Sotto il segno
dello Sputacchiera
L’oroscopo generazionale di Alberto Ravasio
Quale generazione?
In una intervista, Ravasio definisce il proprio romanzo “un tentativo di autobiografia generazionale non autorizzata”. Non so bene da dove gli venga questa credenza, d’aver scritto un romanzo del genere, intendo; forse gliel’ha detto qualcuno in uno slancio di entusiasmo e lui ci ha creduto; o forse è sincera convinzione. Non lo so. Sta di fatto che Guglielmo Sputacchiera non ha il fiato né il fisico per incarnare il ritratto di una generazione.
Mi trovo piuttosto in disaccordo sulla visione che ha Ravasio degli attuali trentenni. Sarà perché, appena un paio d’anni più giovane di lui, e più di lui vicino ai trenta, la sua generazione è anche la mia, e mi sento in qualche modo chiamato in causa in quanto lettore che in queste pagine dovrebbe rivedere sé stesso.
Ebbene, io ho il mio piccolo orticello sociale, il mio bagaglio di esperienze personali e, in tasca, la mia buona quota di disillusione verso il futuro. La mia visione è parziale, provinciale forse, quindi trascurabile, se non irrilevante al cospetto dei grandi numeri della demografia sociale. Eppure della stessa cifra mi pare la visione dell’autore, che colloca uno Sputacchiera qualsiasi (un trentenne di nulle aspirazioni, inetto e pieno di rimpianti) nella provincia bergamasca, dove pone anche il contrasto fra il paesello e la città, tra le meraviglie di questa e il muffito immobilismo di quello. Ci sono i genitori proletari e incolti, i bigotti ciucciaostie, sempliciotti generici e altre creature bizzarre. C’è il protagonista, naturalmente, che a tutta questa gente, suo malgrado, vive in mezzo. Questo è però il ritratto – distorto dal filtro comico-grottesco – dell’Italia periferica e rurale genericamente intesa: va bene per qualsiasi latitudine, non è poi un’ambientazione così originale, per quanto sia, come è vero, attualissima. Ma lo è da almeno cinquant’anni.
Fiorire nel deserto
In un “paesello stercoso” si contorce dunque la vita insulsa di Sputacchiera, giovane uomo che un dì d’agosto si sveglia transessualizzato (sic) in donna per una qualche magia del desiderio carnale; e che, come detto, sustanzia il peccato d’inettitudine. Ma in che modo la sua vicenda e le premesse da cui parte sarebbero un tratto generazionale dei trentenni di questi anni Venti? Mi pare azzardato. Sputacchiera non ha mai concluso nulla in vita sua, se non le scuole dell’obbligo, che per compensazione ha affrontato nella più totale e passiva inconsapevolezza. Negli anni dell’università ha saltapicchiato di corso in corso e di facoltà in facoltà. Animato da trite velleità letterarie, non ha però mai avuto la tenacia di concretizzare qualcosa, nonostante «anche se è nato nel letame» possieda «l’istinto per la parola». È sempre stato attratto dal femminino, dalla donna e dalla sua vulva, ma anche riguardo a questo non ha mai combinato niente. In altri termini, è intelligente ma non si applica, per prostrazione. Da un lato, un po’ troppo vago anche per essere un archetipo; dall’altro, un carattere fin troppo particolare per potersi adattare senza pieghe a una fetta tanto consistente della popolazione come quella degli odierni trentenni.
Ciò che intendo è che la condizione di Sputacchiera – digitalizzato, suicidato sociale, pornodipendente, disoccupato, invalido sentimentale ecc. – è comune al più o meno vasto campione di persone che ha scelto di non scegliere, un plotone di ignavi che non cercano la propria strada; o di sfortunati che non ne hanno la possibilità. Ma a uno sguardo macroscopico non è che una contingenza, e per di più estremamente trasversale alle generazioni. Forse che nei trentenni di oggi il fenomeno sia esasperato? Anche su questo non mi trovo tanto d’accordo.
Ora parlerò del ritaglio di mondo che conosco io, ma che allo stesso tempo trovo abbastanza rilevante, dal momento che, studiando, ho avuto modo di conoscere numerosi coetanei provenienti da ogni parte d’Italia e di ogni estrazione. Con questo non voglio fare l’errore di allargare le mie località a tutto il sistema, ma devo pur prendere atto che la stragrande maggioranza di chi mi ha circondato dall’inizio alla fine degli studi, e anche ora che siamo tutti al lavoro, ha oggi una casa, un impiego, delle passioni, una famiglia e altri orizzonti di realizzazione piuttosto definiti (chiamiamole ambizioni). Traguardi inseguiti o raggiunti con estrema fatica, al prezzo di compromessi, sacrifici e talvolta botte di fortuna (conta anche quella), oltre che dell’aver ottenuto a trent’anni e senza sconti soltanto parte di ciò in cui i baby boomer inciampavano con naturalezza a diciotto o a venti. E ciò mi suggerisce che la cifra della mia generazione è questa: non il dissiparsi nel deliquio e nell’angoscia, bensì il fiorire anche nel deserto.
Non si nega qui che le condizioni a cui sottostiamo per avere un frammento di ciò che ha avuto la generazione dei nostri genitori siano avvilenti; che il digitale abbia pervaso le nostre vite; che la sessualità sia stata per certi aspetti elisa dai corpi (per godere basta un accesso alla Rete), e per altri ridotta alla sola corporeità (sesso = incastro e frizione di parti anatomiche); né si nega quello che dice Guido Coprofago, con una saggezza incoerente al suo personaggio: cioè che «da bambini ci hanno ingrassati di desideri. E quando poi siamo cresciuti, c’hanno detto che erano finiti i soldi». È tutto vero, ma la questione è annosa e diacronica, non è peculiarità nostra.
Alla luce di questo, è anche vero che di scelte, noi, ne abbiamo ancora qualcuna: poche, spesso indesiderabili quando non compromettenti; altre volte migliori, vere e proprie occasioni, pur sempre più rare. La sfida è perseguirle nonostante chi è più anziano di noi soffra spesso di un’ingombrante sindrome da capovillaggio e ci guardi dall’alto in basso malgrado la propria congenita inadeguatezza. È altrettanto vero che i trentenni di questi anni Venti hanno gli strumenti più raffinati di chiunque altro per comprendere e agire sul mondo in cui vivono: meglio della generazione precedente, che nel suo complesso non ha retto il cambio di passo con l’attuale modernità accelerata; meglio, in ugual misura, della generazione successiva, che conosce solo questo mondo e per difendersene o leggerlo ha solo i poveri mezzi che può offrire un ambiente così rarefatto. L’unico impedimento tra il poter agire e il farlo davvero è banalmente fisico: l’argine degli anziani non si decide a levarsi di mezzo. Dovremmo forse asportarlo meccanicamente?
Noi abbiamo compreso e accettato (ma non perdonato) che le promesse fatteci dai nostri vecchi non verranno mai mantenute. Siamo pragmatici, sappiamo bene che l’inseguimento dell’impossibile è una perdita di tempo, e forse per questo più di altri pecchiamo di scarso idealismo; privilegiamo il meglio che possiamo ricavare dalle situazioni che la contemporaneità ci offre, e quel meglio lo sappiamo selezionare. Siamo in grado di vedere con distaccata chiarezza il passato e il presente, e così valutare le mosse migliori per il futuro. Abbiamo chiari i nostri obiettivi, e pur costretti a fare altro per sostenerci, ci dedichiamo a quelli. E quando anche questo compromesso diventa insostenibile, ce ne andiamo, quasi sempre lasciamo il nostro paesello stercoso per le grandi città. Nei casi più gravi – e non senza dolore, ma neppure senza sollievo –, lasciamo nostra ingloriosa patria di cui a qualcuno piace tanto riempirsi la bocca.
Perciò non fare uso delle disposizioni e delle strategie di adattamento che abbiamo sviluppato attraversando la membrana tra due mondi reciprocamente fobici, come l’acqua con l’olio, è una scelta personale di Sputacchiera, non la marca socioculturale di una generazione irrecuperabile.
Physique du rôle
Lo Sputacchiera è, nella sostanza, un’invenzione totale che ha gli stessi legami con la realtà che può offrire il principio di verosimiglianza: un inetto come lui esisterà pure da qualche parte, anzi saranno in molti. Lo erano ieri, lo sono oggi e lo saranno domani. Così come nel XVII secolo, un Tramaglino o una Mondella qualunque li avremmo trovati senza sforzo su per le filande del comasco.
E se il personaggio Sputacchiera non ha il physique du rôle per incarnare una generazione, al romanzo manca altrettanto corpo per apparire riuscito. Diciamo pure che pregi e difetti si compensano a vicenda e, alla meglio, il bilancio si chiude in pareggio.
Pose, retorica, stile
Ravasio ha una buona prosa che adopera con disinvoltura, l’equivalente scrittorio di una parlantina sciolta, a tratti un po’ troppo compiaciuta del proprio acume, che è poi dove cade, credo io. Il vocabolario è ampio, variegato, sfruttato con malizia retorica contro un certo buoncostume dell’Italietta salottiera ma provinciale, che teme di scomporsi e ambisce solo a fare bella figura. Quella che pensa negro, puttana e froci, ma non lo dice perché sta male, e a proferire certe porcherie si passa subito dalla parte del torto. È l’Italia del “paesello stercoso”, della buona borghesia campagnola con l’anima trinata che fa di un pezzo di terra o dell’omelia domenicale la misura di tutte le cose.
E la cifra del comico innerva ogni pagina di questo romanzo. «Non il comico televisivo o sensazionalistico», dice Ravasio, ma più accosto per «atmosfera intellettuale e artistica a quello di Celati, Malerba, Cavazzoni, Fellini». Lascio a ciascuno il giudizio. Quanto a me, non posso non notare una discrepanza tra la dichiarazione d’intenti e la loro messa in atto sulla pagina; pagina che deraglia troppo spesso nell’esibizionismo di chi è bene incline a qualcosa (la scrittura) e sa di esserlo. Di necessità, il romanzo si rende noiosetto più o meno dal secondo capitolo in poi.
L’ironia, l’inventiva (?) linguistica, l’esuberanza di alcune forme retoriche si ripropongono con troppa insistenza, tradendo una maniera ripetitiva di affrontare il racconto e il bisogno di puntelli che sorreggano l’impalcatura formale. E tale bisogno, a sua volta, tradisce insicurezza, fatica d’arrivare al punto, o un serbatoio narrativo ancora troppo poco capiente.
Così la vicenda di Sputacchiera annega in frequenti aggettivi participiali, annaspa tra giochi onomastici un po’ straccioni e infiniti calembour, paronomasie, divertissement etimologici, neologismi gratuiti che ingrossano i lemmari, ma non il numero dei concetti, e, più che di romanzo compiuto, restituiscono un’impressione di esercizio di stile: studiato, impegnato, lavorato di lima (forse meno del dovuto), ma pur sempre un esercizio.
Prendiamo gli aggettivi participiali. La prosa dello Sputacchiera è tutto un florilegio di bambini grembiulati, signorine vaginate, generazioni pigiamate, viali lampionati. Ne ho citati alcuni, ma sono troppi per non saltare all’occhio in tutta la loro sintetica bruttezza. Certo, è un espediente che evita ingombranti perifrasi, e una volta o due, se usato con arguzia, potrebbe anche essere interessante, ma andrebbe adoperato come il sale: solo dove occorre davvero e in quantità sempre minore di quella che riteniamo utile.
Vediamo ora i giochi onomastici. Pochi, uno solo, forse due, il che è senza dubbio un pregio. Il più innocuo e facilone è “Carmela Pene”, nome fittizio che Sputacchiera adotta dopo la transessualizzazione. Degno di poca nota, infantile, innocuo. L’altro appare invece drammatico se rapportato alla sproporzione tra lo sforzo cognitivo per inventarlo e la modestia dell’esito. Mi riferisco al nome della madre di Sputacchiera, Alida, che ogni italofono direbbe istintivamente con accentazione piana, “Alìda”, appunto; e invece lei, la personaggia, a seguito di una storiella comica in cui c’entrano buche nella strada e conseguenti sobbalzi così violenti da far arretrare gli accenti tonici delle parole, ecco che si ritrova a chiamarsi Àlida. Fin qui tutto bene, anche se non mi è chiaro il motivo di tutta questa attenzione verso un particolare in fondo superfluo. Ma non ha importanza. Quello che importa è conoscere il cognome di Àlida, cioè Polli. Da ciò viene che il suo nome completo è Àlida Polli. Non credo di dover aggiungere altro.
E che dire del resto? Trovate linguistiche forzosamente simpatiche, callidae iuncturae abortite ma delle quali, con tenacia ammirevole, ci vengono riproposte le salme di continuo, nella speranza, magari, che nel mucchio qualcuna ancora conservi un alito di vita. Ne abbiamo un elenco nutrito: cursus (dis)honorum, minori minorati, anticonformismo conformista, quella massima per la verità minima, cazzo incazzato, giovanile e giovanilista, perito tecnico e perito e basta, credo non credente, indifferenza alla differenza, pene depennato, pene penoso, curriculum mortis, volontarie volenterose, senza consenso né senso, mi grazi da questa disgrazia, occuparsi della sua disoccupazione, impegnato a impegnarsi, impotenza prepotente eccetera.
Vedo lo sforzo, mentre si cerca di tirar fuori dal cilindro qualcosa di acuto e graffiante, e non posso fare a meno di pensare che quell’affermazione sul comico “non televisivo” sia in qualche modo insincera. A cosa servirebbe certa ironia ricorsiva – anzi frequente fino alla noia – se non a far ridere in maniera un po’ crassa il lettore? A che pro le continue forzature di registro, dal medio generale al basso, se non a estorcere un sorriso con materia da punchline cabarettistiche? Un po’ goffe, a dirla tutta, e il più delle volte insipide.
Facciamo qualche esempio:
… canzoni d’amore cacofoniche, tanto acusticamente letali che la notte, quando le cantava, faceva protestare i gatti, suicidare le falene.
… un paio di ragazzine non del tutto informi dal pelo biondo, il completo ginnico rosa confetto e il comportamento turbomestruale di chi, essendosi trovata un ordigno vulvico tra le gambe, non sa bene cosa farne e nel dubbio stronzeggia oppure piange.
Qualche volta chiedeva un temperino, anche se non aveva la matita, ma lo diceva con una voce così handicappata dalla tensione che la ragazza gli rispondeva «le dodici meno un quarto», e lui, ciucco di piacere, correva a casa a piangere e a mungersi il pube in stile destrorso, mancino, podalico, contorsionistico.
… in fondo aveva sempre avuto l’autostima di un cassonetto
L’autobus, senza numero né targa, passava di rado e a orari menefreghistici: due volte al giorno durante l’anno scolastico, e d’estate più o meno a scadenza mestruale, cioè una volta al mese e d’umore omicida.
… se fosse arrivato qualcuno, si sarebbe interrato, scavandosi una tana a craniate.
Finita la spremuta al gusto di sarcoma e plutonio, Sputacchiera vinse…
… volpi piallate in superstrada
… bibita al gusto d’epatite
Chi è così facile al riso da trovare persino brillanti trovate del genere? Non che io sia un esteta dell’umorismo particolarmente esigente: rido di gusto anche quando le persone cadono o gli animali fanno cose buffe. Ma se è vero che l’ironia è indice di intelligenza, allora è altrettanto vero che essa nasce dall’esercizio di quella intelligenza. In altre parole, non si dà ironia senza acume; ma è lecito, anzi profondamente interessante, trovo, sperimentare ironia senza risate. Le boutade di Ravasio, di cui ho fatto un breve elenco, hanno invece l’aria di voler strappare al lettore anche solo a una smorfia divertita, quasi per forza. E tuttavia producono in me una rassegnata insofferenza, che, mentre leggo, somatizzo in uno sbuffo o in un’alzata di sopracciglia, per poi andare oltre.
Accanto a questo ci sono passi del romanzo riguardo ai quali non ho capito se siano rimanenze di una revisione malfatta (e, nel caso, per un libretto di 100 pagine qualche attenzione in più era d’obbligo), oppure se sia io, con tutto l’ingombro dei miei limiti, a non capirli.
Per esempio in:
Nonostante l’esplosione polmonare e il sudore sorgivo, che lo gavettonava dalla testa ai piedi, Sputacchiera superò, al doppio della velocità […]: l’onnisciente vecchia al balcone ecc.
che cosa significa “al doppio della velocità”? Qual è la misura di partenza? Qual è il termine del paragone? Quale numero dovrei raddoppiare per avere un’idea di quanto valga questo “doppio”?
Ma qualcosa mi sfugge anche nei calcoli che portano a dire:
Dormì poco, s’addormentò alle dieci del mattino e si svegliò alle otto, sempre del mattino, per un totale di meno due ore di sonno.
E pure nel conteggio in:
inviò ad Amelia un unico monosillabico sms:
Sono vergine, ma ti amo
E anche nel senso della precisazione:
con le gambe pubicamente aperte
Sì, lo so, dettagli. Che vuoi che sia. Si capisce lo stesso.
Ma in un’opera sulla quale un editore ha deciso di investire, plaudita dalla critica e riconosciuta da premi importanti, proprio il dettaglio dovrebbe essere oggetto di giudizio. Perciò…
Sotto il segno dello Sputacchiera
Insomma, che lo Sputacchiera non abbia sollecitato le mie corde lo si è capito. È una lettura che ha il pregio dell’agilità ma non quello della grazia: si arriva al fondo un po’ provati dallo sforzo climatico di impostare un crescendo che culmini con la rivelazione finale. Una svolta ahimè deludente, perché povera di prodromi e incardinata su un personaggio, il padre, di cui ci si dimentica alla velocità della luce, nominato di quando in quando come figura antagonista dello Sputacchiera, il quale proprio per questo evita di avere a che fare con lui fino all’ultimo. E allora prendo atto della conclusione con leggera perplessità, la accetto.
Riflettendo sull’intero romanzo, sulla sua amalgama di intenzioni, forma e sostanza – che qui separiamo per puro esercizio di analisi – mi trovo a pensare che nel suo conato generazionale assomigli più che altro a un oroscopo: un po’ vago, un po’ ammiccante, un po’ tagliato su misura perché qualunque trentenne vi possa rintracciare almeno un aspetto della propria vita.
Nel complesso lo Sputacchiera non convince. L’ironia e la “brillantezza” che l’autore prova a infondere nello stile sono forse il maggior punto di forza del romanzo, ma la riuscita è modesta. L’inconsistenza dell’intreccio di certo non soccorre e la posa di impegnata leggerezza fa sorridere; non, tuttavia, per le ragioni che vorrebbe l’opera.
Ciononostante, a Ravasio riconosco talento. In questa prova di sicuro non è stato gestito al meglio, ma c’è, e spero cresca, si affini e si lasci dietro certe maniere un po’ ingenue. Anche la scala delle aspirazioni è forse da ridimensionare: esordire con una “autobiografia generazionale” vera e compiuta è un passo precoce, e infatti non riesce. Confido però che in futuro l’autore troverà terreni più alla sua portata, e chissà che un giorno diventi davvero interprete di una generazione.
Resto a guardare.