Sapevo spogliare le creature del loro alone di incanto, vederle per ciò che erano; ma un altro alone si andava formando in me, nel quale riverberavano altre sagome e altri colori: un viluppo di impressioni che richiedeva a gran voce di essere sbrogliato affinché il palpito delle rassomiglianze si solidificasse in una Storia delle Cose Esistenti, una storia che per il momento era solo ipotetica.
È raro trovare un esordio narrativo di tale limpidezza, quasi che le acque coralline che lambiscono la terre incognite del Pacifico ne sostanzino la storia e la bella prosa, lo stile curato, raffinato, colto, finanche forbito, ma mai ampolloso, frutto di un lavoro di lima tanto assiduo quanto cauto.
Riccardo Capoferro, docente di Letteratura inglese alla Sapienza di Roma, si impone all’attenzione della giuria del XXIII Premio Italo Calvino ed esce nelle librerie il 23 settembre 2021 con il suo primo romanzo, Oceanides. Debitore di grandi autori anglosassoni quali Swift, Defoe, Conrad, ma anche dell’americano Melville, dell’italiano Salgari (e forse anche di Verne?); e ancora dell’epica omerica, incarnata, nello specifico, dal viaggio di Odisseo, nonché della fantascienza, di cui evoca blandi riverberi ma comunque suggestivi, l’opera si presenta come un romanzo denso, cangiante, un amalgama di generi le cui dosi sono state ben aggiustate e le cui pagine regalano piaceri differenti: quello squisitamente estetico del suono delle parole, del loro registro, del loro accostamento, della melodia d’insieme; e quello più legato all’intelletto, che si crogiola nei concetti, nel senso, negli accadimenti.
Mi chiamo Richard Kenton e sono nato nel 1660 a East Coker, nel Somerset. Mio padre si chiamava Will Kenton ed era un fittavolo. Non eravamo ricchi, ma avevamo di che vivere. […] una lontana parentela ci legava nientemeno che allo Earl of Somerset. Ma fin da bambino riponevo poco interesse in quell’improbabile lignaggio. […] Mi interessava piuttosto la macchia di querce che circondava East Coker, un labirinto di sentieri muschiosi che a volte annegavano tra le felci. Lì avrei voluto vagare e fermarmi. Avrei voluto appiattirmi per osservare le talpe, arrampicarmi sugli alberi per osservare il volteggiare dei gheppi, acquattarmi vicino al rosseggiare ispido delle volpi.
È Richard Kenton il protagonista di Oceanides, un giovane nato a terra e circondato dalla terra, ma che fin da piccolo nutre il proprio spirito con i racconti di viaggi per mare dello zio Elijah, e matura una tensione verso l’orizzonte sconfinato degli oceani. Questa fame di avventura si alimenta peraltro di una innata propensione all’osservazione della natura, di un interesse profondo per il libro delle «Cose Esistenti» che è il mondo, al quale sono sottese – Kenton lo intuisce già da bambino – meccaniche segrete e sorprendenti, non ancora descritte e che conservano quindi la fascinazione del fantastico.
È con questo animo che ad appena vent’anni si imbarca su un veliero diretto in Giamaica, dove lo attende il lavoro in una piantagione di canna da zucchero. Ma tale «servitù» non è ciò a cui si sente destinato, perciò si imbarca nuovamente, diretto all’istmo di Darien, vicino a Panama, dove guadagnare denaro come tagliatore di legno rosso, la cui corteccia è utile per ricavare una pregiata tintura. Ma anche questo non soddisfa le sue aspirazioni, perciò quando si presenta l’occasione di unirsi a una ciurma di bucanieri e girare il mondo, Kenton la coglie. Inizia così una peregrinazione continua, fatta di assalti, ruberie, esplorazioni di terre sconosciute e incontri di genti indigene.
Grazie alle indicazioni del popolo dei Naviganti, Kenton approda su un’isola misteriosa, antica e incontaminata, dimora di una specie di uccelli mai vista prima. Dal piumaggio blu cobalto, ma iridescente a seconda di come la luce incide sulla livrea e ne viene riflessa, questi uccelli senza nome vivono in uno stormo smisurato e sembrano avere natura anfibia, legati a doppio filo a misteriose polle di acqua intorbidita da una sospensione lattescente e vagamente luminosa, che sembra avere miracolosi poteri curativi su chi, ferito o in punto di morte, vi venga immerso. Da questo incontro, con l’isola e con gli uccelli che la abitano, battezzati Oceanides dal nome delle ninfe Oceanine, nascerà una febbre, quasi un’ossessione, che accompagnerà Kenton – smessi i panni del bucaniere e indossati quelli del naturalista – per tutta la vita.
Come racconta Capoferro in una breve presentazione (disponibile qui), il personaggio di Richard Kenton è ricalcato sulle fattezze (biografiche) di William Dampier, pirata ed esploratore inglese che nella seconda metà del Seicento e nel primo Settecento navigò per il mondo, compiendo ben tre volte la circumnavigazione del globo. Dopo lunghi anni per mare, nel 1697 scrive il libro A new voyage around the world (così come Kenton scrive il Nuovo viaggio intorno al mondo): un resoconto di viaggio, appunto, che ha largo successo, specie fra le cerchie di accademici naturalisti londinesi, tanto che la Royal Society accoglie Dampier fra i suoi ranghi e gli commissiona una seconda opera, per la quale si rimette in mare, fino a raggiungere, fra le altre mete, le coste dell’Australia, Terra Incognita, scoperta poco meno di un secolo prima e dunque, all’epoca, ancora un’assoluta novità.
Per Kenton la vera Terra Incognita è però l’isola degli Oceanides. Coperta da una giungla lussureggiante che nasconde le sorgenti miracolose, è restia a svelare il suo mistero, e gli uccelli che vi risiedono non la abitano al pari di uno stormo in una voliera, bensì come spiriti in un santuario. È in tal modo che Richard Kenton guarda a queste creature: con gli occhi dell’uomo che per la prima volta incontra il divino e ne riconosce le fattezze, eppure esse non sono quelle del Dio delle Scritture, ma appartengono a un’entità priva di forma e sostanza o, al contrario, presente in ogni forma e sostanza possibile, che si incarna negli equilibri della natura, nella fitta e inestricabile serie di rapporti, giunture, articolazioni, nessi e legacci che mette in comunicazione tutti i comparti di un mondo il quale, per esigenza decrittatoria e compilativa, siamo obbligati a scomporre in atomi da osservare, comprendere, e poi calare di nuovo nel loro contesto dove – ci sorprendiamo come bambini – funzionano meglio degli ingranaggi ben oliati di una macchina.
Kenton viaggia mosso da una purissima volontà di scoperta, di osservare e di scrivere su ciò che ha visto; il suo resoconto è il simulacro della sua esperienza, che Capoferro narra con perizia pittorica: l’attenzione per il dettaglio visivo è massima; i colori, talora limpidi, talora offuscati, sono strumenti di studio della realtà; il testo procede per sinestesie, attraverso il suono suggerisce la materia e la radiazione luminosa, in modo che anche l’esperienza del lettore possa constare di una visione più che di una semplice lettura. Cosa, questa, appannaggio della narrazione ben riuscita. E Oceanides è più che ben riuscito, è un esordio narrativo maturo, studiato, affinato, trafilato sotto l’influsso della lingua di Proust, e lavorato di cesello con la virtù dell’alto artigianato.
***
Mondi paralleli
- Valerio Evangelisti, Tortuga, Milano, Mondadori, 2008
- Valerio Evangelisti, Veracruz, Milano, Mondadori, 2009
- Valerio Evangelisti, Cartagena, Milano, Mondadori, 2012
- Gianluca Barbera, Magellano, Roma, Castelvecchi, 2018
Un paio di suggerimenti per avventurieri letterari
I romanzi di Evangelisti citati qui sopra esistono anche in volume unico come Trilogia dei pirati, Milano, Mondadori, 2019.
Il romanzo di Barbera, nonostante differisca per toni e argomenti (la spedizione di Magellano per trovare un passaggio all’estremo sud del continente americano che garantisse un approdo più veloce alle coste dell’Asia rispetto alla consueta circumnavigazione dell’Africa), può essere un buon propedeutico a quello di Capoferro.