Tre miniature
Nelle ultime settimane ho un po’ trascurato questo spazio. Come in molti sanno bene, novembre non è un mese propriamente felice per i freelance, e bisogna darsi da fare più del solito.
Ma nel frattempo ho collezionato qualche lettura. Ne ho selezionate tre: Michael Crichton, A.M. Shine e Stephen King. Ne propongo qui le tre recensioni, molto snelle, quasi tre miniature.
Sfera
di Michael Crichton
Michael Crichton è una leggenda della letteratura di consumo; dalle sue opere sono stati tratti in maniera quasi sistematica dei lungometraggi, alcuni dei quali sono diventati pietre miliari del cinema. Si pensi a Jurassic Park e a Il mondo perduto; o al Tredicesimo guerriero con Antonio Banderas, tratto da Mangiatori di morte; o ancora a Timeline, con Paul Walker, Gerard Butler e Billy Connolly. E questo per rimanere nella cornice di un solo decennio.
Quanto a me, pur avendo amato alla follia il Jurassic Park di Spielberg, è stato Sfera il mio primo contatto con il Crichton romanziere, opera che, tanto per cambiare, fu adattata per il grande schermo nel 1998 con un cast di tutto rispetto.[1]
In Sfera la penna di Crichton è quanto di più semplice si possa immaginare e partorisce un onesto romanzo di genere composito, a metà strada fra il thriller psicologico e la fantascienza, che non si può certo dire brillante per stile e inventiva, ma che al contempo non è esente da pregi. In una prosa diretta, asciutta, quasi desolata, per nulla indulgente al descrittivismo né alla didascalia, riesce comunque con estrema limpidezza a restituire scene e personaggi credibili.
La trama rispecchia appieno lo stile per essenzialità: la marina militare ingaggia un gruppo di scienziati per indagare su una presunta navicella spaziale aliena sommersa a 300 metri di profondità nel Pacifico. A bordo, i protagonisti trovano una misteriosa sfera senziente che darà loro più di un mistero su cui arrovellarsi.
Le parti di narrazione pura scarseggiano in favore di frequenti dialoghi alla maniera tipica americana: un serrato botta e risposta quasi del tutto privo di pause, beat o inserti didascalici di qualsiasi natura; un modo, questo, che a tratti può risultare leggermente straniante per chi apprezzi di norma una partitura più ariosa e pausata del fraseggio.
Beninteso: non considero difettosa questa impostazione stilistica: né più né meno, fa il suo lavoro e nel complesso si armonizza con il pragmatismo narrativo che innerva il romanzo. In altre parole, Sfera dice quel che deve.
Da simili premesse sarebbe lecito aspettarsi un intrattenimento grossolano, di cui ci si accontenta, l’ossimoro della “letteratura d’evasione”; e invece Crichton sorprende con un tratteggio sì non troppo polito, eppure costante e coerente nel dare forma alla psicologia dei personaggi principali. La sfera mette a dura prova la saldezza di nervi e mente, e permette di creare un avvincete enigma della camera chiusa a un ventesimo di lega sotto i mari. Promosso.
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The watchers
di A.M. Shine
The watchers è il romanzo d’esordio dell’irlandese A.M. Shine. Non credo avrei mai saputo della sua esistenza se Ishana Night Shyamalan non avesse esordito a sua volta – ma alla regia – con l’adattamento cinematografico di quest’opera. E se avessi fatto l’errore di dare la precedenza al film (cosa che mi capita di tanto in tanto, soprattutto quando sono incerto sul mio stesso interesse verso una storia), avrei finito per non leggere mai un romanzo che mi ha sì fatto storcere il naso qui e là, ma che tutto sommato è un lavoro per alcuni aspetti apprezzabile.
Shine pesca a piene mani dal folklore della sua terra per confezionare un racconto ricco di tensione, in cui la minaccia è soltanto evocata per gran parte della sua consistenza. La bravura dell’autore sta non tanto nella trovata di attingere a un repertorio folklorico ancora per lo più illibato – almeno dal punto di vista del pubblico di massa –, quanto nel metterlo in penombra, condizione tra le più interessanti, che suggerisce, ma non dice né mostra. Insomma, un’interpretazione dell’orrore più vicina alla purezza del genere, e dunque lontana dall’ormai anemico espediente della ripugnanza, che mette sotto lampada scialitica l’efferatezza e poco altro.
Il nemico c’è, è concreto, ma se da una parte non lo vedi, dall’altra sai che lui sta guardando te. È questo il succo di una trama molto semplice, che tuttavia nasconde qualche piacevole rivelazione. Quattro persone vivono loro malgrado in un bunker di cemento – detto il Covo – in mezzo a una foresta sconfinata, liberi di uscire di giorno, ma costretti all’interno durante la notte, quando, col buio, una folla di creature terribili si raduna davanti al rifugio e, attraverso la parete frontale costituita da una grande vetrina, osserva i quattro inquilini come fossero insetti in un terrario.
La vividezza del racconto (favorita dai pochissimi elementi da gestire, ma non affatto scontata), le pressioni psicologiche imposte ai personaggi dalla paura e dall’impotenza, e le fievoli luminescenze di speranza che regala lo scoprire di volta in volta un tassello in più sul mistero centrale sono i sicuri punti di forza di un’opera prima che, però, talvolta difetta per superficialità e per una certa fretta nel comporre situazioni e scioglimenti, e in un certo qual modo anche di una debolezza strutturale.
I personaggi, com’è noto, sono incisivi tanto quanto le loro motivazioni; e quelli di The watchers vogliono solo una cosa: tornare a casa. Comprensibile, ma poco soddisfacente se si pensa che nei guai sono finiti per caso e non in forza di mancanze, errori, incautela, condanne, volontà di espiazione o chissà cos’altro. Soffrono e lottano perché lotta e sofferenza toccano loro in sorte, cioè a dire che la loro situazione altro non è che un elaborato imprevisto lungo il corso delle loro vite; imprevisto che evolve con insolita rapidità da quando Mina, la protagonista, si unisce agli altri abitanti del Covo, pur non avendo lei alcuna dote particolare che di per sé garantisca di sfuggire all’impasse della prigionia. Particolare che rischia di far sembrare pretestuoso l’intero svolgimento della vicenda.
L’impalcatura della caratterizzazione scricchiola un po’ e i rapporti tra i personaggi maturano con una disinvoltura poco credibile, dal momento che bastano un paio di mesi di convivenza forzata per far dire a quattro sconosciuti di sentirsi una famiglia. Vero che il normale decorso delle relazioni potrebbe essere catalizzato e distorto dall’eccezionalità della situazione, ma per raccontarlo Shine usa la maniera antinarrativa della notifica al lettore: lo informa, in sostanza, a cose fatte, senza premurarsi troppo di creare o approfondire situazioni collaterali alla grande situazione che sta al cuore del romanzo. Insomma, quattro cristiani sopravvivono insieme alcuni mesi in mezzo al nulla, succederà qualcosa tra loro? A quanto pare sì, ma ne leggiamo solo gli effetti.
A volte, durante la lettura, mi ha colto l’impressione che l’idea iniziale richiedesse molto meno materiale di quanto ne servirebbe per costituire un romanzo; in altre parole, spesso ho pensato che The watchers sarebbe stato meglio in forme più brevi, come il racconto, e che per qualche ragione che non conosco la storia abbia subìto una sorta di inflazione.
Ad ogni modo, pur con qualche falla, tutto si tiene abbastanza. Ho letto esordi molto più sconclusionati. Si arriva con agio alla sufficienza.
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La lunga marcia
di Stephen King
Per i lettori occasionali di Stephen King, La lunga marcia può rivelarsi un bel recupero archeologico: si tratta infatti del primo romanzo scritto dall’autore, composto una decina d’anni prima dell’esordio con Carrie.
Nella prefazione autografa intitolata Perché ero Bachman (1985), in cui King spiega le ragioni dello pseudonimo con cui ha pubblicato questo e altri quattro romanzi,[2] leggiamo:
Ho scritto La lunga marcia tra l’autunno del 1966 e la primavera del 1967, quand’ero matricola all’università.[3]
Una dozzina d’anni più tardi, nel 1979, La lunga marcia vede le luci della ribalta editoriale, pur senza il traino del nome, che nel caso di L’occhio del male, edito sempre come Bachman, porterà il titolo a decuplicare le vendite a seguito dello “smascheramento” dell’autore.
La trama di La lunga marcia è oltremodo semplice: in un’America contemporanea e distopica – per quanto questo particolare resti soltanto suggerito dall’avarizia di particolari che innerva l’intero romanzo – un gruppo di cento adolescenti volontari si iscrive a una marcia dal confine tra Maine e Canada fino a Boston, nel Massachusetts. Lungo la strada, chi rallenta, si ferma o infrange altre poche regole riceve un’ammonizione da parte dei soldati che seguono la competizione a bordo di convogli dell’esercito. Chi colleziona tre ammonizioni subisce il “congedo”: una fucilazione sommaria sul posto. L’eventuale vincitore otterrebbe, per contro, enormi ricchezze e il diritto di vedersi esaudito un desiderio, qualunque esso sia.
L’impronta giovanile di King, pur a fronte dei lunghi anni trascorsi tra la stesura e la pubblicazione, rimane fresca e visibile nella breve gestazione del romanzo, nella rarefazione della trama e nella semplicità delle motivazioni dei personaggi; elemento, quest’ultimo che rasenta credo volontariamente la banalità. Perché mai – se non per il premio, s’intende – iscriversi di propria sponte a una marcia ininterrotta di 680 chilometri che nel migliore dei casi ammette un solo vincitore, e prevede la morte di almeno il 99% dei partecipanti?
Non è infatti questo, a parer mio, il fulcro del romanzo. King in persona, forse un po’ miope dopo tanti anni, afferma che in questo romanzo «c’è comunque molta storia»[4]. Così non è, ed è un fatto. Ma non per forza un demerito. Al contrario, se si ravvisa nella marcia, negli scambi tra i personaggi e nelle loro morti una cruda allegoria della vita in senso lato, lo spessore interpretativo di una storia narrativamente piuttosto esile si rinforza. King ne completò la stesura in appena sei mesi, non ancora ventenne, e tale acerbità si mostra nell’asciuttezza un po’ asettica della prosa (tratto però generalmente americano, polare alla fioritura velleitaria e maldestra di molti giovani esordienti italiani), così come in un cinismo di maniera, dal retrogusto artefatto, insincero rispetto alle atmosfere delle inquietanti distopie di altri coevi, come ad esempio Philip k. Dick.
Eppure tutto ciò resta più che apprezzabile per chi come me ha una certa inclinazione al filologismo; e poi perché, malgrado i piagnistei di qualcuno, il talento esiste. E stiamo parlando di Stephen King.
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Note
[1] Dustin Hoffman, Sharon Stone e Samuel L. Jackson.
[2] Ossessione (1977), Uscita per l’inferno (1981), L’uomo in fuga (1982) e L’occhio del male (1984). Dopo aver rivelato la propria identità nel 1985, nei decenni successivi King torna a pubblicare due romanzi come Richard Bachman: I vendicatori (1996) e Blaze (2007).
[3] Stephen King, Perché ero Bachman, in La lunga marcia, Pickwick, Milano, 2013, p. XI.
[4] Ivi, p. XIX.