Dialoghi con Leucò
L’umanità alla prova del mito
Negli ultimi anni di lavoro febbrile per Einaudi, a cominciare dal dicembre 1945 e a seguire durante la parentesi dell’“esilio” romano del ’46, Pavese scrive i Dialoghi con Leucò, ventisette brevi conversazioni tra figure del mito greco – eroi, mostri, personaggi della tragedia, ninfe, divinità –, la cui materia si regge su profondi studi etnologici e sul recupero della filosofia di Giambattista Vico, nonché, naturalmente, sulla forma dialogica: memoria platonica, certo, ma soprattutto leopardiana.
I dialoghi, sempre a due, affrescano un’antropologia favolosa sullo spolvero delle tre età dell’uomo teorizzate nella Scienza nuova del Vico; ma non vogliono tracciare una parabola, per così dire, evoluzionistica della storia dell’uomo, da un momento di minorità nei confronti alla natura fino a una presa di coscienza di stampo illuministico; bensì delineare un percorso di carattere psicologico e umano in senso stretto, cioè il progressivo riappropriarsi da parte dell’umanità di una condizione di esistenza a lei congeniale, di sostanziale libertà dalla forza del destino e dall’infelicità che derivano dalla subordinazione a princìpi alieni, imperscrutabili e ineluttabili. In altre parole, divini.
Insomma, Pavese ripercorre la strada già descritta dalle più grandi narrazioni mitologiche dell’Occidente, tra cui anche quella cristiana; ne tocca i grandi temi, rievoca le angosce umane di fronte al divenire a cui non ci si può sottrarre, allo scivolare del passato in una dimensione irrecuperabile, alla paura della morte e al senso di oppressione che scaturisce dalla credenza di non poter controllare il mondo intorno a noi. Il che è vero. Ma in tutto ciò si intravede uno spiraglio da cui filtra una luce di intima consapevolezza, che è bene rammentare: «Ti sei pur chiesto che cosa saremmo senza di loro [senza gli uomini],» dice Demetra a Dioniso nel dialogo Il mistero «sai che un giorno potranno stancarsi di noi dèi». Bisogna mantenersi presenti agli occhi dei fedeli, si afferma, affrettarsi a insegnare al genere umano la vita beata, prima che ci pensi da solo, prima che crei un proprio mito, tutto umano per l’appunto, fatto di mortali che sfidano la morte e la vincono. Figura del cristianesimo, naturalmente: altra mitologia cultuale che non segna certo l’uscita dall’impasse della subordinazione al divino, ma allo stesso tempo testimonia che l’uomo può scegliere a quale dio votarsi, forgiarlo dai relitti del passato e così rovesciare i consueti rapporti di forza in un primo passo verso un vero affrancamento.
Se dunque il prigioniero può scegliere a piacimento le proprie catene, allora altrettanto a piacere potrà scioglierle. Resta solo da accorgersi di poterlo fare.
L’impronta del Vico
Vico, nella sua Scienza nuova, descrive la storia come tripartita: all’età degli dèi segue l’età degli eroi; all’età degli eroi segue quella degli uomini; e ogni passaggio è improntato a un grado sempre maggiore di razionalismo.
La prima età è dominata da uno sguardo panico dell’umanità sull’intera esistenza, e dalla meraviglia. Dietro il fuoco e il fulmine, dentro l’acqua e nella roccia l’uomo scorge il divino; inventa storie fantastiche che spieghino il mondo a partire da un motore creativo che necessariamente trascende la nostra dimensione e tutto regola.
La seconda è dominata dalla forza e dal prestigio di pochi. La dimensione divina si sposta in un iperuranio irraggiungibile, gli dèi non sono più nelle cose, ma osservano dall’alto e giudicano. Sulla terra si muovono uomini dalle facoltà prodigiose, tanto da farli credere discendenti degli stessi dèi che ora sono slegati dalla fibra del mondo. La società si consolida, il forte dispone, il debole esegue. Ma resta sempre una legge: nessuno è sopra gli dèi, e chi si macchi di hỳbris (cioè dell’estrema arroganza) andrà incontro a sicura catastrofe, sia egli un pastore, un re o, per l’appunto, un eroe.
La terza età è illuminata dal fuoco della ragione. Il mondo è osservato e spiegato al lume della scienza, la legge origina dagli uomini per gli uomini: di fronte a essa ciascuno è uguale. In questo tempo, Diogene camminerebbe in una valle assolata e potrebbe finalmente posare la sua lanterna.
Del divino superfluo
Anche nei Dialoghi pavesiani si rintraccia uno schema analogo: tra le parole dei vari interlocutori si colgono i contorni delle età che l’uomo ha attraversato, ma quella del Vico è materia di studio e spunto di riflessione, perciò non trova esatta corrispondenza nell’approdo di Pavese, che mostra per l’appunto alcune differenze.
Partiamo col dire che le conversazioni hanno luogo quasi tutte nella seconda delle tre età, quella che definirei, come la prima del Vico, età degli dèi. Mentre descrivono questa e lentamente procedono verso la terza, che direi età degli uomini, o senza dèi, i personaggi evocano una prima età pervasa di panismo, che definirei età della natura.
TIRESIA: […] Ho sempre visto le sventure toccare a suo tempo dove dovevano toccare.
EDIPO: Ma allora gli dèi che ci fanno?
TIRESIA: Il mondo è più vecchio di loro. Già riempiva lo spazio e sanguinava, godeva, era l’unico dio – quando il tempo non era ancor nato. Le cose stesse regnavano allora. Accadevano cose. – adesso attraverso gli dèi tutto è fatto parole, illusione, minaccia. Ma gli dèi posson dare fastidio, accostare o scostare le cose. Non toccarle, non mutarle, sono venuti troppo tardi[1].
Dunque gli dèi sarebbero di sostanziale irrilevanza nei casi umani, ma gli uomini, a parte ora Edipo, non lo sanno. Loro sanno la legge, la legge è che esiste un destino e il destino è ciò che accade secondo un disegno più o meno complesso, ma con l’unica, ovvia destinazione della morte.
Prima degli dèi il mondo era il dio. Nell’età della natura il tutto era l’uno e l’uno era il tutto; non esistevano gerarchie né differenze tra gli elementi, tanto che un essere umano poteva generare con gli animali, con le rocce, con le acque. Il mondo non sarebbe stato interpretabile con i paradigmi del dopo, tanto meno con quelli del nostro tempo: allora non c’erano limiti, non esisteva morale né il suo contrario, tutto era concesso, niente era impossibile, l’uomo era immortale e non conosceva il destino.
La legge, il destino, la morte
La legge arriva con gli dèi, quando per primi fanno differenza, applicano criteri, rinchiudono le cose in categorie e a quelle categorie danno un nome e un valore: «Non ci sono cose vili se non per gli dèi» dice Tiresia. Dunque si deve a loro il solco tra ciò che offende e ciò che non lo fa, tra ciò che è lecito e ciò che è proibito.
Questa si chiama legge, e nel tempo sospeso di Issione e della Nube è una novità:
LA NUBE: C’è una legge, Issione, che prima non c’era. Le nubi le aduna una mano più forte. […] La sorte dell’uomo è mutata. Ci sono dei mostri. Un limite è posto a voi uomini. L’acqua, il vento, la rupe e la nuvola non son più cosa vostra, non potete più stringerli a voi generando e vivendo. Altre mani ormai tengono il mondo. C’è una legge, Issione.
ISSIONE: Quale legge?
LA NUBE: Già lo sai. La tua sorte, il limite…
Nell’età degli dèi esistono uomini e mostri, il turpe e l’osceno accanto al puro e al sublime; la natura è separata al suo interno, le divinità hanno sciolto il coagulo di esistenza che era il mondo prima e hanno classificato in maniera quasi linneana i viventi e i non viventi, «L’acqua, il vento, la rupe, la nuvola non son più cosa vostra».
E all’uomo tocca morire: tra i vari destini che gravano sulle sue spalle, ora ce n’è uno che li contiene tutti e che annulla ogni variabile. Chi sa come, dove, quando e perché si morirà? Ma si morirà. È la legge ed è sempre valida, come valido resta il comandamento di non sfidare gli dèi.
LA NUBE: Non sfidare la mano, Issione. È la sorte. Ne ho veduti di audaci più di loro [i mostri] e più di te precipitare dalla rupe e non morire. Capiscimi, Issione. La morte, ch’era il vostro coraggio, può esservi tolta come un bene. Lo sai questo?
ISSIONE: Me l’hai detto altre volte. Che importa? Vivremo di più.
LA NUBE: Tu giochi, e non conosci gli immortali [2].
Gli dèi sono capaci di indicibile crudeltà, ma Issione non capisce. È nato sotto il «vecchio destino», dove niente muore, o meglio dove la morte accade come il giorno e la notte, dice la Nube, è un accidente qualunque non diverso dal vivere. Nell’unità della natura tutto muore ogni istante e tutto si rinnova, il punto di vista non può che essere che totale, olistico, anzi forse nemmeno può esistere, perché nella prima età non c’è nessuno che guardi, ma tutto si fa e si disfa come un unico organismo. Issione ancora non ha un punto di vista personale come l’abbiamo noi, nato dal sentimento della differenza. «Tu sei uno di noi, Issione. Sei tutto nel gesto che fai. Ma per loro, gli immortali, i tuoi gesti hanno un senso che si prolunga» dice la Nube. Cioè Issione agisce senza pensare alla conseguenze, perché anche l’agire è un accidente per lui; ma gli dèi sono attenti, guardano e valutano: hanno imposto un limite e ciò significa che esiste un metro con cui misurano il mondo. Agiscono, loro, non per accidente, ma per calcolo e giudizio: possono sottrarre la morte ai mortali e dare loro una “morte divina”, «quella morte che loro conoscono, ch’è un amaro sapore che dura e si sente.»
«Dunque ancora di può morire?» chiede Issione.
«No, Issione» risponde la Nube. «Faranno di te come un’ombra, ma un’ombra che rivuole la vita e non muore mai più.»
Essere un dio
E allora, si crederebbe, la condizione divina è forse la più desiderabile, ma non è così. Se come si è detto nell’età degli dèi c’è differenza fra le sostanze, allora un uomo resta un uomo e un dio resta un dio. Un uomo con facoltà divine sarebbe appunto questo: non un dio, ma una chimera, il frutto di un innesto, una creatura con prerogative che non ha gli strumenti per tollerare.
L’essere umano vive di cambiamento e trasformazione. La morte stessa non è altro che un cambio di stato, dall’unità degli impulsi in una coscienza capace di riceverli ed elaborarli, alla dissoluzione nei costituenti basilari della materia. La condizione umana si nutre di scoperta, è movimento, è immersa nel tempo e segue la sua direzione. Un tempo limitato, s’intende, spesso avaro; in quel tempo gli uomini vivono, cioè non solo sono vivi, ma agiscono, apprendono, illuminano a poco a poco il loro buio trovando il proprio significato. Tutto questo a patto di non conoscere il destino.
Sapere la sorte è prerogativa degli dèi, ma abbiamo visto che c’è differenza tra un uomo e un dio: se questo sorride davanti al destino e resta imperturbato nella sua immobilità, un uomo che sapesse la sorte sarebbe condannato a una vita vuota.
Dice la maga Circe, in dialogo con la ninfa Leucò: «La loro vita [degli uomini] è così breve che non possono accettare di far cose già fatte o già sapute»[3].
La stessa angoscia lamenta Edipo a un mendicante:
Val la pena di fare una cosa ch’era già come fatta quando ancora non c’eri?
[…]
Io sapevo – ho saputo sempre – di agire come lo scoiattolo che crede d’inerpicarsi e fa soltanto ruotare la gabbia. E mi domando: chi fu Edipo?
[…]
Non sono un uomo come gli altri, lo so. Ma so che anche il servo o l’idiota se conoscesse i suoi giorni, schiferebbe quel povero piacere che vi trova[4].
Le azioni di Edipo sono state predette dall’oracolo, ma se vivere è conoscere, muoversi, cambiare, allora sapere che il futuro è già deciso rende vana ogni cosa, anche una vita già vissuta. Che ci sia o meno un disegno, la vera salvezza dell’uomo sta nell’ignorarlo, nel non interrogarsi al riguardo, nel credere che pur contro la sua natura di esploratore dell’ignoto, non tutto valga la pena di essere scoperto.
Un atteggiamento per nulla stoico, ma è saggio chi teme ciò che per certo lo annienterebbe.
Sulla felicità e sulla vita
Di quanto ho detto, Dioniso fa un eccellente compendio: «Non sarebbero uomini se non fossero tristi. La loro vita deve pur morire. Tutta la loro ricchezza è la morte, che li costringe a industriarsi, a ricordare, a prevedere»[5].
La morte è ricchezza. Aveva detto la Nube: gli dèi possono toglierla come fosse un bene qualunque. Nella coscienza della morte, l’uomo si industria, cioè agisce; ricorda, cioè ha fatto esperienza e trova conforto nella memoria; prevede, cioè quell’esperienza la mette a frutto per contrastare le avversità. Nella coscienza della morte l’uomo vive ed è triste.
Nel dialogo Il lago, Virbio dice: «Chiedo di vivere, non di essere felice».
Che la vita si accoppi alla felicità, d’altra parte, è un costrutto moderno e tutto nostro. Noi che sentiamo la felicità come un diritto, quando non è altro che una rara conquista.
Ma in che modo la felicità non sarebbe un diritto?
Diritto è ciò che ci spetta, stabilito e tutelato dalla legge. Nessuna legge sancisce il diritto alla felicità; ma abbiamo – e c’è differenza – il diritto a poter essere felici, cioè abbiamo la facoltà inalienabile di creare da soli le condizioni della nostra felicità, e nessuno può legittimamente impedirle; questo possiamo pretenderlo. Non possiamo pretendere invece che qualcuno all’infuori di noi si faccia carico della nostra felicità: né le persone che amiamo, né un dio, se crediamo.
Il presupposto della felicità è dunque la vita, cioè l’opportunità di realizzare sé stessi, col naturale rischio di non riuscirvi, in una tensione costante verso la libertà, verso un mondo in cui tutti gli dèi siano finalmente mito e poesia.
– Non è facile vivere come se quello che accadeva in altri tempi fosse vero. Quando ieri ci ha preso la nebbia sugli incolti e qualche sasso rotolò sulla collina ai nostri piedi, non pensammo alle cose divine né a un incontro incredibile ma soltanto alla notte e alle lepri fuggiasche. Chi siamo e a che cosa crediamo viene fuori davanti al disagio, nell’ora arrischiata.
– Di questa notte e delle lepri sarà bello riparlare con gli amici quando saremo nelle case. Eppure di questa paura ci tocca sorridere, quando pensassimo all’angoscia della gente di un tempo cui tutto quello che toccava era mortale. Gente per cui l’aria era piena di spaventi notturni, di arcane minacce, di ricordi paurosi…[6]
***
Note
[1] I ciechi
[2] La nube
[3] Le streghe
[4] La strada
[5] Il mistero
[6] Gli dèi