Le perdute Gesta
Su Gesta Romanorum di Giovanni Raboni
Nel 1953, a un Raboni appena ventunenne, questa prima raccolta vale il premio di poesia “Incontri della gioventù”; poco tempo dopo però il giovane autore ne smarrisce le tracce, «Ho perso questa raccolta» dirà in un’intervista, «mi son rimasti soltanto dei frammenti»[1]. Tanto pochi da impedirgli per sempre ricostruirla nella sua veste originaria.
Nel ’58, sulla rivista I nuovi poeti diretta da Ugo Fasolo, Gesta Romanorum compare nella consistenza di diciassette testi, e poi di nuovo nel ’67, edita da Lampugnani Nigri con un incremento di tre poesie. Vari componimenti della plaquette compaiono negli anni a più riprese su riviste, ma anche nella prima raccolta pubblicata, Le case della Vetra (1966), che a questa altezza ne conta otto in appendice. Ma è a partire dalle edizioni garzantiane di Tutte le poesie (1997, 2000) che Gesta Romanorum riacquista la sua naturale posizione in apertura del corpus raboniano, così come la ritroviamo nella più recente edizione Tutte le poesie 1949-2004 a cura di Rodolfo Zucco (Torino, Einaudi, 2014).
Il risarcimento della musica
Per addentrarci con efficacia nell’argomento, è bene procedere con ordine, cioè dal titolo: prestito eccellente, Gesta romanorum non è dunque parto della fantasia di Raboni, bensì già dal 1947 titolo di una suite per burattini composta da Adrian Leverkhün, protagonista del Doctor Faustus di Thomas Mann.
Raboni si lascia suggestionare dall’aura di mistero che avvolge la suite, «una musica che nessuno ha mai sentito perché inventata da Mann»[2]. Di seguito, il poeta confessa la propria questione irrisolta con la musica («è il grande amore impossibile della mia vita: è quello che non ho fatto e mi sarebbe piaciuto fare»[3]), rapporto mancato anche nella poesia, inizialmente impostato su quello che definisce «il sacrificio della musicalità e della melodia»[4] rilevabile nell’adozione di metri liberi affiancata alla sistematica esclusione dei metri chiusi. È dunque la citazione dal Faustus un tentativo di fare propria una dimensione anelata e mai raggiunta, con grande ironia: si pensi all’accostamento ideale fra i burattini per cui Leverkhün compone la suite e i personaggi del racconto evangelico, fonte e materia dell’intera raccolta.
Una Via Crucis
A proposito di sacri testi, un anno prima della morte, in Autoritratto 2003, Raboni ebbe a scrivere: «nelle mie prime esperienze di scrittura poetica una grandissima importanza ha avuto l’immaginario legato alla narrazione evangelica»[5]. Argomento cardine della sua produzione aurorale, la buona novella è «somma di tutto il possibile umano, oltre che naturalmente divino»[6].
Il tema è strutturante, sia nell’architettura dei singoli testi, sia nell’assemblaggio definitivo della raccolta. Insieme alla predilezione giovanile per una metrica sciolta, Raboni individua un doppio criterio, tematico e formale, alla cui luce e a partire dall’edizione garzantiana (1997) di Tutte le poesie 1951-1993, plasmerà nuovamente la fisionomia di Gesta Romanorum, scartando quei testi che prendono corpo da riflessioni su temi mitici, classici e veterotestamentari. Fulcro della composizione diventa «una sorta di Via Crucis, una serie di meditazioni su passi evangelici o su immaginazioni di situazioni legate alla vita di Cristo»[7]. Sono quindi espunti dalla redazione finale testi come I compagni di Ulisse, Susanna, Diana e Endimione, nonché i metri chiusi Arianna (sonetto), Leda (quartine di novenari a rime alterne) e Caino (quartine di endecasillabi a rime alterne)[8].
Il monologo teatrale
Una lingua rituale e intersoggettiva
Il criterio di esclusione per via formale non investe soltanto i metri chiusi, ma interessa, delineando al contempo un’altra peculiarità della raccolta, anche testi pluristrofici; da ciò l’esclusione di poesie quali Per il sabato santo (una quartina, due terzine e due distici), Per il debito (una terzina, tre distici e due versi isolati variamente alternati), o ancora Inno temporale (in sette strofe di misura irregolare)[9]. Perciò, a partire dal 1997, Gesta Romanorum si compone di diciotto poesie metricamente non canoniche e monostrofiche, salvo due eccezione di cui ci occuperemo in seguito.
Il monostrofismo imperante nella raccolta ne individua la modalità diegetica principale: il monologo teatrale. Un personaggio prende la parola, esternando riflessioni, ansie, paure; parla per sé o si fa portavoce di un gruppo più ampio, che può comprendere altri personaggi silenti e non citati, o il pubblico della sacra rappresentazione della Via Crucis, come nel Tradimento di Pietro:
Quante volte, pellegrini
affranti da una notte di bufera,
mettendoci alla fine accanto al fuoco
d’una locanda, ci troviamo in mezzo
ai volti stanchi dei nostri nemici!
Certo, potremmo
alzarci urlando; e forse, addirittura
tirar fuori il coltello: e interrogati
sul nostro nome
rispondere coi motti più roventi
fracassando stoviglie. Ma a chi giova
tanta fatica? All’oste no, né al cuore
spossato dalla pioggia. Meglio fingerci amici,
stranieri, o troppo vili: distesi sulla panca
che scivola nell’ombra dai bagliori
rispondere coi cenni o a monosillabi
tirandoci il mantello fin sopra gli occhi.
Cosa rappresenta il noi in cui Pietro si comprende? Parla agli apostoli? A chi sta chiedendo di essere capito nel vacillare della sua fede? Non c’è una risposta univoca, ma certo è che Raboni tenta di costruire una dimensione onnicomprensiva che abbatta il diaframma della pagina e renda tutti partecipi del dilemma umano di Pietro. Che è poi forse, tra le righe, il dilemma del poeta stesso: Raboni definisce infatti questa scrittura «un modo per parlare di sé indirettamente, attraverso immagini e situazioni esemplari»[10].
Ma accade, come nei Timori della Maddalena, che l’io lirico proietti la riflessione su di sé, in un discorso fittamente intrecciato con il piano metrico e sintattico.
Ho paura del legno e della rupe,
ho paura del corpo, del nervo lacerato,
dei tendini recisi, ho paura della luce,
ho paura del sasso che chiuderà la tua porta,
ho paura del vento e delle voci, ho paura
del corvo che ti mangerà, ho paura del lupo
che troverà le tue ossa, ho paura
che tu sia morto e tutte le notti
avrò paura che tu mi baci di gelo
e mi tiri i piedi sotto il lenzuolo.
Il testo si compone di dieci versi di metro vario e si caratterizza per l’uso congiunto della ripetizione e dell’accumulazione. La Maddalena confessa le proprie angosce e le sottolinea con l’anaforico «ho paura», che ricorre otto volte; nove, se si considera l’occorrenza variata «avrò paura», che conclude la serie dei timori.
Nel suo saggio sulla metrica di Raboni[11], Fabio Magro sottolinea come l’artificio elencatorio sviluppi un discorso che si articola in segmenti coordinati e per lo più asindetici, sorretti dalla «quasi litanica ripetizione del sintagma verbale ho paura»[12]; rileva inoltre come l’incastro di metrica e sintassi non avvenga lungo un asse di simmetria, ma si sbilanci, come accade ai vv. 5-6 «[…] ho paura || del corvo», e ancora ai vv. 7-8 «[…] ho paura || che tu sia morto», dove Raboni separa la specificazione dal predicato con una fortissima inarcatura e introduce movimento, evitando così il rischio di scolastica ridondanza insito nella ripetizione, ma restituendo il fascino rituale della preghiera.
Ulteriore declinazione di questi aspetti si ritrova in Meditazioni nell’orto.
Ricòrdati: chiudere il gas, le sei mandate alla porta.
C’è rischio di spezzare il calice e c’è rischio di smarrirlo
prima che tutto si compia.
E l’orto non ancora invaso, l’orecchio ancora saldo,
quanti fili dispersi da annodare
perché tutto si compia!
Scegliere chiodi giusti, scegliere il fiele e la spugna,
fare le prove con Anna e con Pilato,
discutere la piaga coi lanciatori di coltelli
perché tutto si compia.
L’incipit, fulminante, è un monito, e l’incedere della poesia mescola il rimuginare a mezza bocca con la sacralità della ripetizione formulare («perché tutto si compia»), pronunciata da un soggetto irrintracciabile: un io che parla a un interlocutore, o forse a sé stesso o a entrambi.
Dal punto di vista tematico, Raboni tratta qui la materia evangelica come un canovaccio e la Crocifissione in particolare come l’acme di un dramma in cui i personaggi sono maschere, parti assegnate, da provare perché si compia la solenne messa in scena della morte di Cristo.
Monologo in frammenti
Il monostrofismo è certo la maniera d’elezione di questa raccolta, tuttavia non informa la totalità delle poesie: Orazione di Giuda e Il centurione intervengono a puntellare l’uniformità generale frammentando il discorso rispettivamente in dieci versi suddivisi in cinque distici e due strofe di nove e sei versi ciascuna.
O giudei bianchi e neri, compagni
della mia vita in questo fuoco e vento,ecco, io vi tendo la mano del perdono:
io, l’agnello sacrificante e sacrificatodue volte, nell’amore e nell’odio,
apostolo una volta dell’ulivofraterno, una volta dell’ulivo
suicida. E a voi romani tendo la manodel perdono, perché ogni cosa sia fatta
due volte, e ogni uomo guardi con quattro occhi.
Come osserva anche Magro, la scelta del poeta per la forma a più strofe è «figura del contenuto semantico veicolato dal testo»[13]: il Giuda apostolo e delatore, che fa mercato della vita di Cristo, non può che parlare doppio e ribadire l’insana cesura del suo spirito, organizzando il discorso in coppie di versi e cumulando al loro interno – di nuovo a coppie, peraltro opposte – i vari puntelli della sua retorica: così leggiamo di «giudei bianchi e neri», «fuoco e vento», «agnello sacrificante e sacrificato», amore e odio, l’ulivo fraterno e l’ulivo suicida, questi ultimi in posizione di fortissima inarcatura con il loro aggettivo; e infine l’ultimo distico, in cui Giuda svela apertamente la sua ambiguità. A rinforzo di questa architettura, Raboni ripete due volte proprio l’espressione «due volte», in una tautologia formale che scandisce il componimento in due (v. 5) e poi lo sigilla (v. 10). In sintesi, l’Orazione di Giuda si presenta bipartita; al proprio interno composta di soli distici strutturati a loro volta per coppie antinomiche; si rivolge a un doppio destinatario (giudei e romani); e definisce con precisione la doppiezza dell’io lirico, sia in quanto amico e delatore, sia in quanto personaggio e maschera dell’autore che ne detta il discorso.
Non bisogna avere fretta di sapere
se uno è buono o cattivo:
c’è tempo per capirlo, e poco tempo
per mettere a profitto la notizia.
Ma se quel dubbio vi tortura, allora
date una mano ai suoi persecutori,
fate cuore al carnefice.
Per sciogliere un enigma così strano
la morte è lo strumento più sicuro.Ne ho visti tanti morire! Un malfattore
non muore così, ma gridando di paura
come un bambino; o spavaldo, con la faccia da eroe
e modi bruschi. Disperato e insieme
sereno, così forte a pazientare,
so che muore solo un innocente.
In questo secondo caso il testo diventa materiale plastico che aderisce al pensiero del centurione e si evolve con esso, e si scinde al variare dell’umore del discorso. Nella prima strofa, l’io del centurione parla in modo impersonale, impartisce istruzioni su come riconoscere un malfattore da un innocente; ma se l’assenza di riferimenti rende difficile individuare un interlocutore nella prima metà della prima strofa, dal v. 5 è chiaro che il centurione si rivolge a un “voi”, una pluralità di astanti assiepati per assistere alla tragica rappresentazione imminente.
Lo stacco tra una strofa e l’altra segna invece un cambio di prospettiva: il palco si spegne e resta solo il centurione, illuminato da un occhio di bue: è il momento in cui la voce narrante fornisce al pubblico la prova empirica a sostegno della sua tesi: per vedere di che pasta è fatto un uomo, lo si metta a morte; un «malfattore» non muore così, come questo nazareno che stiamo osservando sulla croce; la serenità sul volto di Cristo è la prova tanto dolorosa quanto inconfutabile che stiamo guardando morire un innocente. E che noi siamo i colpevoli.
Il lessico
Com’è ormai chiaro, Gesta Romanorum è la storia della Crocifissione. Dall’iniziale Rimorso di san Giovanni Battista per aver battezzato Cristo e averlo così destinato al supplizio, all’amara consapevolezza del Congedo, in cui i giochi sono fatti e ogni parola detta ritorna, come ogni azione, a infestare il passato e i ricordi.
Le parole scambiate col barbiere
sapendole aride e vane, credendole fraintese
e sepolte per sempre in un orecchio peloso
ritornano. Più fioche, più crudeli
girano senza sosta nei miei sogni,
turbano il mio riposo. Non m’è dato correggerle, ormai,
né scacciarle dall’umida bottega.
La morte e ancor prima la sofferenza sono elementi portanti della struttura di questa parabola dolorosa. Soffrire e far soffrire, morire e meditare sulla morte (propria e imminente, o altrui e lontana) sono azioni usuali per i personaggi della rappresentazione. Azioni a cui si abitua anche il lettore, inoltrandosi fra le maglie del tessuto lessicale.
Un gravità riflessiva domina i testi e, nella rappresentazione della morte, si avvale di un linguaggio immediato, ma che nulla perde dell’evocativo pur fissando il proprio referente nella realtà materica delle cose. Dunque nessuna perifrasi, alcun eufemismo o altro palliativo linguistico alla crudeltà dei momenti che descrive: Raboni chiama le cose con il proprio nome. Si noti, nel solo Centurione, la concentrazione del lessico legato alla morte: carnefice (v. 7); morte, appunto (v. 9); morire (v. 10); muore (vv. 11, 15).
Martirio del corpo e strumenti di tortura
Il tema del dolore e della sofferenza, veicoli alla morte, si sostanzia nella carne, nel lessico dell’anatomia e nell’indagine chirurgica del corpo, delle ferite e delle loro cause. Così nei Timori della Maddalena il «nervo lacerato» (v. 2), i «tendini recisi» (v. 3) e le ossa alla mercé dei lupi (v. 7) emergono in primo piano, freddamente ritratti nella loro efferata icasticità.
Collaterale al precedente, o forse suo generatore, s’innesta nella poesia l’universo lessicale della tortura e del supplizio capitale; con ironico distacco, in Meditazione nell’orto l’io poetico aggiunge una voce al doloroso elenco delle cose da approntare «perché tutto si compia»; come articoli di mercato, si scelgono gli strumenti della propria passione: i «chiodi giusti», ricorrenti nei denominali «inchiodalo» (Aria per tenore, v. 4) e «inchiodarlo» (Altre interviste. Il falegname, v. 3), se non, attraverso un processo di deduzione, nelle due occorrenze di «Crocifiggilo», parola iniziale e conclusiva di Aria per tenore (vv. 1, 10), o dalle altrettante ricorrenze della parola «croce» (Altre interviste. Il falegname, v. 5; Requiem per compleanno, v. 4); «la spugna» (v. 7), intrisa di fiele, che andrà a tamponare «la piaga» (v. 9) pianificata coi lanciatori di coltelli, per rendere il dolore più acuto e perfezionare la performance. E di seguito quegli stessi «coltelli» (v. 9), che aprono al vasto campo semantico del taglio e della lama: così «coltello» vede tre occorrenze nell’intera raccolta; «coltelli» due; una per «coltellate», così come per «lancia», «lama», «spada», «pugnalato».
Morire al buio
E questo teatro della morte non può che andare in scena in una mezzaluna cupa e asfittica. Un notturno insistito, non uniforme ma ricorrente, un fondale afflitto da neri caravaggeschi su cui si stagliano le azioni dei personaggi rese ancor più vivide e drammatiche dal contrasto alogeno di un faro piazzato.
«Buio», «notte», «gelo», «bufera», «vento»: spie che mettono in evidenza la complessa interazione tra l’interiorità dei personaggi e l’ambiente entro il quale si trovano ad agire. L’ostilità degli elementi e l’oscurità danno vita a un’atmosfera claustrofobica in cui il senso di morte (realizzata o prossima) è amplificato: il tempo meteorologico diventa correlativo della violenza dell’uomo sull’uomo, violenza che dimora nelle tenebre infernali e che anzitempo Giuda, nell’Orazione, prefigura «in questo fuoco e vento» della sua vita.
L’impegno poetico del giovane Raboni aspira a creare una sinergia tra lettore e personaggio: in altre parole una compartecipazione alla storia evangelica che non sia solo meditazione o sforzo immaginativo per ricreare un mondo lontano nel tempo. La ricerca d’altro canto non viaggia lungo la sola traiettoria intellettuale-morale, ma in parallelo cerca di mettere in atto una sollecitazione sensoriale che annulli ogni barriera narrativa e, di nuovo, coinvolga lettore e personaggi nella storia universale, come già ricordato «somma di tutto il possibile umano, oltre che naturalmente divino».
*
Note
[1] «Ho fatto un lavoro di raccolta e anche un po’ di restauro, nel senso che queste prime poesie facevano parte di un’intera raccolta che in quanto tale ho smarrito […]. Ho perso questa raccolta che non era stata pubblicata, mi son rimasti soltanto dei frammenti che poi ho cercato di ricomporre: un po’ usciti in rivista, un po’ in un’antologia, un po’ li avevo pubblicati poi, ma molto più avanti, in una raccoltina con quel titolo [Gesta Romanorum]. Adesso ho fatto la maggior raccolta possibile, non è certamente completa, ma è tutto quello che ho trovato.»
Intervista a G. Raboni, in S. Tamiozzo Goldmann, Scrittori contemporanei. Interviste a Sandra Petrignani, Giovanni Raboni, Gianni Celati, in F. Bruni (a cura di), «Leggiadre donne…». Novella e racconto breve in Italia, Venezia, Marsilio, 2000, pp. 312-313.
[2] Giovanni Raboni, Opera poetica, Milano, Mondadori, 2006, p. 1398.
[3] Ibid.
[4] Ibid.
[5] Giovanni Raboni, Tutte le poesie 1949-2004, a cura di Rodolfo Zucco, Torino, Einaudi, 2014, vol. II, p. VI.
[6] Ivi, p. VII.
[7] G. Raboni, Opera poetica, cit., p. 1397.
[8] Ora raccolti nella sezione “Poesie abbandonate (1949-1961)”, in Giovanni Raboni, Tutte le poesie 1949-2004, cit., vol. II, pp. 169-198.
[9] Anche questi testi reperibili nella sezione di cui alla nota 8.
[10] Ivi, col. II, p. VII.
[11] Fabio Magro, La metrica del primo Raboni, in «Nuova rivista di letteratura italiana», vol. 5, n. 2 (2002), pp. 347-407.
[12] Ivi, p. 392.
[13] Fabio Magro, Un luogo della verità umana. La poesia di Giovanni Raboni, Pasian di Prato, Campanotto Editore, 2008, p. 29.