sono due: o Coelho, arrivato a questo punto, ha cominciato ad accusare il peso delle stupidaggini di cui è infarcito il romanzo, oppure voleva dare un guizzo comico alla storia attraverso l’ironia crudele del suo personaggio che, a dispetto del suo ruolo di mentore, non esita a scaricare il fardello dell’impresa sul povero pastore andaluso, dopo essere stato lui stesso a porre le condizioni per aver salva la vita. E tali condizioni prevedevano che al fallimento di Santiago, entrambi sarebbero stati giustiziati.
Se avessi letto questa storia a dodici anni, forse avrei perso la mia fiducia negli adulti.
La faccenda prosegue con alcune bizzarre prosopopee: del deserto, del vento, del sole, della Mano che ha scritto Tutto. Qui, rileva quella del vento: fra tutte, l’entità a cui sarebbe più logico domandare come tramutarsi, per l’appunto, in vento. Santiago fa questo, ma siccome non è un tipo che definiremmo arguto, prima domanda al deserto. Il deserto, mosso a pietà per tanta pochezza di cervello, lo indirizza allo Scirocco, e ciò che ne viene fuori è un dialogo fra personaggi il cui miglior pregio è essere tardi di comprendonio. Leggiamolo:
«Ho ascoltato la tua conversazione con l’Alchimista, l’altro giorno,» disse il vento. […] «Gli uomini non possono trasformarsi in vento.»
«Insegnami a essere vento per alcuni istanti» soggiunse il ragazzo. «Affinché possiamo parlare delle possibilità illimitate degli uomini e dei venti.»
Il vento era curioso, ma quella era una cosa che non conosceva. […] Pensava di essere illimitato, eppure lì c’era quel ragazzo a dirgli che esistevano tante altre cose che un vento poteva fare. (pp. 162-163)
Solo a me pare una conversazione fra deficienti?
Questi continui rimpalli proseguono nella terza prosopopea, quando Santiago, rimbalzato dal vento che a quanto pare è ben lungi dall’avere “possibilità illimitate” (anzi è “infuriato per il fatto di dover accettare i propri limiti”), lo manda a parlare col Sole. E da questo incontro scaturisce un altro delirante colloquio:
«Il vento mi ha detto che tu conosci l’Amore,» disse il ragazzo al Sole.
«Dal punto in cui mi trovo,» disse il Sole «[…] ho imparato ad amare.»
[…]
«Tu conosci l’amore,» disse il ragazzo.
«E conosco l’Anima del Mondo.»
[…] «Tu sei saggio perché vedi le cose da lontano,» rispose il giovane. «Ma non conosci l’amore.» (pp. 164-165)
Cos’altro dire? Davanti a questo, getto le armi.
In tutto ciò, Santiago metterà in piedi una truffa bella e buona: attraverso la conoscenza e l’esercizio dell’Amore universale (una specie di asso pigliatutto, propedeutico alla fondazione di ogni psicosetta), con meccanismi ben poco chiari ma riassumibili con il termine “preghiera”, fa in modo che il vento soffi più forte che mai e quasi distrugga l’accampamento dei guerrieri. Il giorno dopo, il generale rilascerà lui e l’Alchimista sulla parola, benché nessuno si sia trasformato in alcunché, né metaforicamente, né simbolicamente, e che dunque Santiago non abbia imparato nulla se non come darla a bere a una cricca di beduini bellicosi.
La perla finale
Alle ultime pagine, come se non bastassero le menate psicomagiche e le incongruenze che mi sono sorbito finora, arriva l’affondo definitivo.
Coelho confeziona una chiusa che urterebbe i nervi di un santo, e che potrebbe soddisfare solo chi non fosse in grado di ammettere di aver investito tempo ed energie nel libro sbagliato.
Per farla breve, le parole di un bandito provocano al pastorello un’agnizione tanto fulminante quanto assurda (ma scommetto che invece i Guerrieri della Luce hanno fatto la ola a leggere roba così): il tesoro che Santiago credeva fosse sotto le piramidi in realtà è sempre stato sepolto fra le radici del sicomoro in Andalusia sotto il quale si rilassava mentre le pecore pascolavano. In altre parole: fin dall’inizio sedeva sopra una cassa di dobloni spagnoli, ma per accorgersene gli ci è voluto un viaggio di un paio d’anni e 4200 chilometri, perché per due volte di fila ha fatto lo stesso sogno. E in questo viaggio è stato derubato, ha lavorato un anno per rifarsi del maltolto, è stato preso in ostaggio e condannato a morte (per scampare all’ultimo momento grazie a un gioco di prestigio); subito dopo, è stato derubato nuovamente e riempito di botte da due disgraziati che a suon di calci gli hanno fatto capire la completa inutilità del suo viaggio. Ma Santiago, che non è un tipo sveglio, mentre viene picchiato sorride, perché alla fine, forse, nonostante tutto, qualche filo in quella testolina di pastore andaluso ha fatto contatto. Evviva.
*
Note
[1] L’edizione di riferimento usata per le citazioni è Paulo Coelho, L’Alchimista, Bompiani, Milano, 2005, traduzione di Rita Desti.
[2] «Realizzare la propria Leggenda Personale è il solo dovere degli uomini.» (p. 38)