La prima trilogia
di Miss Peregrine
O come naufragare in un bicchier d’acqua
Autunno 2012. Assediato dai corsi universitari e dai fattacci miei, cerco un po’ di svago in libreria. Non lo so ancora, ma quello svago è parcheggiato di costa alla lettera erre di uno scaffale dieci metri per due: un’economica, dorso avorio, font classico, corpo piccolo. Non attira la mia attenzione: quando lo prendo in mano, non ho nemmeno letto il titolo, è solo l’ennesimo libro della fila che sto passando in rassegna. La casa per bambini speciali di Miss Peregrine dell’americano Ransom Riggs.
Gli do un’occasione, mi piacciono i libri per ragazzi, malgrado io sia già fuori target di sei o sette anni. Noto con curiosità che contiene fotografie d’epoca, alcune genuine, altre pesantemente ritoccate ma comunque pregevoli, se si tiene conto che sono tutte datate e, in un certo qual modo, “autentiche” nonostante la manipolazione. Con questo intendo che sono “falsi d’autore”, immagini contraffatte al momento dello scatto – alcune oltre cent’anni fa – con espedienti tecnici o scenici.
Alcuni soggetti mi inquietano, soprattutto quelli che risalgono alla fine del XIX e ai primi anni del XX secolo: le macchine fotografiche, a quell’epoca, hanno bisogno di un’esposizione lunga e le persone sono costrette a restare immobili davanti all’obiettivo per qualche minuto. Per questo hanno lo sguardo fisso e non sorridono quasi mai. Sono terribilmente innaturali e garantiscono un biglietto di sola andata per la uncanny valley.
Cerco informazioni sulla storia, dalla quarta di copertina non si capisce granché, solo qualche suggestione. Ma io sono già suggestionato, o per lo meno bendisposto. Ho solo bisogno di un’ultima spintarella: se il contenuto fa per me, il libro è mio. E sì, penso che valga, nonostante qualche riserva che accolgo con morbidezza d’animo, dal momento che – apprendo dalla quarta di copertina – il romanzo è il primo di una saga.
Così inizia un viaggio che pregusto leggero, divertente, magari anche coinvolgente, perché no? Voglio lasciarmi sorprendere.
E invece…
A distanza di più di dieci anni ho finalmente concluso la prima trilogia dei bambini Speciali di Miss Peregrine. Sì, perché nel frattempo il progetto è arrivato a sei libri, divisi in due trilogie, più una raccolta di racconti. Al tempo che fu, lessi il secondo volume, Hollow city, alla sua uscita, prima di dimenticarmene e abbandonare la saga: un libro lutulento, una colata grossa e pigra di cui non mi era rimasto niente. E intendo niente davvero: l’ho riletto poche settimane fa e, al netto del familiare senso di stagnazione che mi ha restituito, è stato come se non l’avessi mai fatto prima.
Stavolta, dopo la mia (ri)lettura, ho voluto vederci chiaro e andare fino in fondo, così ho recuperato il terzo capitolo, La biblioteca delle anime: un racconto decisamente più ritmato di Hollow city, ma anche raffazzonato, incoerente, distratto, frettoloso, svogliato e tradotto non tanto bene.
Insomma, com’è che si dice? Partire a razzo…
*
Allerta spoiler, disclaimer ecc.
Ora parliamo di questi benedetti libri, ma prima una piccola premessa: questo pezzo non è una recensione né un invito alla lettura. Sono solo (alcune) mie considerazioni su una saga letteraria che col senno di poi avrei potuto evitare, ma con la quale ho deciso di rovinarmi le ferie, perché… Non lo so perché, forse odio me stesso.
Ad ogni modo, se non l’hai ancora letta e stai meditando se farlo o meno, ti sconsiglio di proseguire. Con questo pezzo, intendo, per evitare spoiler.
Magari però condividilo con chi sai che ha già letto i libri di Riggs.
Qui e là, dunque, farò opportuni riferimenti alla trama, ma dato che il pezzo è già lungo di suo e nei libri succede di tutto e un po’, la darò generalmente per scontata.
Per chi volesse rinfrescarsi la memoria, le sinossi su Wikipedia sono valide. Se serve, date un’occhiata anche alla Wikia dedicata.
Per chi avesse amato la saga: pace e amen.
*
Una buona intuizione
La casa per bambini speciali di Miss Peregrine (d’ora in poi CBS) ha una struttura snella, scorrevole e piuttosto equilibrata: il primo terzo monta l’impalcatura psicologica del protagonista, Jacob, e mette subito a fuoco i nodi da risolvere. Fin dall’inizio si pone come il classico racconto per ragazzi (o giovani adulti), senza particolari guizzi di novità, ma con i giusti crismi: un adolescente affronta il suo cammino di formazione attraverso la prova del lutto e della conciliazione tra ideale e realtà.
Jacob era molto legato a nonno Abe, e non solo la sua morte è una ferita profonda per il giovane protagonista, ma anche le circostanze di questa perdita sono un trauma con cui il ragazzo deve fare i conti. Jacob trova il nonno gravemente ferito, dilaniato – si direbbe – da un predatore (non a caso la polizia darà la colpa a cani selvatici); e se ciò non bastasse, intravede nell’oscurità la sagoma di un mostro. Ne dà una descrizione accurata che ha il solo risultato di gettare dubbi sulla sua sanità mentale. Ed è così che per ricomporre la frattura tra l’idea che aveva di Abe (un uomo che ha vissuto mille avventure insieme a compagni straordinari) e la realtà (un anziano affetto da demenza che combatte gli orrori del suo passato con la fantasia) deve affrontare il suo stesso cammino, ma al rovescio. Ritenuto mentalmente fragile e bisognoso di supporto, Jacob scoprirà di aver avuto ragione fin dall’inizio: i mostri esistono e lui – lui e nessun altro – li può vedere.
I due terzi rimanenti mettono il protagonista sulla vera scena: il mondo Speciale, con tutti i suoi personaggi e i suoi elementi di meraviglia, acquista concretezza e diventa l’ambientazione principale della vicenda.
Jacob conosce Emma, Hugh, Horace, Millard e tanti altri ragazzi, ciascuno dotato di un potere che lo rende unico. Emma genera fuoco dalle mani; Hugh controlla uno sciame di api che vive nel suo corpo; Horace vede il futuro nei sogni; Millard è invisibile… E lui, Jacob, può vedere i Vacui, altrimenti invisibili come l’amico.
Qui ammetto che la sospensione della mia incredulità ha vacillato per un attimo: in base a quale principio Jacob può vedere uno spirito Vacuo ma non Millard? Sono entrambi invisibili, eppure sembra che questa invisibilità abbia qualità diverse. Come funziona? Riggs non entra nei dettagli; a quanto pare il suo è ciò che i teorici della narrativa fantastica definiscono soft magic system, cioè un sistema nel quale la magia (o ciò che ne fa le veci) non risponde a un sistema di regole esplicito.[1] Perciò me ne sono fatto una ragione, con la segreta speranza di trovare una risposta nei romanzi successivi.
Ma se piccoli tasselli come questo sono temporaneamente trascurabili in attesa di chiarimenti futuri, Riggs gioca con la pazienza del lettore perdendosi in dialoghi insulsi, numerosi personaggi che non sa gestire, caratterizzazioni piatte o nulle (tranne Jacob, comprimari, spalle e antagonisti sono del tutto anonimi), una prosa un po’ sciocchina eccetera. E, peggio, questi problemi si trascinano nei volumi successivi.
Ad ogni modo, un aspetto senza dubbio positivo di CBS sono le fotografie. A fine romanzo l’autore ringrazia i vari collezionisti che gli hanno aperto le porte dei propri archivi e gli hanno permesso di mettere insieme una teoria di immagini rare e bizzarre. E ciò è positivo per il romanzo non solo perché le immagini che lo impreziosiscono sono intrinsecamente affascinanti, ma anche perché Riggs dimostra una certa disinvoltura nell’usare questi elementi in maniera diegetica: le fotografie non sono semplici illustrazioni, ma sono oggetti presenti nel racconto, hanno un loro ruolo specifico, sono manipolate dai personaggi, passano dall’uno all’altro, vengono allegate a lettere e spedite per posta… Insomma ampliano l’orizzonte narrativo e il coinvolgimento dei lettori, ma dall’interno. Un particolare che trovo poco scontato e ricco di potenziale, pur non essendo chissà quale rivoluzione.
La falla nello scafo
Ma tutte le cose belle finiscono. E la bellezza della prima trilogia dedicata ai ragazzi Speciali di Miss Perergine muore con il suo primo atto. Dopo essere riusciti a strappare la tutrice dalle grinfie degli spettri nelle ultime pagine di CBS, il racconto riparte in Hollow City (d’ora in poi HC) da questo punto preciso.
È qui che l’autore tira inspiegabilmente i remi in barca e inizia a fare un buco nello scafo. L’intera struttura del progetto narrativo inizia a scricchiolare e, come fanno i cani con i terremoti, un lettore attento ne fiuta l’odore fin dall’inizio. HC è una stanca tirata in cui non succede nulla di significativo fino alle ultime pagine, meta che in ogni caso non vale la fatica fatta per raggiungerla.
In estrema sintesi gli Speciali, guidati da Jacob, arrancano fuori dal loro anello temporale sullo sfondo della Seconda guerra mondiale. Miss Peregrine è bloccata in forma di falco e Jacob e i suoi cercano un’altra ymbryne che le possa restituire sembianze umane, oltre che garantire a tutti un nascondiglio sicuro dagli Spettri. Da questa premessa inizia una peregrinazione estenuante che porta a conseguenze nefaste per il lettore e la sua capacità di sopportazione. Vediamone qualcuna.
Fotografie: un’arma a doppio taglio
Il Serraglio di Miss Wren
Basandosi su un vecchio libro di racconti che, a chi lo sa interpretare, fornisce importanti informazioni con tempismo e pertinenza tali da credere che Riggs pensi ai suoi lettori come a una platea di imbecilli, gli Speciali raggiungono il Serraglio di Miss Wren. Si tratta di un luogo nascosto in un anello temporale creato per l’appunto dalla ymbryne Miss Wren che accoglie animali Speciali. Dunque apprendiamo che i geni Speciali (perché di genetica si tratta) non sono prerogativa degli esseri umani, ma appartengono anche a una fauna fantastica e senziente, di cui il mondo Normale non ha la minima contezza.
Jacob incontra creature umanoidi con spiccati tratti ferini, un girastruzzo di nome Deirdre, un cane con gli occhiali e la pipa di nome Addison eccetera. Tutti, a quanto pare, relegati in anelli temporali e per questo irraggiungibili dai Normali. Il solo concepire lo sforzo e le risorse necessarie per tenere nascoste al mondo non già soltanto innumerevoli persone dotate di poteri, ma anche animali bizzarri e parlanti (la loro Specialità è tutta qui), è terribilmente poco credibile per quanto è antieconomico. Pur con tutta la buona volontà, non riesco a non vedere una forzatura in questo espediente.
Più nello specifico, ho la netta impressione che l’uso delle fotografie, da tratto di stile e valida stampella narrativa, sia diventata una contrainte un po’ troppo restrittiva. In ossequio all’idea originaria, anche HC è corredato di numerose fotografie, che però sembrano dettare la linea narrativa invece che limitarsi a sostenerla e tuttalpiù ad approfondirla. In altre parole, Riggs aveva la foto di un girastruzzo (qualunque cosa sia) e di un cane con gli occhiali, voleva inserirle a tutti i costi e ha inventato questa sciocchezza del Serraglio speciale. Una trovata molto stiracchiata e molto inutile se si pensa che ha l’unico scopo di introdurre – di fretta e male – il personaggio del cane Addison, che come se non bastasse non avrà più alcun ruolo se non nel terzo volume.
I Gitani
Lo stesso accade con l’episodio dei Gitani: la comitiva degli Speciali non trova quello che cerca al Serraglio e prosegue il viaggio, finché si imbatte in una carovana di Gitani. Questi catturano Jacob e i suoi perché li credono Spettri. Quando l’equivoco si risolve, i ragazzi scoprono che tra i Gitani c’è uno Speciale che piano piano sta diventando invisibile. Millard, che ne sa qualcosa, lo consola e il gruppo gli chiede di unirsi, ma il giovane alla fine rifiuta.
Anche in questo caso, dagli archivi di Riggs è spuntata una fotografia che ritrae un ragazzino senza piedi. A quanto pare all’autore è piaciuta e ha ritenuto intelligente ficcarla a forza nella narrazione, nonostante di questo ragazzo e di tutti gli altri Gitani non si saprà mai più niente. Alla faccia della profezia «Ci incontreremo di nuovo […] ne sono certo» pronunciata dal capo dei Gitani prima di congedarsi da Jacob.
Le sorelle di Londra
Altro giro, altra corsa.
Gli Speciali lasciano i Gitani senza che l’intero episodio abbia scosso la trama di un millimetro, e raggiungono Londra, sempre alla ricerca di qualcuno che liberi Miss Peregrine dalla sua forma di falco.
Nella capitale sfigurata dai bombardamenti incontrano due profughe, Esme e sua sorella maggiore Sam. Le interazioni degli Speciali con loro hanno il solo scopo di riempire qualche pagina, ma è proprio il personaggio di Sam che svela nella maniera più smaccata il fatto che Riggs abbia perso il controllo sulle foto e abbia frainteso la loro funzione. Sam è la ragazza con un buco nel torace che compare in copertina; allo stesso tempo è forse il personaggio più trascurabile di questo romanzo. Come si spiega? Ormai è chiaro.
Diegesi o non diegesi
A quest’uso delle fotografie assai meno interessante rispetto al primo volume e, a onor del vero, un po’ irrispettoso verso il lettore, si aggiunga il fatto che la loro funzione diegetica qui e nel terzo volume scompare completamente. Cioè le fotografie non sono più parte della narrazione e dell’azione dei personaggi: non esiste nessun album scovato in un baule che contenga le foto di Addison, del girastruzzo o di Sam. Non fanno parte della storia, ma rendono solo il romanzo un libro illustrato. Nella qual cosa non c’è niente di male, ma segna il definitivo arenarsi dell’idea di partenza che aveva ben illuminato il primo volume.
Naufragio con zavorra
Veniamo ora alle dolenti note.
La biblioteca delle anime (d’ora in poi BDA) conclude la prima trilogia dei ragazzi Speciali di Miss Peregrine con una serie di ingenuità stilistiche, lessicali e narrative che come zavorre trascinano a picco una nave già votata al naufragio.
Il volume è corposo, conta 500 pagine che potevano essere 300 senza timore di perdere qualcosa. Anche la disposizione della materia narrativa fa difetto: la storia procede in maniera molto lineare, come un lungo piano sequenza, e fin qui nulla di male. Non c’è bisogno arzigogoli strutturali per rendere buona una storia. Il problema è l’innecessaria lunghezza e una partizione interna estremamente sbilanciata: una decina di capitoli appena. Un’azione dopo l’altra, un luogo dopo l’altro, un personaggio dopo l’altro, Ransom Riggs dimostra di non essere padrone della sua stessa creazione, non riesce a tenere i fili, le contraddizioni scappano da ogni parte, la memoria dei volumi precedenti è offuscata. Sembra che la storia abbia fretta di concludersi e non sappia come fare. Perciò accumula materiale, nella speranza di innescare dinamiche nuove; ma ottiene solo l’effetto di affondare verso un pessimo finale.
Analizziamo qualche stortura.
Taglia media
Sapreste dire quanto è grande un cane maschio adulto di razza boxer? Per chi non ne avesse idea, le sue dimensioni si aggirano fra i 50-60 centimetri di altezza al garrese per un peso compreso fra i 30 e i 40 chili.
E sapete chi è un boxer maschio adulto, con la pipa e gli occhiali nei libri di Riggs? Esatto, Addison, che nella sua prima apparizione, in HC, viene descritto così:
Ci voltammo: un cane stava trotterellando tranquillamente nella nostra direzione. […] Non solo quel cane aveva una voce quasi umana […] ma dalle sue labbra pendeva una pipa, e indossava un paio di occhialetti rotondi dalle lenti verdi fumé.
HC, pp. 89-90
Non proprio il massimo. Mancano dettagli, cosa che uno scrittore potrebbe fare lo sforzo di produrre – altrimenti che scrive a fare?! –, ma l’uso delle foto ha impigrito Riggs fino all’inverosimile, e il massimo che riesce a tirare fuori è una didascalia alla foto allegata al testo.
Proprio questa mancanza di informazioni intorno a Addison – al netto degli occhiali e della pipa, menzionati solo perché sono nella foto, ma inutili sotto ogni aspetto – ci spinge a rifarci a un modello generale, all’idea di boxer che bene o male tutti abbiamo. Chi non ne ha mai visto uno in giro? Dunque, assumiamo che Addison sia alto poco più di mezzo metro e pesante la metà di un uomo medio.
Qualora però leggessimo la prima pagina di BDA, scopriremmo di esserci sbagliati:
[…] ai miei piedi c’era quella briciola di Addison, fermo e coraggioso in posizione di attacco, con la coda ritta.
BDA, p. 17
Una “briciola”, fiacca metafora per qualcosa di piccolo che non calza proprio con l’immagine di un molossoide di 40 chili (di un carlino cosa diremmo?). Ho pensato di essermi sbagliato, di non aver compreso la volontà descrittiva dell’autore, e c’è un paio di altri esempi (almeno quelli che ricordo) che mi hanno fatto dubitare per l’appunto della mia comprensione iniziale:
E infatti subito dopo [Addison] si raggomitolò fra me e Emma, e io sentivo il suo corpicino tremare dalla punta delle orecchie alle zampe.
BDA, p. 74
Il cane, quel piccolo, coraggioso boxer lo aveva morso.
BDA, p. 341
A dirla tutta, nella foto presente in HC Addison è solo, non ci sono elementi di confronto, né viene mai detto quanto sia grande. Anche se in realtà potremmo estrapolarne le dimensioni…
So che può sembrare maniacale, ma seguitemi.
Addison tiene in bocca una pipa, ma non una pipa qualunque: una piuttosto classica, direi una billiard o forse una dublin, a giudicare dal fornello. Le billiard sono lunghe su per giù 14 centimetri, le dublin 12, perciò, nel dubbio, facciamo una media e approssimiamo a 13. Nella foto la pipa misura più o meno 1 centimetro; Addison invece è alto 4 centimetri. Se dunque 1 centimetro in foto corrisponde a 13 centimetri reali, ne viene che Addison è alto 52 centimetri. Perfettamente nella media di un boxer. Tutt’altro che una briciola…
Poi noto un altro particolare e penso che no, non sono io a non comprendere. Chi altri lo ha notato? Nessuno? Allora osservate bene la foto di Addison e rileggete la prima citazione di questo paragrafo: come fa un cane senza coda a tenere “la coda ritta”?
Amici mentalisti
Restiamo su Addison.
Come ho detto, compare in HC, fa le sue cose per un paio di pagine poi scompare fino alle ultime righe, quando sbuca dal nulla per salvare i protagonisti. In BDA ha una parte un po’ più corposa, ma sta di fatto che tra l’intero secondo volume e l’inizio del terzo lui e Jacob hanno giusto il tempo di un paio di convenevoli, poi si separano. Eppure, inspiegabilmente, in BDA Jacob sembra conoscere Addison come un amico di vecchia data, tanto che si esprime così:
Bastava un nonnulla perché Addison si lanciasse in un elogio della propria grandezza, anche in presenza di situazioni ben più urgenti, e in quei casi il suo vocione fiero e tonante aveva una tendenza a rimbombare.
(BDA, p. 48)
Non mi soffermerò sul “vocione” di una “briciola” di cane né sulla sua “tendenza a rimbombare”, che non è propria dei suoni ma dipende dall’ambiente in cui vengono prodotti. Quello che noto di più è l’improvvisa consuetudine fra Jacob e Addison che Riggs suggerisce in questa frase. Dalla citazione forse non è chiaro, ma l’intera narrazione è in prima persona e il narratore è sempre Jacob. Questo elemento, le scelte lessicali, l’uso dell’imperfetto, il riferimento ad altre occasioni simili suggeriscono un trascorso tra i due che giustificherebbe Jacob nella sua divertita esasperazione verso le boutade dell’amico. Ma siamo a 30 pagine dall’inizio del romanzo (che per la cronaca inizia a p. 17), quindi o Jacob è una sorta di mentalista, o viene dal futuro (tecnicamente sì, ma non è pertinente), oppure Ransom Riggs dovrebbe fare più attenzione.
Cultura istantanea
Tutti ricordiamo il serpentese, idioma caro a Salazar Serpeverde e a lord Voldemort, nonché indesiderata eredità per il giovane Harry Potter, che si ritrova a parlare coi serpenti senza sapere come e perché.
Ora, nella finzione letteraria il serpentese è una lingua dalle origini sconosciute, di cui non sappiamo niente, ma resta credibile perché affonda le radici nel mistero di un passato molto lontano dai protagonisti, e appartiene a tutta un’altra specie (i serpenti, appunto).
Nella saga degli Speciali esiste qualcosa di simile, la lingua dei Vacui, un idioma misterioso che solo Jacob in virtù dei suoi poteri riesce a comprendere e a parlare. Come sappiamo, Jacob è in grado di vedere i Vacui e percepire la loro presenza se sono nelle vicinanze; alla fine di HC si scopre che è anche in grado di controllarli parlando la loro lingua.
Sorvoliamo su come abbia fatto a impararla. Harry Potter aveva un legame magico con Voldemort, il quale gli aveva trasferito senza volerlo una parte di sé. Dopo che il signore oscuro distrugge il frammento di anima che albergava in Harry, il ragazzo non è più in grado di parlare serpentese. Jacob invece parla la lingua dei Vacui perché sì. Perché è il protagonista e quindi ha il potere più fico di tutti.
Tuttavia c’è qualcosa che stride. Gli spiriti Vacui non nascono dal nulla: per l’esattezza nascono nel 1908 a seguito di un’esplosione non meglio descritta avvenuta in Siberia (e che per alcuni aspetti richiama l’evento di Tunguska). Gli Spettri volevano diventare dèi attraverso un esperimento misterioso; ma qualcosa è andato storto e hanno finito per trasformarsi in creature mostruose, i Vacui per l’appunto, voraci e non razionali, che solo dopo aver divorato un certo numero di anime Speciali riacquistano aspetto e prerogative umane, diventando appunto Spettri.
Okay, quindi?
Quindi i Vacui sono Speciali corrotti e ridotti in una forma mostruosa, privi di autocoscienza e che per di più esistono da appena un secolo. Da dove spunta il loro “idioma”? Quando hanno avuto tempo e modo di creare una loro cultura peculiare? Non dovrebbero comprendere ed eventualmente parlare la loro lingua originaria? O meglio, essendo esseri non razionali, non dovrebbero capire e parlare un bel tubo di niente? A quanto pare no.
「オタクのリっダス」Otaku no Riggs
Nelle prime pagine di BDA, e in piena contraddizione con la logica impostata nel primo volume, i protagonisti si ritrovano nel presente di Jacob, immersi nel trambusto di un Comicon londinese. Non so fino a che punto sia un problema dell’autore o della traduttrice, ma si percepisce con chiarezza l’estrema non familiarità con questa branca della cultura pop. Da un blogger-scrittore-videomaker eccetera non me l’aspettavo, ma le migliori soluzioni descrittive a cui approda sono del calibro di:
[…] ragazze vestite da anime con pesanti cerchi scuri intorno agli occhi e delle asce da guerra in mano.
BDA, p. 47
OGGI FESTIVAL DEL FUMETTO
BDA, p. 47
Adesso che ci eravamo lasciati alle spalle il corteo dei fumettari […]
BDA, p. 53
Per i sassi che ancora non lo sanno, gli anime sono i cartoni animati giapponesi. Non ci si veste da “cartoni animati”, così come non ci si veste da manga. Tutt’al più da personaggi di anime, manga, film, videogiochi e quant’altro. (Ma forse la mia è pedanteria.)
L’espressione “Festival del fumetto” sarebbe plausibile in bocca a un ultracinquantenne che vivesse in cima a un monte, senza luce né acqua corrente. Di certo non in bocca a un sedicenne.
Il “corteo dei fumettari” mi ha fatto molto ridere: dalle mie parti (ma credo anche altrove), il “fumettaro” è quello che i fumetti te li vende, perciò ho immaginato una fila di gestori di fumetterie in processione in mezzo alla fiera.
Al netto di tutto questo mi sono accorto di non aver dato il giusto contesto: i nostri si ritrovano a una fiera del fumetto nella Londra del presente; sono in fuga dagli Spettri che li vogliono rapire per rubare le loro anime Speciali, e al contempo sono alla ricerca dei loro amici rapiti. In questa situazione, trovarsi in mezzo a migliaia di cosplayer ha un egual numero di lati positivi e negativi. Da una parte, i protagonisti passeranno inosservati pur essendo sporchi, imbrattati di sangue e coi vestiti a brandelli dopo essere sfuggiti all’aggressione di un Vacuo. Dall’altra, anche gli Spettri avranno modo di passare inosservati, il che è un grosso pericolo.
Detta così suona ragionevole, ma Riggs si esprime diversamente:
Quello era un posto perfetto per mimetizzarsi: e non solo per noi, che lì in mezzo sembravamo nel tutto Normali, ma anche per degli Spettri che avessero rapito un manipolo di ragazzi Speciali. Se anche qualcuno di loro avesse provato a gridare per chiedere aiuto, chi avrebbe prestato ascolto? Lì fingevano tutti: c’era gente che improvvisava finte battaglie, gente che ringhiava da mostro, gente che rantolava come fanno gli zombie. Un gruppetto di stravaganti ragazzini che urlavano di essere stati rapiti da qualcuno che voleva rubargli l’anima… Nessuno avrebbe battuto ciglio.
BDA, pp. 48-49
Soffermiamoci sulla completa assurdità di questo passo.
Le fiere del fumetto, come le fiere in generale, più sono grandi più sono affollate. È lecito quindi pensare che si debba sgomitare per avanzare, che si debba fare attenzione agli altri ospiti – troppi e stipati in luoghi troppo angusti –, che si debba urlare per comunicare con il vicino, che nella fantasmagoria di voci, costumi e attrazioni sia difficile dirigere l’attenzione su qualcosa di circoscritto per più di qualche minuto. Ma…
Ma le fiere non sono il far west, né isole dimenticate da Dio o abissi irraggiungibili dalla luce del sole. Al contrario, malgrado l’inevitabile calca e i fisiologici imprevisti che una massa enorme di persone riunite in un luogo comporta, la sicurezza è alta. Proprio perché c’è tanta gente.
Trovo molto difficile che se qualcuno mai chiedesse aiuto, verrebbe ignorato perché “tutti fingono”. Peraltro, ammesso che qualcuno a una fiera del fumetto cercasse di rapirmi per rubarmi l’anima, quanto sarebbe sensato da parte mia approfondire la questione mentre sto implorando il soccorso di qualcuno? Insomma, griderei aiuto, mi aggrapperei a chi mi circonda, punterei il dito contro chi mi perseguita, ma di certo non mi metterei a spiegare che “sono stato rapito da qualcuno che vuole rubarmi l’anima”. Ecco.
Memoria del futuro
Passiamo a Emma Bloom, protagonista femminile della trilogia. Ha una storia travagliata alle spalle, un’età indefinita che né Riggs né il suo editor hanno ben chiara in mente (ci arriveremo), sa manipolare il fuoco, ma a parte scaldare le mani e lanciare qualche sfera infuocata di tanto in tanto, non combina granché.
Ha però un’altra curiosa abilità, una sorta di precognizione o una paradossale memoria del futuro, perché sembra avere familiarità con aspetti del XX e del XXI secolo che non potrebbe in alcun modo conoscere. Come succede una volta superata la massa tentacolare dei “fumettari” di cui si è parlato poco fa. Fuori dalla ressa dei cosplayer, ecco che dei ragazzini lerci e sanguinolenti attirano l’attenzione:
Dall’altra parte della strada, i turisti si immortalavano davanti a una delle tipiche cabine telefoniche rosse di Londra. Poi ci videro e cominciarono a fotografare noi.
«Ehi» sbottò Emma. «Niente foto!»
BDA, p. 53
Ora, Riggs non dice mai a quale anno corrisponda il presente di Jacob, nel quale la scena è ambientata. È quindi logico presupporre di essere nel 2011 ovvero l’anno in cui il primo romanzo è stato pubblicato. Ma questo è il terzo romanzo, dirà qualcuno. È vero, ma dal momento in cui Jacob incontra gli Speciali fino alla fine della trilogia trascorrono solo due settimane, perciò…
Chiarito questo, è altrettanto logico presupporre che nel 2011 la gente faccia fotografie per lo più con i cellulari. E qui sta il punto: come può Emma dare per certo e con tale spontaneità che la gente del 2011 la stia fotografando?
Qualche pagina più avanti, a casa di Bentham, la ragazza ha un exploit dalle implicazioni molto simili. Lei e Jacob stanno esplorando l’edificio e a un tratto avvertono una corrente gelida. Scoprono che proviene dall’interno di una stanza chiamata Camera Siberia.
Guardai subito Emma, e lei guardò me.
«Sarà un condizionatore impostato al massimo» disse lei.
BDA, p. 185
La prima domanda che mi sono fatto, dopo aver letto questo passaggio, è stata “Emma cosa ne sa?”. Poi mi sono interrogato sui condizionatori d’aria: quando sono stati inventati? È plausibile che Emma conosca questa tecnologia? Ho fatto qualche ricerca e ho scoperto che il primo condizionatore è stato inventato nel 1902, poi brevettato nel 1906 a uso industriale. Nel 1914 è stato installato il primo condizionatore domestico, ma ancora negli anni Trenta la sua applicazione, molto dispendiosa e al di là della portata di molti, resta per lo più nell’ambito industriale.
Poi ho approfondito la biografia di Emma: in CBS leggiamo che, pur dimostrandone sedici, ha in realtà ottantasette anni. È quindi nata nel 1924. Intorno ai 10 anni scopre i propri poteri e dopo qualche altro anno di angherie e segregazione, la famiglia la vende al circo. Per il mese successivo lavora come mangiafuoco finché non viene portata da Miss Peregrine nell’eterno loop del 3 settembre 1940. Da ciò, e dal fatto che la casa di Miss Peregrine sembra sprovvista di condizionatori, quali elementi ha Emma per fare una supposizione come quella appena citata? Memoria del futuro, come ho detto.
L’età di Emma
Approfitto del gancio qui sopra per esaminare un dettaglio curioso, un’altra svista di Riggs che ancora una volta dimostra di non riuscire a tenere insieme il (modesto) sistema narrativo che ha creato.
Come ho anticipato nel discorso su Emma e il condizionatore, la ragazzina ha un’età reale di quasi novant’anni sebbene il loop temporale di Miss Peregrine l’abbia mantenuta a sedici.
Facendo una semplice sottrazione, ricaviamo che la sua data di nascita risale al 1924. Benissimo. Peccato che ciò che ricaviamo dalla lettura di CBS non corrisponda a quanto si legge in BDA:
«Miss Bloom è nata allo scoccare del secolo scorso»
BDA, p. 451
afferma Miss Peregrine, dal che deduciamo che Emma sia nata nel 1901. Se ciò non bastasse, un altro dettaglio ce lo conferma: sul finale, Emma si è trasferita in pianta stabile nel XXI secolo insieme agli altri Speciali, e Jacob ci ragguaglia.
Prima di rendermi conto di quanto fosse impedita con i computer, le avevo aperto una casella di posta elettronica – firegirl1901@gmail.com – […]
BDA, p. 480
Ma questo comporta uno scarto di ben 23 anni nella biografia della ragazza, una vita e mezza per il pubblico di riferimento di questa saga. Ma ormai non ci sorprende più niente, è chiaro che Ransom Riggs, dopo una fortunata idea iniziale (sì, a questo punto per me è stata tutta fortuna), sia in verità alquanto confuso.
Speedrun
Quanto ero stato via? Una settimana? Più o meno sì, anche se sembrava un’eternità.
BDA, p. 460
Così riflette Jacob a trenta pagine dalla fine. È trascorsa una settimana da quando, nel primo volume, Miss Peregrine non riesce a riavviare l’anello, la bomba cade sulla casa degli Speciali di Cairnholm e i ragazzi partono per il loro viaggio che li porterà a sconfiggere gli Spettri.
Una settimana.
In questo tempo, Jacob conosce decine di personaggi per lo più inutili; scopre di avere un potere immenso e impara a controllarlo alla perfezione; realizza di essere maturato al punto che dentro di lui albergano un “vecchio Jacob” pauroso e insicuro, e un “nuovo Jacob”, intrepido e saldo; fa innamorare di sé (e ricambia) una ragazza che ha impiegato quasi un secolo (!!!) di dolore e nostalgia a dimenticare il suo amore precedente; sbaraglia un’organizzazione internazionale e intertemporale di malvagi assassini divoratori di anime attiva dal 1908.
E tutto ciò, voglio ripeterlo, in una settimana.
È talmente esagerato che l’immedesimazione nell’eroe rischia di trasformarsi in un complesso di inferiorità fulminante. Oltre il velo della metafora fantastica, quale ragazzino ha mai raggiunto un grado di introspezione e maturazione simile in sette giorni? Chi ha mai scoperto, compreso, sviluppato e applicato i propri talenti con tale estremo profitto in così poco tempo?
Insieme a una generale confusione, Riggs dimostra di avere scarso senso delle proporzioni, cosa che lo porta a seppellire sotto due metri di terra l’ultimo scampolo di credibilità che la sua saga conservava.
Ma sulla linea del traguardo, con una disinvoltura che lambisce l’insulto, in un guizzo finale Riggs pianta la croce sul tumulo della sua stessa opera.
La croce sul tumulo
Le premesse erano chiare: gli Speciali fuori dal loro anello temporale non sopravvivono. Gli anni trascorsi tra il loro istante congelato nel tempo e il presente si accumulerebbero tutti insieme facendoli invecchiare fino alla morte in poche ore o giorni.
Fin dall’inizio della saga, per Jacob si preannuncia una scelta cruciale che presto o tardi sarà chiamato a fare: vivere con i propri amici Speciali in un anello temporale, rinunciando così alla sua famiglia e al suo mondo, oppure scegliere quest’ultimo e dire addio a Emma e gli altri per sempre.
Straziante, vero? Sarebbe anche un degno dilemma per concludere una storia: l’eroe – un eroe verosimile – non è per forza vincente, non sbaraglia tutto e tutti. Al contrario è umano, e come tutti guadagna qualcosa e perde qualcos’altro. Anzi, spesso guadagna qualcosa proprio perché perde qualcos’altro. Insomma, si sacrifica o sacrifica qualcosa a cui tiene. È, se non il senso, quanto meno la meccanica della vita, spesso sbilanciata a favore di ciò che si perde.
Non che le storie a lieto fine siano fesserie. Al contrario, anche nella vita reale talvolta le cose vanno bene. Ma, come nella vita reale, anche i finali letterari felici devono essere motivati.
Ma Riggs non ci pensa due volte a escogitare un deus ex machina così pacchiano da risultare offensivo: niente scelta per Jacob, ma ben due soluzioni piovute dal cielo ai suoi due problemi più grandi.
Primo problema: come giustificare ai genitori la sua scomparsa? È stato via di casa a lungo, è un minore, mamma e papà avranno pensato di tutto. Niente paura: lo sapevate che Miss Peregrine e le ymbryne in generale hanno il potere di cancellare o modificare i ricordi delle persone? No? Neanche l’autore, finché non è arrivato a dieci pagine dalla conclusione. Ma dopo un incantesimo qui e uno là, ecco che Jacob non deve più spiegazioni a nessuno!
Secondo problema: Jacob non vorrebbe separarsi da Emma, ma sente di doverlo fare. Ha una famiglia, vuole rivedere i genitori. Peccato che Emma non possa muoversi dal suo anello temporale, pena una morte rapida e inesorabile. Se non è Jacob ad andare da lei, l’amore non s’ha da fare. I genitori hanno solo la memoria obliterata, non sono stati lobotomizzati, quindi partenze improvvise e frequenti del figlio sedicenne per destinazioni sconosciute li insospettirebbero. E poi c’è sempre il dettaglio del tempo: ammesso che Jacob riesca a frequentare Emma, lei rimarrà per sempre una sedicenne, lui invece invecchierà. L’unica sarebbe trasferirsi in un anello, ma qui torniamo all’inizio: Jacob dovrebbe fare una scelta, e a Riggs non piacciono i compromessi. Quindi, boom!, dopo l’esplosione dell’anello che conteneva il covo degli Spettri, scopriamo che gli orologi interiori di tutti gli speciali si sono azzerati e si sono allineati con il presente. Che cosa vuol dire? Vuol dire che la discrepanza tra i due piani temporali è stata annullata e gli Speciali d’ora in poi potranno vivere nel presente di Jacob, invecchiando un giorno alla volta senza lo spauracchio del Tristo Mietitore. Che fortuna sfacciata…
Alcune perle in ordine sparso
BDA è sotto molti aspetti il libro peggiore dei tre. HC affonda silenziosamente nel grigiore, nella noia e infine nell’oblio. CBS invece si salva per il rotto della cuffia. Non è certo esente da difetti, che tuttavia risaltano con maggiore chiarezza dopo la lettura degli altri due. Filacci di trama abbandonati a sé stessi, dettagli non spiegati, come il fatto che le ymbryne si trasformano in uccelli perché questi animali sono gli unici a poter controllare il tempo. Che significa? Perché gli uccelli controllerebbero il tempo? In che modo? Non lo sapremo mai.
E no, l’obiezione per cui c’è una seconda trilogia e magari i dettagli persi troveranno ragione in quella non sta in piedi, è semplicemente inammissibile. Due, quattro, sedici trilogie si fondano su altrettanti archi narrativi, diversi e autoconclusivi. Bene che in questo caso il secondo prenda le mosse direttamente dal primo, ma se oltre a ciò diventa occasione per correggere il tiro e mettere qualche pezza a stupidaggini già scritte nero su bianco, qualcosa non va.
Comunque sia, per chiudere in leggerezza, mi sono segnato un elenco sparso di sciocchezze che costellano BDA.
Il rumore arcigno del treno e il fetore torrido della galleria entrarono prepotentemente nel vagone. (p. 33)
Era come se, a ogni incontro con il Vacuo, penetrassi un po’ di più il suo sistema nevralgico. (p. 90)
Qualcuno saprebbe descrivere senza giri di parole un “rumore arcigno” e un “fetore torrido”? Intendo, a quali referenti dovrebbe aggrapparsi il lettore per avere un’idea di che diavolo voglia dire l’autore con questi due accostamenti sostantivo+aggettivo?
E che cos’è un “sistema nevralgico”? Qui mi sento di credere a un errore di distrazione della traduttrice, anche se torniamo sempre lì (mi sento un disco rotto): il lessico. Il LESSICO!
Sorvolando su sciatterie come «avevo raccontato ogni cosa a mio padre. Nella versione bignami» (p. 23) per indicare che Jacob usa il dono della sintesi; oppure «come se un viaggio pestilenze-free fosse un lusso riservato agli Speciali VIP» (p. 69); o ancora «Erano i barboni più barboni che avevamo visto» (p. 144), dove, per inciso, vedrei meglio un congiuntivo, troviamo perle come queste:
… c’era una banda di ragazzini seduti su un ponticello malandato, con i piedi nel canale. Tenevano sollevato sopra l’acqua un cane legato con la corda per le zampe posteriori, e immergevano il poveretto ridendo come matti quando lui latrava, spaventatissimo, e si formavano bolle in superficie.
[…]
Il barcaiolo […] recise la corda dei ragazzini. […] Il cane cadde in acqua e nuotò subito via tutto felice, mentre quei monelli gridavano infuriati… (pp. 76-77)
Solo a me suona tutto molto strano? Non avendo la versione in lingua originale non so dire se si tratti di problemi traduttivi o meno, ma la scena è piuttosto chiara: un gruppo di bambini tortura un cane. Appena liberato, il cane cade in acqua e succedono due cose: la prima, Jacob – il narratore – nota che il cane è “tutto felice”, ma non è ben chiaro cosa glielo faccia pensare; la seconda, il cane “nuota via”, ma sarebbe bello sapere come, dal momento che qualche riga prima aveva le zampe posteriori legate. Infine i ragazzini prendono male il fatto che un adulto interrompa la loro seduta di zoosadismo: chiamali “monelli”…
Ma procediamo con un’altra chicca:
… la cosa migliore da fare era levarsi di torno. Una opzione che ci apparve decisamente giusta quando sentimmo un ululato, e io di ululati così ne avevo sentito solo un altro in vita mia, all’accampamento dei gitani.
Un orso.
(p. 189)
Non so che dire, davvero. Insomma, non ho mai incontrato un orso selvatico, ne ho visto qualcuno in qualche parco faunistico; né ho mai sentito il loro verso dal vivo. Ma ho visto più di qualche documentario sugli orsi e molte riprese li ritraggono nell’atto di emettere il loro verso. E come si chiama il verso degli orsi? Bramito, si chiama bramito, come quello del cervo. Quindi l’orso bramisce. Esistono parole apposite che indicano molti versi di molti animali e un traduttore dovrebbe essere avvezzo ai vocabolari: una ricerca, anche su Google, e passa la paura. A patto di farla.
Quindi, appurato che gli orsi non ululano, ho cercato in HC il riferimento che Jacob fa all’accampamento, e trovo che la situazione non è migliore: lì l’orso ruggiva. Tant’è.
Saltiamo verso la fine del libro per scoprire che la nebbia mentale affligge l’autore (o la traduttrice) anche per ciò che riguarda la fisica e la meteorologia. Infatti:
La giornata era afosa, torrida. (p. 389)
Forse la gente usa questi due termini come sinonimi, ma se è così la gente sbaglia, perché indicano due condizioni di umidità opposte: “afoso” è caldo e umido; “torrido” è caldo e secco. Il clima della foresta pluviale è afoso; quello del deserto è torrido.
… quando Caul mi diceva di colpirli con le nocche, [i contenitori] risuonavano sonori e pieni. (p. 406)
Passi il “risuonavano sonori”, come se fosse possibile il contrario; quello che mi sfugge è il principio fisico secondo il quale un contenitore pieno suoni sonoro, quando è esattamente il contrario. Basti pensare a una chitarra o a un tamburo: suonano proprio perché sono vuoti, perché le onde meccaniche prodotte dalle corde o dalle pelli sono libere di muoversi nell’aria contenuta nella cassa armonica e nel fusto.
Fraintendere il fantastico
Basta, finiamola qui. Tra quaderni e fogli volanti ho riempito pagine di appunti, ma non voglio abusare di chi abbia avuto la bontà di arrivare fin qui.
Concludo con una riflessione personale: una buona intuizione non basta. Forse può essere sufficiente a irretire e a suggerire allettanti ipotesi di futuro. Il primo volume della saga di Miss Peregrine ha queste doti. Ma le promesse vanno mantenute, e Riggs non ne è stato in grado. A tratti ho avuto come l’impressione che sia caduto nella trappola suprema degli autori in erba: fraintendere il genere.
Se me l’avesse raccontato qualcuno e, soprattutto, se non avessi avuto a che fare direttamente con aspiranti scrittori di fantastico, faticherei a crederci, ma c’è qualcuno, là fuori, che con sicumera pensa e afferma che “siccome la mia storia è fantasy, allora può succedere qualsiasi cosa”. Al diavolo coerenza interna e patto narrativo. Definirla una ricetta per il disastro è un eufemismo.
Non so se sia il caso di Riggs, ma se non ha frainteso il fantastico, quanto meno ha frainteso le potenzialità della fantasia, propria e in senso lato. Propria perché, a conti fatti, la prima trilogia di Miss Peregrine ha ben poco di innovativo e una resa finale meno che modesta. In senso lato perché, per usare una similitudine, la fantasia è come un fluido: ha legami deboli, facili da rompere, e non ha forma. Le serve un contenitore – un progetto – dalle pareti solide, che sappia resistere ai suoi moti convettivi e alle pressioni, che sappia darle la forma che le manca e una direzione.
*
Note
[1] Un esempio arcinoto è il sistema magico dell’universo tolkieniano: l’autore non ci spiega come funzionano le meccaniche della magia e il tutto resta avvolto nel mistero. Esempi contrari (hard magic system) in cui le facoltà dei personaggi rispondono a regole esplicite si trovano, per esempio, in molta letteratura a fumetti. Tra i tanti, si pensi al famosissimo manga Full Metal Alchemist dell’autrice Arakawa Hiromu, dove l’alchimia è regolata dal principio imprescindibile dello scambio equivalente, secondo il quale per ottenere qualcosa è indispensabile offrire qualcosa del medesimo valore.