L’accento inservibile
Né qui lo farò io, né altrove spero di leggerlo da chi come me ha recuperato questo romanzo a diversi anni dalla sua uscita nel 2015: non mi soffermerò su quanto sia inquietante l’aura profetica di questo racconto, sia perché col senno di poi sono tutti bravi a rintracciare oracoli – d’altronde siamo programmati per questo: trovare corrispondenze, riconoscere schemi, ripetizioni, forme nelle nuvole –, sia perché Anna profetico non è, ma si impernia su una premessa drammaturgica un po’ logora: il morbo come grande ramazza che spazza via tutto. O quasi.
Al netto di questo, Ammaniti riesce se non a rinverdire, quantomeno a rinfrescare il cliché dell’aftermath apocalittico puntando il fuoco narrativo sulla miseria di una generazione che sa di avere una data di scadenza prima ancora di sapere che cos’è la vita.
Il mondo perduto
Da Liegi si diffonde un’epidemia mortale e inarrestabile che dilaga dapprima in Europa, poi in tutto il mondo. La chiamano “la Rossa”, come la Morte di Poe, anche se a Poe, verosimilmente, nessuno ha fatto in tempo a pensare. Il morbo si chiama così perché si manifesta con vistose macchie scarlatte sul corpo e, dopo un degrado repentino delle funzioni respiratorie, conduce alla morte. Non tutti, però: i bambini e i ragazzi che ancora non hanno raggiunto la pubertà sembrano non risentire della malattia, non manifestano sintomi di alcun tipo e sono destinati a vedere il mondo che conoscono sgretolarsi davanti a sé. È ciò che succede ad Anna, una tredicenne siciliana che si ritrova a badare al fratello minore Astor servendosi soltanto della propria tenacia e di un quaderno di regole che la madre ha compilato prima di morire, regole che dovranno guidarla, almeno per un po’, nel nuovo mondo senza adulti.
Anna vaga per una Sicilia spettrale; sul resto del mondo girano soltanto voci, forse qualche adulto è sopravvissuto e cerca disperatamente una cura, ma la verità è che nessuno sa niente. Ora ci sono solo bambini, che arrancano nel vuoto di miseria e sporcizia lasciato da una civiltà che gli è scomparsa tra le dita. Alcuni si organizzano in bande tribali per racimolare quante più risorse e vettovaglie possibili; altri, ben più fallimentari, tentano di portare avanti lo spettro della vita che avevano prima.
Tutto è cambiato. Nulla è cambiato. Anche nel mondo stritolato dalla Rossa il tempo resta l’unica vera ricchezza, resa ancora più preziosa dall’asticella ormai bassissima che separa la libertà dalla condanna: la pubertà. È questo il limite massimo a cui aspirare: l’avvento ormonale, che di norma imprime al corpo e alla vita sconvolgimenti e nuove consapevolezze, apre ora alla morte.
La Sicilia non è più posto per Anna e Astor; bisogna raggiungere il continente, dove forse risiede qualche speranza in più di restare vivi. Ma quando, al rientro a casa da una ricognizione, Anna scopre che il fratellino è sparito, tutto si fa incredibilmente ancora più difficile.
Una storia di fantasmi
Il mondo dopo la Rossa in cui Anna si muove è, come si è detto, estremamente impoverito. Bambini piccoli o appena adolescenti, crudeli e incolti, scorrazzano qua e là incuranti della pienezza che li ha preceduti; l’uomo non esiste più, le sue opere sono ormai inconsistenti e, sebbene non sia il punto del romanzo, tanto da restare sempre in filigrana, è un concetto che si impone alla lettura e la influenza fin dalla prima pagina, come una gelatina montata su un riflettore: la luce passa allo stesso modo, ma di un altro colore, cupo e cinereo.
Uno dei passi più potenti del romanzo curiosamente non appartiene a momenti di dramma né di tragedia; si trova al contrario nelle prime pagine, in cui il lettore sta ancora orientandosi nella desolazione di Anna. È un dettaglio, in verità, un rapido scambio di battute tra lei e il fratello, che tuttavia rende con estrema schiettezza ciò di cui stiamo parlando. Anna porta un regalo ad Astor, un tubetto bianco pieno di latte condensato Nestlè; il bambino lo stappa e inizia a succhiarlo, ma Anna lo riprende con durezza:
«Cosa ti ho detto mille volte?» Il bambino provò a rialzarsi, ma la sorella gli mise un piede sullo sterno, bloccandolo. «Che ti ho detto?»
«Che devo leggere e annusare prima di ficcarmi le cose in bocca.»
«E allora?»
Astor le prese il piede, cercando di liberarsi. «Tu hai detto che mi piace, quindi è buono.»
«Non importa, devi sempre leggere.» Gli ridiede il tubetto. «Forza.»
Il bambino sbuffò, stropicciandosi un occhio.
«Nes… Nes… Nest…» S’interruppe e indicò una lettera. «Cos’è questo?»
«È l’accento.»
«E a che serve?»
«A niente.»
A niente… L’accento è un inservibile orpello, vestigio di qualcosa che non tornerà più come prima e che sarà destinato a corrompersi fino a disfarsi nella polvere. Con l’accento non se ne va soltanto un diacritico, beninteso, ma l’intero impianto linguistico, un universo di scambi e relazioni che ha alimentato il ribollire delle civiltà per millenni. Non solo l’italiano, naturalmente: l’accento è una parte per il tutto, è la scrittura in senso lato, quindi la Storia dell’umanità che lì, in quelle parole scambiate con noncuranza fra due bambini, incontra la fine. Sebbene Anna cerchi di continuare il quaderno della madre, meditando e aggiungendo annotazioni in vista del giorno in cui anche lei morirà e Astor rimarrà solo, la spietatezza della sua risposta è una dichiarazione di resa: l’umanità è già finita e i bambini che restano non sono il futuro di un nuovo mondo, ma evanescenti bave di fumo che si agitano nell’aria quando una candela si spegne.
Dov’è la speranza in questo racconto? Dov’è l’agnizione che ci faccia dire: «Qui è la svolta, qui è il cambiamento risolutivo»? Personalmente non la trovo e intendiamoci: non è per forza un malus. Non che il romanzo non parli del cambiamento: quale maturazione più incisiva, più brutale, più crudele del gettare una manciata di bambini in un mondo senza guide, senza riferimenti se non il poco che ricordano del mondo vecchio e che interpretano senza alcuno strumento? È una prova che molti non superano, regredendo a uno stadio pre-civile, dove l’aggregazione non è altro che un attorniarsi gli uni gli altri, girovagare in branchi dediti alla caccia e depredare, pur senza la malizia del furto. Anna invece si aggrappa al ricordo della vita prima della Rossa, della madre che aveva e che l’amava al punto da immaginare il futuro che sarebbe venuto e così distillare il decalogo cui la bambina si affida. Ma trascinare con sé questi fantasmi è un atteggiamento, come dicevo, fallimentare, perché niente dura dopo la Rossa, e le regole del quaderno sono le prime a usurarsi.
Anche se, a dire il vero, non è esatto affermare che la speranza viene a mancare: ancora si manifesta debolmente nella leggenda della Picciridduna, l’unica persona adulta che sarebbe rimasta in vita e che, in cambio di offerte da consegnare alla tribù dei bambini bianchi e blu, suoi presunti custodi, pare sia in grado di impedire il contagio. Allo stesso modo, Pietro, un altro adolescente che accompagna Anna nel suo viaggio, si appiglia al credo infantile di un paio di scarpe magiche in grado di trasportare chi le indossi in una versione del mondo in cui la Rossa non c’è mai stata. Ma sono illusioni, voci, leggende del mondo nuovo in cui non è rimasto nulla in cui confidare, a parte la propria ferma volontà, per chi l’ha conservata. Ciò che farà Anna e il cui prezzo è lo sconforto di chi regge da solo sulle proprie spalle il mondo – uno scampolo di mondo – , ma ciononostante si rifiuta di lasciarlo andare.