La manomissione
delle parole
Parole buone, parole cattive
Molte parole, a forza di non esprimere nulla – come ineffabile, indicibile, ecc. – finirono a voler dire qualche cosa. Viceversa, altre, che significano molto – per il troppo uso perdettero ogni valore. E così fu di molti vizi e di molte virtù.[1]
Con tanta chiarezza Carlo Dossi descrive l’esito infausto dell’abuso delle parole: talvolta generativo, ma di significati piatti, convenzionali, stereotipati a partire da parole vaghe; talvolta invece paralizzante e prosciugatore di senso. Di questo fenomeno si occupa, in buona sostanza, anche il libro di Carofiglio di cui voglio parlare in questo pezzo e dal quale voglio prendere spunto per qualche riflessione.
Comincerò con una glossa di natura personale: mi piacciono le etimologie e i giochi di colore prodotti dalle stratificazioni dei significati di una singola parola, che – come i sedimenti distinguono i componenti minerali di una roccia – rendono la ragione non solo morfologica, ma soprattutto concettuale, e quindi d’uso, che a tale parola soggiace. Ho quindi ammirato il titolo: La manomissione delle parole.
Manomettere, dal latino manu + mittere, significa alla lettera “mandare via con la mano”[2] e nel mondo latino indicava la liberazione di uno schiavo da parte del padrone, che, davanti al pretore, recitava al futuro liberto la formula «Vade quo vis» (Va’ dove vuoi), accompagnata da un gesto di allontanamento con la mano, per l’appunto. L’assonanza tra il latino mittere (mandare) e l’italiano mettere (porre) ha conferito a manomettere la nuova accezione di “mettere mano” a qualcosa, cioè manipolarla per cambiarne la natura, oppure, in senso deteriore, corromperla.
Su un doppio livello semantico si regge dunque il saggio di Carofiglio. Si direbbe quasi un caso di enantiosemia[3]: guastare le parole oppure liberarle dalla schiavitù delle convenzioni verbali. A seconda dell’approccio, ne scaturisce un beneficio o un vulnus per la società. Infatti le parole, di per sé, non hanno qualità: non sono cioè intrinsecamente buone o cattive; piuttosto, in quano astrazioni, indicano o implicano qualcosa di positivo o negativo. Ma anche questa differenza non è da accogliere in maniera assoluta e manichea, perché c’è sempre un dettaglio imprescindibile che tuttavia sfugge a molti: il contesto.
Un esempio? La parola negro. Di derivazione dotta dal latino nigrum (accusativo di niger), il retaggio coloniale e poi le derive razziste del Novecento hanno caricato pesantemente questa parola di una forte accezione dispregiativa. Si tratta quindi, com’è ovvio, di un insulto razzista, se rivolto da un bianco a un nero. Tra i membri delle comunità afroamericane dei grandi centri urbani statunitensi, invece, nigga fa parte del gergo colloquiale ed è usata in maniera amichevole o scherzosa. Attenzione, però: chi è fuori da quel preciso contesto sociale non può farne uso allo stesso modo.
Il peso e il valore delle parole sono quindi determinati dal contesto. A sua volta, il contesto è determinato da una sorta di patto sociale, un decalogo di regole scritte (le leggi) e non scritte (i princìpi elementari della convivenza civile) che tutti i membri di un gruppo accettano per il solo fatto di far parte di tale gruppo.
L’accordo più alto al quale tutti aderiamo o dovremmo aspirare ad aderire, poi, è quello democratico; ed è l’uso delle parole proprio all’interno della nostra collettività democratica l’oggetto di indagine della Manomissione delle parole.
Qualità e quantità
L’assunto di base è che la libertà delle parole e del loro uso sta al centro di un sistema democratico. “Libertà d’uso” non è però “uso indiscriminato”, bensì è un concetto molto vicino a quello di parresia, letteralmente il poter “dire tutto” ma aderendo alla verità o quantomeno alla buona fede di esprimere, pur senza filtri, tutto ciò che riteniamo vero. Sotteso a questo, vi è l’esercizio di senso civico e morale da parte di ciascuno di noi.
D’altronde, per praticare la democrazia, e più in generale per seguire la legge morale, è necessario padroneggiare un certo numero di parole, il più elevato possibile. Questo perché la convivenza all’interno di un sistema democratico esige il rispetto delle pluralità. Ma come facciamo a riconoscerle, a studiarle, comprenderle e apprezzarle, se il nostro vocabolario è limitato?
La capacità di esprimersi attraverso le parole non corrisponde necessariamente alla capacità di elaborare emozioni e sentimenti, né alla capacità di costruire princìpi morali. Allo stesso tempo però un limitato spettro linguistico che impedisca di verbalizzare, per esempio, un disagio (interiore, sociale, politico che sia), porta con maggiore frequenza ad affrontare tale disagio in modo negativo, con aggressività o persino violenza.
Nel primo capitolo, Carofiglio cita Zagrebelsky; io voglio fargli eco riportando qui il passo che ha scelto. Dice:
Il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell’uguaglianza delle possibilità. Poche parole e poche idee, poche possibilità e poca democrazia; più sono le parole che si conoscono, più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica.
È un concetto valido in ogni ambito di relazione. Non vale invece il principio generale secondo cui sarebbe sempre preferibile la qualità alla quantità: quando si tratta delle parole, entrambe queste direttrici andrebbero idealmente assecondate allo stesso modo. Occorre dunque lavorare su due assi: uno orizzontale, di ricerca e raccolta, di “collezione” di parole; e uno verticale, di studio e approfondimento. È bene infatti conoscere i significati delle parole, ma anche imparare a riconoscerne i contesti d’uso, sviluppare e affinare la sensibilità verso la scelta della parola giusta nel giusto contesto, nonché verso i rapporti che intercorrono tra le parole all’interno delle le frasi e tra le frasi all’interno dei periodi, ovvero approfondire la sintassi, per saper costruire un discorso coerente.
Una pluralità di parole permette l’accesso a una pluralità di argomenti, e questi, a loro volta, danno il passo verso orizzonti nuovi di sviluppo intellettuale, sia personale, sia comunitario. Ma è pur vero che siamo esseri limitati, non in grado gestire una molteplicità troppo grande: ed ecco che tra tutte le parole che conosciamo dobbiamo fare una cernita, selezionarne alcune, le più efficaci al nostro scopo, cioè dunque esercitare la nostra capacità critica. Non per altro le parole “scelta” e “critica” rimandano alla stessa sfera semantica. Abbiamo così:
SCEGLIERE, dal latino ex + legĕre (o ex + eligĕre)
dove legĕre è filtrato direttamente dal greco légo (λέγω), e significa “cogliere” o “raccogliere”[4]; in alternativa abbiamo eligĕre, che significa “preferire”. Infine c’è il prefisso ex che ha l’accezione di “fuori”. Quindi scegliere indica l’azione di tirare fuori qualcosa da un insieme, distinguerlo da una moltitudine.
Analogamente:
CRITICA, dal greco krìno (κρίνω)
che significa “distinguere”, quindi, di nuovo, estrapolare dal generale il particolare.
Agire con le parole
Occorre però stare doppiamente attenti alle parole. Se da un lato la conoscenza e lo studio della lingua ampliano il nostro universo personale, dall’altro accade spesso che le parole non si limitino alla sola rappresentazione della realtà, ma siano atti concreti, le cui conseguenze, altrettanto concrete, ricadranno su di noi e sugli altri. Parole come “vado”, “guardo” o “mangio” indicano azioni, ma non costituiscono tali azioni. Posso dire “vado” e non muovermi; posso dire “guardo” e tenere gli occhi chiusi; posso dire “mangio” e restare a digiuno… In questi casi avrò soltanto fatto affermazioni false, e proprio qui sta il punto: alla maggior parte delle parole, in quanto semplici descrizioni di uno stato di cose, si possono applicare le nozioni di vero e di falso, valutare cioè se quello che esprimono corrisponda o meno a ciò che accade davvero. Esistono invece parole refrattarie a qualsiasi criterio di veridicità, i cosiddetti verbi performativi, che non si limitano a indicare uno stato di cose, ma lo agiscono con la semplice enunciazione. “Giuro”, “prometto” e “nego” fanno parte di questa categoria: non posso dire «giuro» e non giurare, ma come abbiamo visto posso dire “vado” e non fare un passo.
Se dunque «le parole sono anche atti», scrive Carofiglio, il loro uso «implica (dovrebbe implicare) responsabilità»[5], la responsabilità di «combattere contro il cattivo linguaggio»[6]. Sì, perché l’uso delle parole non è certo scevro di vizi come «la sciatteria, la banalizzazione, l’uso meccanico della lingua»[7], e però
esiste […] un fenomeno più grave, inquietante e pericoloso: un processo patologico di vera e propria conversione del linguaggio all’ideologia dominante. Un processo che si realizza attraverso l’occupazione della lingua, la manipolazione e l’abusivo impossessamento di parole chiave del lessico politico e civile.[8]
L’altro Ventennio
Tale fenomeno trova esempi illustri nel periodo berlusconiano, tragicomico anche per lo stato di salute della nostra lingua, che conosce un deciso peggioramento. Facciamo qualche esempio. Dal 1994 in qua non possiamo più dire “forza Italia” durante una competizione sportiva senza evocare il partito con cui Silvio Berlusconi è entrato in politica. “Forza Italia” è una locuzione che in teoria appartiene a tutti gli italiani, un grido di entusiasmo che dovrebbe accomunarci; eppure è innegabile che una simile strategia commerciale (non saprei come altro definirla: “comunicativa” è un aggettivo che non rende la completezza di una simile operazione) abbia cambiato le carte in tavola: ancor oggi che il ventennio di Berlusconi è finito (ma non il berlusconismo, per lo meno culturale), dire “forza Italia” è una coppa di miele per chi vede le cose in un certo modo e una coppa di fiele per chi le vede in un altro.
Un altro esempio? “Libertà”. Una parola fondamentale del lessico democratico, della quale Berlusconi ha avuto l’arroganza di appropriarsi, tentando di sottrarla alla comunità e di polarizzarla: la libertà rientra spesso nel vocabolario del Cavaliere, che se ne fa paladino in maniera del tutto arbitraria e strumentale. Non a caso, nel 1994, nasce la coalizione di centro-destra Polo delle Libertà (al plurale), capeggiata da Forza Italia. Nel 2000 è la volta della Casa della Libertà, dove, con ancor meno pudore, la libertà diventa una sola, quella ecumenica, universale. Nel 2009 arriva il Popolo della Libertà, predecessore del ritorno a Forza Italia. È chiaro allora come questo valore fondante della nostra Costituzione venga assediato da una fazione che cerca di manomettere il significato della parola che lo rappresenta dandole un’accezione identitaria di stampo partitico: “la libertà è propria della nostra gente; gli altri, con tutta evidenza, non la vogliono o ce la vogliono togliere”.
Lo stesso gioco di specchi è messo in piedi in tempi più recenti a spese di un’altra parola di tutti, almeno sulla carta, ma nei fatti predata dal gergo tribale dell’estrema destra oggi al governo: “patriota”. Fratelli d’Italia (che già dal nome mette la propria bandiera sul il primo verso dell’Inno degli Italiani, come se appartenesse solo ad alcuni italiani) si definisce nel 2021 “il movimento dei patrioti”, snaturando il significato del termine e radicalizzandolo. Patriottismo non è più il sentimento di chi ama la patria e si prodiga per darle (e quindi riceverne) il meglio, ma si vuole che ora appartenga a una precisa parte politica, anzi, vi si identifichi. Se Fratelli d’Italia è il partito dei patrioti, patriota sarà colui che vi milita, lo vota o anche solo simpatizza per esso, ma non altri.
Prima l’italyano
Dunque, se le parole fanno le cose – possono cioè modificare la realtà –, e se chi detiene il potere si appropria delle parole, allora chi governa sarà in grado di modificare la realtà a suo piacimento.
I totalitarismi, nemici per definizione della democrazia, fanno della lingua del potere il proprio strumento di gestione più efficace. Più degli armamenti, delle leve forzate, delle liste di proscrizione, dei confini, delle segregazioni nei ghetti prima e nei campi di concentramento poi, sono le parole il vero grimaldello per il consenso e soprattutto per il controllo. Ma la lingua delle dittature totalitarie non è produttiva, anzi, lavora in senso contrario, a togliere, semplificare, appiattire; impone slogan, afferma con estrema perentorietà, non si lascia scalfire dal dubbio, è immune alla critica e «impermeabile all’interrogazione», scrive Carofiglio citando Toni Morrison, e, aggiungerei io, è impareggiabile nel castrarsi da sola: basti osservare il tentativo del regime fascista di contenere l’uso dei dialetti a favore della «purezza dell’idioma patrio», ma anche di respingere ogni forestierismo, con risultati che sarebbero esilaranti, se solo scaturissero da un esperimento d’avanguardia e non dal momento più buio della nostra storia. Così alla pubblica amministrazione del regime è vietato usare il lei di cortesia, di supposta origine iberica; il voi, di virile (e fantasiosa) tradizione romana è decisamente preferibile, tanto da essere imposto. Il bordeaux diventa un più italico “color barolo”, il dessert è reso con la goffa locuzione “fin di pasto”, il teutonico krapfen si trasforma in una “bombola”, il pied-à-terre in un oscuro “fuggicasa”, la brioche in una “brioscia”, il menù in una “lista” e i cotillons diventano “cotiglioni”…
Come può un’operazione del genere, imposta dall’alto e di una simile modestia culturale, portare beneficio alla comunità dei parlanti e sopravvivere alla prova del tempo? Infatti, non può.
Ma certi cotiglioni non imparano mai.
Prova ne sia la proposta di legge presentata dal deputato di FdI Rampelli già nel maggio 2018, e riemersa dal rumine di partito a dicembre 2022. Il testo del progetto è rimasto inalterato per quasi cinque anni[9], salvo qualche variazione lessicale (per esempio, dal neutro “Paese” si passa a un più marcato “Nazione”), e ha ancora in animo di imporre l’italiano e bandire i forestierismi da pubblica amministrazione, enti privati e scuole. Pena, multe da 5000 a 100.000 euro.
L’introduzione dell’atto parlamentare recita così (passim):
La lingua e la letteratura italiane, che occupano il quarto posto tra quelle più studiate al mondo, costituiscono uno straordinario apporto dato dall’Italia alla cultura mondiale: di questo nostro patrimonio, che abbiamo ricevuto in eredità dal nostro passato e dalla nostra storia, dobbiamo essere consapevoli…
Il sillogismo che ho composto a inizio paragrafo illumina come un faro piazzato la prima frase del passo citato qui sopra: “l’italiano è la quarta lingua più studiata del mondo”. Suona bene, è appagante, finalmente il giusto riconoscimento per la nostra grandezza culturale, «e tutto grazie a noi!» sembra dire. Se non fosse che il dato riportato da Rampelli è inesatto: la storiella circola da vent’anni, e deriva dal fraintendimento di un’indagine commissionata nel 2001 dal ministero degli Esteri al Dipartimento di studi linguistici e letterari dell’Università La Sapienza di Roma, intitolata Italiano 2000. I pubblici e le motivazioni dell’italiano diffuso fra stranieri[10]. Lo studio evidenzia come (più di due decenni fa) l’italiano fosse sì al quarto posto, ma non in valore assoluto nel mondo, bensì come seconda lingua straniera scelta dagli studenti non italofoni, compresi, va detto, nel solo spettro di indagine dello studio, cioè 75 Istituti Italiani di Cultura su 90 interrogati.
Nel 2010 lo studio viene ripetuto, stavolta però «fra le novità introdotte nella rilevazione, la principale è stata quella di non limitare l’inchiesta agli Istituti Italiani di Cultura[11], ma di estenderla ai lettori ministeriali attivi nelle università straniere e ai loro studenti»[12]. Emerge così che nell’arco di dieci anni il numero dei corsi d’italiano è quasi raddoppiato. Ma ancora una volta il campione non è sufficiente per affermare che a livello mondiale l’italiano sia la quarta lingua più studiata. Perché? Perché l’indagine non rintraccia tutti gli studenti di tutte le scuole pubbliche e private del pianeta che comprendano nella loro offerta formativa l’insegnamento della nostra lingua. Un lavoraccio, ma se la base del confronto vuol essere il mondo, andrebbe fatto.
Nel 2018, Eurostat dà l’italiano al sesto posto tra le seconde scelte in Europa (al 2,3%), dopo il russo (2,4%) e a notevole distanza dal quarto posto spagnolo (17,5%).
Di che cosa stiamo parlando?
Siamo ancora fermi a una retorica passatista, al vantarci di vecchie glorie che ci assolvono dal chiederci, oggi, che cosa produciamo, se siamo in grado di creare qualcosa di nuovo e altrettanto dirompente con la nostra lingua, con le parole, qualcosa che influenzerà la cultura e la coscienza civile dei nostri discendenti nei secoli a venire.
Ma, prosegue Rampelli:
Un patrimonio, infatti, non basta solo averlo, ma occorre saperne cogliere l’effettivo significato e valorizzarlo convenientemente.
E grazie tante…
Intendiamoci: è un’affermazione piena di verità e di buonsenso, ma ha anche un sapore preconfezionato, è generica, ovvia, buttata lì perché chi la senta annuisca con aria di compiacimento, e proprio per questo è suscettibile di interpretazioni sbagliate quando non faziose. Chi ha già dimenticato che il ministro della Cultura Sangiuliano ritiene Dante il fondatore del pensiero politico di destra? Un’appropriazione culturale sconclusionata, indegna di chi abbia anche solo finito la scuola dell’obbligo, ma d’altronde chi la cultura non ce l’ha, cerca di rubarla al prossimo; o tuttalpiù, se è modesto, ammette di essere ignorante, come il ministro dell’Agricoltura Lollobrigida. (Quasi che la cosa, a dispetto o a spregio della sua carica istituzionale, fosse lontanamente accettabile.)
L’uso sempre più frequente di termini in inglese o derivanti dal linguaggio digitale è diventato una prassi comunicativa che, lungi dall’arricchire il nostro patrimonio linguistico, lo immiserisce e lo mortifica.
Nì… Il problema dell’erosione dell’italiano a vantaggio di inglesismi superflui c’è ed è molto sentito dalla comunità dei linguisti già da diverso tempo. Il punto però non è rifiutare l’inglese a prescindere (o sanzionarlo), ma monitorare l’introduzione di nuovi anglicismi in sostituzione di parole italiane non solo omologhe, ma perfettamente radicate nell’uso. La questione però non è semplice da affrontare, benché meno da dirimere con un decreto: chi direbbe mai “puntatore” al posto di mouse? “Calcolatore” invece di computer? “Tavoletta” invece di tablet? “Telefono intelligente” invece di smartphone? E che dire di online, Internet, spam, app, bed&breakfast? O delle taglie dei vestiti (S, M, L, XL)? Eppure i corrispettivi italiani esistono. Tuttavia, oltre a suonare spesso ridicoli, non hanno l’immediatezza comunicativa dell’inglese, o peggio risultano incomprensibili: cosa pensereste se vi chiedessero di pranzare in un “Tutto-quello-che-riesci-mangiare”?
Diverso il caso di altre parole, magari non tecniche, di uso più prosaico, sostituite per inerzia e non per particolari esigenze comunicative, come per esempio “finesettimana”, a cui spesso e inutilmente preferiamo weekend; o “riunione” che sostituiamo con briefing, “chiamata” con call, “allenamento” con training, “passo” con step, “aspetto” con look, “vestiario” con outfit, “luogo” con location e via dicendo.
“Ma in Francia parlano solo francese da anni”, si lagnano gli estensori della proposta di legge. Sì, in effetti in Francia “computer” è reso con un più gallico ordinateur e “mouse” con souris (letteralmente “topo”. Proviamo ora noi a chiedere un “topo” al commesso di Unieuro…).
Il fatto è che la storia linguistica francese è leggermente diversa dalla nostra: per esempio, il francese standard nasce a Parigi, principale centro culturale del Paese, e da lì si irradia su tutto il territorio nazionale. Oltre a ciò, è manifesto come sia una lingua molto dinamica e produttiva. L’italiano nasce invece come lingua letteraria da uno dei numerosi volgari regionali, il toscano, ma per secoli resta appunto la lingua della letteratura, mentre fino agli anni Cinquanta o Sessanta del Novecento la gente continua a parlare quasi esclusivamente il proprio vernacolo (o dialetto). E questa cristallizzazione letteraria della lingua è la ragione per cui oggi, a sette secoli di distanza, possiamo leggere Dante senza l’ausilio di un vocabolario o di note traduttive. A patto di avere un adeguato bagaglio lessicale, s’intende.
Tornando alla proposta di Rampelli, d’un tratto, il capolavoro:
Chi parla solo italiano oggi rischia il flop dell’incomunicabilità.
Riflettiamo: quante alternative ci sono per l’inglesismo onomatopeico flop? Tante, tantissime: senza neanche scomodare un vocabolario, mi vengono in mente insuccesso, fiasco, fallimento, rotta, caduta, tonfo, crollo, disfatta, rovina, sconfitta, tracollo… Forse non tutte calzerebbero al contesto, ma qui si torna a quanto detto all’inizio: conoscere più parole possibili per poi scegliere quella più adatta. Per elementare coerenza, poi, nella proposta di rinverdire l’autarchia linguistica dell’italiano, flop non può trovare asilo, nemmeno se fosse una provocazione, che in tal caso sarebbe doppiamente inadatta, dato il contesto istituzionale. Ma che dire allora del ministero del Made in Italy, ribattezzato così dallo stesso governo che avanza questa proposta? O dell’ancora più recente liceo del Made in Italy? O del piagnisteo dell’attuale capo del governo, che da buon underdog, nonostante mille difficoltà e pregiudizi ce l’ha fatta lo stesso? Che dire, ancora, del VinItaly, orgoglio del governatore del Veneto Zaia, o dell’Eataly di Farinetti… Nessun commento intorno questi sfregi alla patria lingua di ferro che dice “Londra”, “Lione”, “Parigi”, “Lisbona” e “Francoforte”, ma scivola in maniera così fantozziana sulle bellezze e sulle bontà d’Italy. Ma tant’è. Let’s open to meraviglia.
Error, contitio, votum, cognatio, crimen…
Decisamente più sveglia dell’attuale maggioranza di governo è una casta antichissima, baronale, quasi cultista: quella dei burocrati. La burocrazia è una distopia compiuta, il governo degli uffici, la dittatura delle scartoffie, l’impero dell’“inutilismo” linguistico.
Nel suo Italiani scritti il compianto Luca Serianni osservava:
Il termine burocrazia, di origine francese, è fin dall’origine, marcato negativamente: quella degli uffici (in francese bureaux) non sarebbe una legittima autorità, ma uno “strapotere”. […] Questa sfumatura sfavorevole accompagna ancora oggi la parola burocrazia […] e colpisce in pieno anche il suo versante espressivo: linguaggio burocratico è sinonimo di complicazione inutile, quasi concepita espressamente per ostacolare l’uomo della strada, rendendogli più spiacevoli i suoi doveri di contribuente e più difficili da conseguire i suoi diritti di cittadino.
Luca Serianni, Italiani scritti, Il Mulino, Bologna, 2003, III ed. 2012, p. 140.
Complicazione, dunque: nemica giurata della complessità. Se “complesso” è qualcosa di intrecciato, che al suo interno crea nessi e legami fra le parti, arricchendo il dibattito, la ricerca, il patrimonio culturale di spunti, significati e argomentazioni nuove, “complicato” è ciò che si ripiega su sé stesso, che si rende illeggibile, ostico e impervio quasi per il gusto farlo. Non a caso una complicazione non è mai accolta con gioia, mentre la complessità è generalmente considerata un pregio.
Ebbene, la lingua dei burocrati è a tutti gli effetti una lingua di potere, torbida e opposta al linguaggio piano della gente comune, l’antilingua, la definiva Calvino in un noto articolo apparso sul Giorno del 3 febbraio 1965.
Caratteristica principale dell’antilingua è quello che definirei il «terrore semantico», cioè la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per sé stesso un significato […]. Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per sé stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente.
Italo Calvino, L’antilingua, in Una pietra sopra, Mondadori, Milano, 1995, p. 150
Ma come si può sostenere un sistema democratico, che si regge sulla molteplicità delle parole, se se ne prova terrore? Come si può pensare che la comunicazione e, di riflesso, la possibilità di arricchire il proprio bagaglio linguistico in qualità e quantità abbiano successo, se esitare non significa più “indugiare”, ma “concludere” o “rispondere”; se fare o svolgere vengono sostituiti da “espletare” o “effettuare”; se allegare si traduce in “compiegare”; se insieme o d’accordo mutano in “di concerto con”; se per trasfigura in un detestabile e vetusto “all’uopo”?
Sono brutture che filtrano anche nel linguaggio comune, distorcendolo e di fatto impoverendolo: se da una parte un testo tradotto in “burocratese” acquista volume, arrivando anche a raddoppiare il numero di parole che lo compongono, dall’altra a questo incremento non corrispondono maggiore articolazione né maggiore profondità di argomentazioni e significati. Si tratta a tutti gli effetti di un’inflazione linguistica: più parole in circolazione, meno potere di generare e trasmettere senso. Un bello spreco, vero?
*
La manomissione delle parole esce nell’ormai lontano 2010, e anche se nel 2021 è uscita una riedizione aggiornata per Feltrinelli dal titolo La nuova manomissione delle parole, la prima edizione, che ho letto, non è invecchiata di un giorno. La nuova offrirà sicuramente spunti ulteriori.
Sia come sia, il libro è un ottimo punto di partenza per imbastire la propria riflessione sulle parole, su quali e quante ne conosciamo, sull’uso che ne facciamo e su quello che ne fanno gli altri intorno a noi. Se ci sembra di sentire sempre le stesse cose o di ripeterci in continuazione, dovremmo prestare attenzione a ciò che ci circonda. Noteremmo che è in corso, ben avviato da tempo, un generale impoverimento del nostro lessico, ed è probabile che anche noi lo stiamo subendo. Dice Serianni su la Repubblica: un bambino italofono inizia la scuola elementare con un bagaglio di circa duemila parole, che non a caso compongono la sezione delle parole fondamentali del Nuovo Vocabolario di Base della lingua italiana, cioè quelle parole che costituiscono il 90% della nostra comunicazione quotidiana. Accade con frequenza sempre maggiore che una volta finite le superiori, questo bambino, ormai diventato adulto, non ne conosca molte di più e perciò fatichi non solo a esprimersi con proprietà, ma anche per esempio a comprendere l’editoriale di un quotidiano. Ed è un problema su cui vale la pena interrogarsi, individualmente ma anche in rapporto alla società in cui viviamo e che contribuiamo a plasmare, perché – sempre Serianni – «conoscere la propria lingua […] significa padronanza del ragionamento e delle risorse espressive più adeguate per illustrarlo». O, come chiosa Carofiglio: «L’abbondanza, la ricchezza delle parole è […] condizione di dominio sul reale»[13]. Se manca tale condizione, non si può essere padroni né interpreti del proprio tempo, ed è un rischio troppo serio da prendere alla leggera.
Consigli per avventurieri letterari
Un altro buon libro sulle parole e i loro significati, oltre a quelli citati in questo pezzo, è il volumetto – agilissimo – di Marco Balzano intitolato morettianamente Le parole sono importanti. Dove nascono e cosa raccontano, Einaudi, Torino, 2019. Balzano seleziona dieci parole dall’importante significato esistenziale, sociale e civile, e ne analizza l’etimologia, ne ricostruisce l’origine e ne esamina il ruolo nel nostro parlare e scrivere quotidiano.
***
Note
[1] Carlo Dossi, Note azzurre, Adelphi, Milano, 1964.
[2] Mittere significa infatti “mandare”, “inviare”, da cui per esempio “missione” o “messa”, quest’ultima dalla locuzione Ite, missa est, che letteralmente potremmo tradurre con “Andate, [la preghiera] è stata inviata [al Signore]”, formula oggi resa con “La messa è finita, andate in pace”.
[3] Dal greco ἐναντίος (enantìos), “contrario”, e σῆμα (séma) “significato” indica la proprietà di una parola di esprimere due significati appunto contrari. Un esempio comune è la parola “tirare”, che significa sia “trarre a sé”, “trascinare” (tirare la corda), sia “lanciare”, “scagliare”, “gettare” (tirare un sasso).
[4] Da questo verbo deriva anche l’odierno “leggere”, che molto ci compete: legere oculis, cioè “raccogliere [le parole] con gli occhi”.
[5] Gianrico Carofiglio, La manomissione delle parole, Bur, Milano, 2010, p. 24.
[6] Ibid.
[7] Ivi, p. 25.
[8] Ibid.
[9] La lista degli estensori che figura sul testo del 2022 è curiosamente più breve e molto diversa da quella del 2018. Eppure il documento è lo stesso. Esisterà il plagio per le pdl?
[10] T. De Mauro, M. Vedovelli, M. Barni, L. Miraglia, Italiano 2000. I pubblici e le motivazioni dell’italiano diffuso
tra stranieri, Roma, Bulzoni, 2002.
[11] Che stavolta rispondono in 89 su 90.
[12] C. Giovanardi, P. Trifone, «L’inchiesta “Italiano 2010”. Anteprima di alcuni risultati», ItalianoLinguaDue n. 2/2010.
[13] Gianrico Carofiglio, La manomissione delle parole, cit., p. 21.