Grishaverse
Analisi di un abbandono
Ego me absolvo
Negli anni mi sono ammorbidito, soprattutto dopo gli studi, quando il tempo a disposizione nell’arco di una giornata comincia a evaporare nel nulla a dispetto di un numero sempre maggiore di cose che si vorrebbe fare. Prima, quando scandivo la mia vita a suon di sessioni d’esame, ero diverso: mi concedevo l’inutile strazio di finire una lettura anche quando non era per me, o era in effetti scadente e immeritevole del mio tempo. Leggevo seguendo un principio: “Un libro iniziato va finito”; ed era una specie di ninpō, un’inclinazione se vogliamo filosofica che mi identificava in quanto lettore: io ero uno che i libri o li finisce o nemmeno li comincia.
La verità è che in fondo mi è sempre sembrata una forzatura, ma avevo tempo, giornate infinite, momenti morti, tratte ferroviarie della durata priva di senso: che male c’era in un po’ di sforzo?
Poi, dopo lunghe e dolorose meditazioni, ho concluso che la patina romantica che ammantava la mia personale concezione del “libro” era per l’appunto soltanto questo, una patina: nulla che un colpo di spugna non potesse lavare via con facilità. Così ho cambiato appena l’intonazione del mio mantra, che, da sentenza qual era, è diventato spunto di riflessione: “Un libro iniziato va finito?”
La risposta – piuttosto ovvia, in realtà – è: no, non per forza.
Perciò, adesso, ogni volta che abbandono una lettura infruttuosa, mi assolvo dal mio stesso “peccato”, a patto però di aver preso coscienza del perché l’abbia commesso.
Non c’è una vera necessità dietro tutto ciò: uno può fare quello che vuole. Ma il punto è: quando abbandonate un libro, non vi viene mai la curiosità di indagare le ragioni per cui lo fate? È sufficiente pensare a frasi come “non fa per me”, “mi annoia” o “è scritto male”, che sollevino da ogni responsabilità? Certo, la rosa di sentimenti negativi che possono indurci ad abbandonare un libro sono ragioni sufficienti per farlo; ma con le ultime letture che ho interrotto ho voluto vederci più chiaro. Mi riferisco in particolare alla trilogia Grisha di Leigh Bardugo, di cui ho letto Tenebre e ossa e quasi tutto Assedio e Tempesta, prima di gettare la spugna.
Perché è successo?
Proverò a ragionare sulle questioni narrative alla radice di questa mia scelta, cioè sui limiti di un’opera alla quale un poco di ambizione in più avrebbe giovato.
La penna non è tutto
Dando per noto il contesto narrativo – che comunque ci soccorrerà più avanti –, partiamo dalla qualità estetica più immediata di un libro: il tenore della sua prosa.
Tenebre e ossa non è solo il primo libro della trilogia Grisha, ma costituisce anche l’esordio letterario di Leigh Bardugo, e tanto basterebbe a molti per usare qualche riguardo nel proprio giudizio. Non a me. E ciò non perché io voglia giocare al facile gioco del critico intransigente, quanto piuttosto perché Bardugo dimostra fin dalle prime righe di padroneggiare una prosa estremamente limpida, poco incline all’indugio e alle perifrasi, e allo stesso tempo capace di non inaridire. Insomma: un’ottima penna. È un tratto più che apprezzabile per chi come me legge molti fantasy di esordienti totali, vittime privilegiate di sovrabbondanza e inconsistenza.
Al contrario, Bardugo dimostra un’eccellente indole pragmatica, non si perde nell’esibizione di bigiotteria letteraria e, pur non vantando una prosa particolarmente fiorita, scrive. Ciò che dovrebbe fare uno scrittore. Senonché…
Senonché si ferma un passo al di là della soglia e più oltre non va. Sì, perché va bene l’assenza di fronzoli, ma addentrandomi nella lettura della saga ho avuto come l’impressione che l’autrice abbia adattato il contenuto allo stile, quando semmai, di norma, andrebbe fatto il contrario. Cioè a dire che se modello il mio stile sulla materia che tratto, tutto si tiene; se viceversa modello la materia sullo stile, ecco che può succedere questo: a uno stile asciutto corrisponderà un contenuto altrettanto asciutto, per non dire stopposo, povero di gusto, che allappa e delude il “palato” del lettore.
Così è la vicenda di Alina Starkov: insipida, noiosetta e anche un po’ già vista. Insomma, una buona prosa non è in grado di salvare l’ennesima storia centrata su un’orfana adolescente e dalla vita difficile, che a un tratto scopre di essere la più speciale tra gli speciali.
E di questo piattume generalizzato soffrono anche le caratterizzazioni dei personaggi, stereotipiche a dir poco. Di Alina si è appena detto. Mal è il secondo lato di vari triangoli amorosi un po’ fiacchi, con un talento per la caccia al limite del medianico e raccontato con poca dovizia. Genya è la pecora nera disprezzata dal gregge, che, per contrasto, ha un cuore grande così. Zoya è una scialba ragazzetta antipatica per principio, superba in virtù della sua bellezza (più che inutile in una società marziale) e il cui compito è quello di insidiare la potenziale romance tra Alina e Mal. Sturmhond, alias Nikolai, è un pirata guascone che riesce in tutto ciò che fa con irritante leggerezza, ma anche lui ha i suoi segreti, come l’essere nientemeno che il figlio cadetto del re. E infine l’Oscuro: che dire di lui? Il nome parla da sé. Tenebroso e sfuggente, manco a dirlo governa il buio e le ombre; anche lui ha un’identità segreta – è lui l’Eretico nero! L’avreste mai detto?! – ed è probabilmente il cattivo più didascalico che abbia mai incontrato.
Pochi tratti poco originali, nessuno scavo, nessuno scorcio: i personaggi sono figurine di carta che si muovono su un fondale altrettanto piatto. Ci credo che avanza spazio di manovra per dare alle stampe qualche spin-off dedicato. E no, la solfa che nei seguiti tutto migliora non vale un fico secco: se devo leggere cinque libri per arrivare ad apprezzarne uno, qualcosa è andato storto fin dall’inizio.
È quasi magia…
Per comodità lo chiamerò “sistema magico”, anche se Bardugo sottolinea che quella dei Grisha non è magia, bensì
… manipolazione della materia ai suoi livelli più elementari.
Marie non creava il fuoco. Attirava le particelle combustibili che erano nell’aria, ma aveva comunque bisogno di una pietra focaia per provocare la scintilla che le avrebbe incendiate. Non c’era magia nell’acciaio Grisha, ma solo l’abilità dei Fabrikator, che non avevano bisogno di calore o di strumenti rudimentali per plasmare il metallo.
Ma, se comprendevo quello che facevamo, ero meno sicura di capire come lo facevamo. Il principio fondamentale della Piccola Scienza era “i simili si attraggono”, poi tutto diventava complicato.
Bene.
Che cosa ricaviamo da questo passo? (L’unico, peraltro, a illustrare il funzionamento del sistema magico della saga.)
Esatto, nulla. E non solo noi: neanche Alina, di cui assumiamo forzatamente il punto di vista, ci capisce molto, infatti il paragrafo si chiude con l’ammissione che
Più o meno a questo punto la mia mente cominciava a perdersi.
Non molto incoraggiante, se uno volesse approfondire. Anche se, a dire il vero, qualcosa da ricavare ci sarebbe: per esempio, il fatto che Bardugo stessa non abbia ben chiara la natura del sistema magico che governa il suo mondo narrativo.
Senza scomodare la classificazione proposta da Sanderson ed espansa da Rowenson, resta però opportuno definire la direzione che il sistema magico di una saga dovrebbe prendere, così da non confondere il lettore e non obbligarlo a uno sforzo supplementare di sospensione dell’incredulità, o, in altre parole, costringerlo a ignorare falle nel detto sistema per non compromettere l’esperienza di lettura.
Il vero problema, in Tenebre e ossa, è che Bardugo si complica la vita introducendo una magia che non è tale, bensì è una “scienza”. E in quanto scienza, dovrebbe avere delle regole, rispettare delle leggi, dovrebbe poter essere messa a sistema, il funzionamento dei suoi fenomeni dovrebbe poter essere descritto. Chissà perché, Bardugo prova a spiegarcelo attraverso la scarsa comprensione di Alina, che nel suo addestramento passa lunghe ore china sui libri senza una vera guida e perciò senza concludere nulla. Dobbiamo quindi accontentarci di sapere che i Grisha sanno “manipolare la materia ai suoi livelli più elementari”. Dunque la Piccola Scienza adopera la fisica, anche se, fra le tante altre cose, resta ignoto come l’Oscuro riesca a governare il buio, dal momento che il buio sta alla luce come il vuoto sta al pieno o il silenzio sta al rumore: non si tratta soltanto di parole semanticamente contrarie l’una all’altra, ma nel concreto tali parole oppongono entità fisiche (onde elettromagnetiche, onde meccaniche, materia) alla loro assenza. Niente entità, niente controllo. Ci siamo?
Bene. Andiamo avanti.
Bardugo mette in piedi un sistema magico piuttosto elementare e, a dirla tutta, già visto. Tre categorie di influenza identificano tre categorie di Grisha:
-
- i corporalki, che interferiscono in varia misura con il corpo umano;
- gli etherealki, capaci di evocare e manipolare gli elementi;
- i materialki, in grado di manipolare la materia, per lo più materiali da costruzione e sostanze chimiche.
Questa schematizzazione, resa anche visivamente dai colori delle casacche dei vari Grisha (altro cliché), sembrerebbe voler dare l’idea di un sistema rigido, razionale, ben codificato: d’altronde “i simili si attraggono”, giusto? Perciò chi avrà affinità con l’aria governerà i venti, chi con il fuoco governerà le fiamme eccetera.
È tutto fin troppo soddisfacente nella sua quadratura, almeno finché non ci si chiede che cosa significhi nella pratica che “i simili si attraggono”. Voglio dire: in cosa consiste l’affinità di uno scuotiacque con l’acqua? Quale forza di natura permette a un fabrikator di modellare il metallo con la sola imposizione delle mani? Qual è il principio scientifico alla base di questi fenomeni? Date le premesse (e volendo preservare intatto il patto narrativo), sono domande più che lecite, a cui però Bardugo evita di rispondere dopo aver messo la pulce nell’orecchio: dal momento che Alina ci racconta la propria storia in prima persona, il lettore può sapere solo ciò che lei sa o apprende. E come abbiamo visto, Alina non sa un tubo o non capisce. A questo riguardo, però, sorge un’altra considerazione: Alina racconta al passato, dunque tutto ciò che leggiamo è narrato a cose fatte. È plausibile supporre che la Alina-narratrice sappia più cose della Alina-personaggio, perché tutta la vicenda è in buona sostanza una memoria. È dunque Alina (e, attraverso lei, l’autrice) a scegliere di non informarci adeguatamente su come funzionano i poteri dei Grisha? Oppure dovremmo immaginare che non abbia mai approfondito la questione più di quanto fa nella narrazione? E in tal caso, perché? Non sarebbe stato di suo interesse, in quanto Grisha? O forse sono dettagli che Bardugo crede non interessino al lettore? Benissimo, sia chiaro. Ma allora perché adombrare una struttura razionale per il sistema magico dei Grisha pur non avendo, a priori, l’intenzione di approfondirlo?
Ricapitolando: per come Bardugo descrive il funzionamento della Piccola Scienza, sappiamo che essa non è magia. Allo stesso tempo, in forza di tutto ciò che Bardugo non spiega, dobbiamo accontentarci di concludere che il meccanismo sotteso a questa disciplina sia a tutti gli effetti magico. Ma, per il principio di non contraddizione, una cosa non può essere uguale al suo contrario. Ne risulta così una scienza aporetica, assai poco soddisfacente da un punto di vista letterario. Meglio sarebbe stato rendere i Grisha degli stregoni a tutti gli effetti: se da un lato l’ammantare di scientificità l’arte Grisha risulta in una goffa arrampicata sugli specchi, dall’altro tutti i popoli nemici di Ravka considerano la Piccola Scienza per l’appunto stregoneria. E allora tanto vale, no?
Sul fondale
Facendo ricerche, apprendo che i recensori entusiasti di questa saga ne lodano il mondo narrativo, ispirato per lo più alla Russia zarista di fine Ottocento. Sicuramente (e lo dico senza ironia) parlano a ragion veduta: avranno letto l’intera trilogia, la dilogia dei Corvi e lo spin-off dedicato a Nikolai.
Ma, senza offesa, non conta granché: come dicevo poc’anzi, è inaccettabile dover leggere una mezza dozzina di volumi per rivalutare a posteriori i primi. Un libro dovrebbe tenersi da sé, anche se inserito nel contesto di una saga più lunga; è ovvio, d’altra parte, che la macrovicenda subirà degli arresti tra un volume e l’altro, per essere poi chiusa nel finale; ma bisogna pur sempre arrivare a un punto, occorre definire personaggi e ambienti, se non in toto, almeno in parte soddisfacente. Insomma, fin dal primo volume di una saga, il mondo in cui la vicenda si snoda dovrebbe essere credibile. Com’è naturale, il grado di approfondimento aumenterà con il proseguire della storia, ma sarebbe preferibile evitare di creare un semplice fondale che dia solo l’illusione prospettica di essere esplorabile.
Assedio e tempesta è un caso esemplare, in cui, oltre alla vicenda, giocano un ruolo importante alcuni elementi paratestuali come la copertina e la mappa. Ma procediamo un passo per volta.
Da Tolkien in poi, quasi non si dà narrazione fantastica senza una mappa dei luoghi. È diventato un topos così comune che molti esordienti ne allegano una alle loro opere a prescindere, senza una vera utilità: o perché la mappa in sé è estremamente approssimativa; o perché i luoghi che i personaggi attraversano non sono adeguatamente descritti nella loro morfologia, nelle loro proporzioni e nella reciproca disposizione; o ancora perché tutta la storia si sviluppa in un’unità di luogo e d’azione, il che porta i personaggi a non muoversi all’interno del mondo teorizzato dall’autore, che risulterà sproporzionatamente vasto rispetto alle reali esigenze narrative.
Bardugo si assesta grossomodo in quest’ultimo gruppo: i personaggi della trilogia Grisha si muovono generalmente poco e, quando lo fanno, il loro viaggio o la loro permanenza nei vari luoghi sono trattati in maniera piuttosto ellittica. In Tenebre e ossa, per esempio, Alina e Mal arrivano in Tsibeya, ma il lettore non esplora con loro la regione; è Bardugo, invece, a informarlo che in quel posto trascorrono giorni o settimane, e tanto basti.
All’inizio di Assedio e tempesta, hanno invece attraversato il Mare Vero, sono approdati nel continente di Novy Zem, e risiedono già da qualche tempo nella cittadina di Cofton. Che cosa sappiamo di questo luogo? Poco o nulla, perché all’autrice non interessa esplorarlo e così espandere il suo mondo fittizio; di contro, le serve solo un luogo alternativo dal quale i protagonisti saranno costretti a scappare per tornare là dove le vicende sono iniziate. Dunque, dopo una parentesi di illusoria novità che occupa un capitolo o due, veniamo catapultati di nuovo a Ravka, al Piccolo Palazzo, dove già eravamo stati per buona parte di Tenebre e ossa. Una ridondanza evitabile, con un po’ di inventiva in più.
A onor del vero, tra la fuga da Cofton e il ritorno a Ravka, Alina e Mal passano due o tre capitoli in mare sulla nave di Sturmhond, braccati dall’Oscuro e alla ricerca della cosiddetta Frusta Marina, il leggendario drago Rusalye che, dopo il Cervo di Morozova, fornirà alla protagonista il suo secondo amplificatore. Quale migliore occasione per esplorare il Mare Vero? Alina non ci è mai stata: a causa della faglia ha vissuto tutta la sua vita nelle terre orientali. Inoltre la ricerca del drago è una buona opportunità per impostare una vera quest, finalmente: i protagonisti potrebbero attraversare la mappa alla ricerca del drago e incontrare genti nuove, posti nuovi, pericoli nuovi, ottenere l’oggetto magico e solo allora “tornare con l’elisir” e sfruttarne i benefici.
Ma Bardugo è di tutt’altro avviso. Nonostante il drago sia persino tematizzato in copertina – non proprio l’ultimo degli accorgimenti per creare aspettativa –, la ricerca, la cattura, l’uccisione della bestia e la creazione dell’amplificatore dalle sue squame occupano una trentina di pagine scarse all’inizio del racconto[1]. A questo punto della lettura, avevo già storto il naso: che cosa mi aspetterà da qui in avanti, mi chiedevo, se ciò che pensavo essere il nodo narrativo portante di questo volume è già stato sciolto? Tedio, ecco cosa. Un noioso ritorno ai luoghi che già conoscevo, corredato di infinti dialoghi e riunioni di guerra in attesa dell’attacco nemico, qualche rigurgito di romance e null’altro.
So che in Rovina e ascesa, l’ultimo capitolo della trilogia, la solfa è più o meno la stessa riguardo al terzo amplificatore: da Assedio e tempesta, se non dalla fine di Tenebre e ossa, sappiamo che gli amplificatori sono tre, e tutti sono tematizzati in copertina. L’ultimo è un introvabile uccello di fuoco, tanto sfuggente che Alina e Mal lo trovano nel giro di una settimana proprio dove speravano che fosse. Questo accade dopo pagine e pagine di confabulazioni e fughe, un rocambolesco carosello di inutili avvenimenti che porterà i nostri a scoprire di aver fatto tutto per niente: in realtà non è mai stata la creatura il vero oggetto della ricerca, ma lo stesso Mal. Sì, è lui il vero terzo amplificatore, e ciò si deve al fatto che è il pronipote della sorella della madre dell’Oscuro. Carramba!
A questo punto, la storia si arena di nuovo sul conflitto tra il buio e la luce, il bene e il male, Alina e l’Oscuro…
Prospettiva forzata
Al netto dell’astenia generale della trama, di un sistema magico che è un colabrodo e di un comparto di personaggi bidimensionali, il vero punto debole di questa trilogia è fuor di dubbio la forzatura del punto di vista a quello della sola Alina. La prima persona non è una scelta infrequente nelle narrazioni YA degli ultimi decenni: si vedano per esempio Hunger Games, Percy Jackson o Divergent. In sé, come tutte le tecniche, non è malvagia a prescindere, ne ho già parlato in Si caret arte. Tutto dipende da come viene gestita.
A questo proposito, l’impressione che Bardugo mi ha dato è quella di non aver saputo trovare una quadra fra la volontà di creare un mondo alternativo e l’uso del solo filtro di Alina per mostrarcelo. L’autrice suggerisce un mondo vasto, popolato da genti molto diverse e modellato da complesse dinamiche geopolitiche, oltreché dall’operato dell’Eretico Nero. La mappa stessa ci mostra terre molto ampie e tuttavia vuote: solo qualche città punteggia enormi distese di nulla, e tali città si presume che verranno visitate o che in ogni caso avranno un peso nella vicenda. Non che ciò sia in qualche modo prescrittivo: magari Bardugo ha voluto dare qualche accenno geografico per rendere il suo mondo più plausibile; ma tali accenni sono tanto pochi che, per l’appunto, l’attesa è quella che abbiano uno scopo.
E invece no, perché se Alina non ci va, nemmeno noi lo facciamo, ancorati come siamo alla sua sola esperienza.
Forse il problema sta tutto nella sproporzione tra ciò che Bardugo sembra promettere e ciò che in effetti dà. Me lo sono chiesto spesso. Magari ho tarato le mie aspettative in maniera sbagliata e ho preteso da questi romanzi qualcosa che non avrebbero mai potuto darmi.
Poi ho ripensato alla lunga assenza di Mal in Tenebre e ossa, al fatto che l’avevano spedito in Tsibeya a cercare il branco di Cervi di Morozova. Sarebbe stato interessante vedere cosa accadeva in quei giorni, osservare luoghi ancora non visti, assistere alle attività di Mal e ai suoi progressi, approfondire attraverso di lui la storia dietro a queste creature (e non attraverso l’espediente muffito del Libro dei santi). Ma Alina non era con lui, quindi nulla.
Allo stesso modo, sarebbe stato interessante vedere come l’Oscuro si preparava all’offensiva che scaglia sul finire di Assedio e tempesta. Qui interviene in maniera molto pesante un particolare narrativo che, combinato con l’uso della prima persona, rende il secondo volume estremamente paludoso nel suo arrivare a un dunque: parlo dei nichevo’ya. Creati dall’Oscuro attraverso il merzost, una variante esoterica della Piccola Scienza proibita per via dei rischi e dei costi altissimi che richiede, questi esseri non possono agire se sono fisicamente troppo lontani dall’Oscuro. Al contempo sono le sue armi più temibili, perciò un loro attacco a distanza contro le forze di Alina non è possibile. Ma l’Oscuro è debilitato dalla sua stessa magia, che gli chiede un pesante tributo in termini di forza vitale: per questo ha bisogno di tempo per organizzare la sua compagine.
Noi però tutto questo lo apprendiamo da un resoconto, perché Alina ci obbliga a restare al suo fianco ad aspettare che l’Oscuro faccia la sua mossa. Da qui, viene il tedio infinito che vizia la seconda metà di Assedio e tempesta, arenato fra le stanze già note del Piccolo Palazzo e tra dialoghi estenuanti.
Una paresi narrativa
Le scelte narrative di Bardugo sono improntate a un immobilismo generale: è questo aspetto, in definitiva, ad avermi spinto a lasciare la lettura. Se Alina non si muove, noi non ci muoviamo; ma quando Alina si muove, il tempo e lo spazio vengono compressi in formule ellittiche che ci privano della possibilità di partecipare o anche solo assistere all’azione. Così, mentre ciò che succede fuori dal raggio d’intervento della protagonista diventa mero materiale da resoconto, ciò che rimane è spesso tagliato con l’accetta:
Persi la percezione del tempo. I giorni e le notti si alternavano dietro i finestrini della carrozza.
I giorni immediatamente successivi trascorsero in una nebbia di malessere e stanchezza.
Passavo lunghe ore nella capanna di Baghra a imparare esercizi…
Mal tenne un passo impietoso nei giorni successivi.
Eravamo a Cofton da due settimane e io ancora mi perdevo.
Meno di una settimana dopo avvistai i primi banchi di ghiaccio.
Quella del Grishaverse è in fin dei conti una narrazione statica, paralizzata da scelte non troppo accorte che sfiniscono il lettore un po’ più esigente. Bardugo promette e non mantiene (come la Angiolini, ma senza la leziosità di un’adolescente), attira con giochi di ombre sulla parete, ma poi svela di aver soltanto posto un oggetto molto piccolo davanti a una luce molto potente, ed è un peccato, perché gli elementi che ha messo in gioco non sono male in sé e per sé. Forse un po’ telefonati, come il fatto che l’Oscuro, in quanto tale, sarà il nemico giurato di Alina l’Evocaluce, ma che se arrangiati meglio e con più coraggio, avrebbero potuto rendere interessante un’opera di certo non originale, ma comunque dalle buone prospettive.
Arrivati alla fine, prima di salutarci, voglio concedermi una piccola prolessi: «E allora i tre milioni di copie vendute?!» chiederà forse qualche lettore del Grishaverse, indignato…
E io dirò: «Hai proprio ragione, amico mio: e allora?».
***
Note
[1] E che dire dei Cervi di Morozova in Tenebre e ossa? Compaiono solo alla fine.
Vero, ma per Tenebre e ossa il discorso è leggermente diverso: è il primo volume di una saga e ha molti compiti rispetto ai seguiti: deve introdurre i personaggi, il loro mondo, l’arco narrativo che occuperà l’intera trilogia e innestarvi quello che occuperà il singolo volume. Non è cosa da poco. Per lo meno i Cervi vengono menzionati più volte e con un discreto anticipo. Il drago, di contro, compare all’improvviso nei primi capitoli di Assedio e tempesta grazie allo sbrigativo espediente delle favole per bambini (mai menzionate prima!) che tramanderebbero la sua leggenda, e in queste poche pagine rimane confinato. Una gestione davvero terribile, se si tiene conto che l’amuleto ricavato dalle sue squame è uno degli oggetti magici fondamentali per sconfiggere l’Oscuro.