Kotoba
Sull’esigenza di dare un nome agli spazi che inventiamo
I nomi sono invenzioni potenti.
Non voglio addentrarmi qui in digressioni su prerogative adamitiche o sproloqui dal tenore astrologico, a cui in ogni caso non credo.
Dirò solo che i nomi sono invenzioni potenti perché oltre all’ovvia capacità di circoscrivere e mettere a fuoco la realtà, dicono più su di noi che li dispensiamo piuttosto che sulle cose che nominiamo.
Dicono di noi la maniera in cui vediamo il mondo, l’indole con cui ne riceviamo gli impulsi e il modo in cui verosimilmente risponderemo; dicono di noi gli auspici, le aspirazioni, il gusto, la discrezione nella scelta delle parole, l’ampiezza del nostro vocabolario, gli interessi culturali, le intenzioni…
Per questo ho sentito l’esigenza di dare un nuovo nome a questo spazio. Potrebbe sembrare un gesto di pura estetica, massimamente personale e perciò trascurabile da chiunque all’infuori di me. Di certo in parte è così; ma nasce anche dal bisogno di dare un’impronta di volontà a una scelta che a suo tempo forse non è stata davvero tale e che aveva un significato assai rarefatto.
Cercherò di spiegarmi.
Questo blog si chiamava “Bambùfantasma. Lo spirito delle lettere”. Il gioco di parole è facile e non merita commenti. “Bambùfantasma”, invece, forse sì. Ma sarà deludente.
Quando studiavo Editoria, durante un corso chiesero a tutti noi della classe di postare su Twitter la recensione di un romanzo a scelta tra quelli nella dozzina del Premio Strega. Non saprei dire se fossi il solo, di certo ero in netta minoranza, ma non esistevo su Twitter, e dopo quell’unico post ho proseguito nella mia latitanza. A prescindere da ciò, quell’incursione avrebbe richiesto l’invenzione di un nome utente. Per ragioni narrative, in quel periodo contemplavo spesso nella mente l’immagine della mia pianura in autunno: nebbia fitta, grigiore diffuso, i fossi scanditi da nudi alberi di gelso, evanescenti come fantasmi nella caligine. Da cui trassi “Gelsofantasma”, maldestro embrione di un nome più accattivante, ma ugualmente povero di significato: “Bambùfantasma” appunto, dove una pianta che amo, il bambù, sostituiva un più anonimo – almeno per me – albero di more.
Tutto qui il processo creativo.
L’ho detto che era deludente.
Insomma, dopo anni di oblio, nel 2021 mi ritrovo ad aver bisogno di un nome per il blog letterario che voglio inaugurare, ed ecco che il vecchio username di Twitter torna comodo. Ha ancora una patina di fascino, ai miei occhi, ma in verità è solo una contorsione, una forzatura.
Tuttavia, nonostante il nostro tempo, in cui nessuno legge e la soglia dell’attenzione supera a fatica il minuto – e in ogni caso non arriva a due – questo blog ha accumulato una discreta anzianità e tiene un buon ritmo – almeno, buono per essere nutrito da un’unica persona che nel contempo fa una mezza dozzina di altre cose. Perciò ho deciso di dargli un nuovo nome che idealmente renda quanto ho descritto sopra, ma che insieme non appaia a me stesso come un recupero figlio di una mancanza di ispirazione.
Dopo numerosi elenchi mentali, brainstorming e rimugini notturni, ho scelto quindi una parola giapponese, lingua che ho corteggiato per anni e che da qualche tempo ho iniziato a studiare da autodidatta: kotoba (言葉).
Kotoba significa semplicemente “parola”, l’elemento comunicativo fondamentale che ci riguarda e ci accomuna tutti; e che, per quanto concerne me nello specifico, dà corpo alle mie passioni principali, al mio lavoro e ai miei studi.
Ma la parola di per sé, nuda, spoglia di un contesto, non significa niente. È una componente, sì cruciale, ma solo in virtù delle connessioni che sa creare. Come una foglia che da sola, lontana dal suo ramo, non ha ragion d’essere. Non a caso la parola kotoba è scritta con i kanji di “dire” (言) e di “foglia” (葉).
Dunque l’auspicio e il proposito sono che questo spazio sia, continui a essere, o perché no, lo diventi, un laboratorio, un luogo di meditazione e di studio, una risorsa, un punto di partenza o di passaggio, in ogni caso di arricchimento, da cui poter ricavare spunti di riflessione, occasioni di studio, prospettive nuove, nuovi angoli e profondità di lettura. Insomma, spero sia utile a chi leggerà così come è utile a me che scrivo.
Per concludere, qualche tempo fa avrei augurato buone letture a tutti, ma dato che non sempre l’esito di una lettura dipende dalla qualità del libro – ho letto libri molto significativi in momenti per me molto sbagliati, e mi sono limitato a detestarli senza averli capiti –, auguro a tutti quanti, anche a me stesso, non di riuscire a schivare le brutte letture o i brutti momenti, ma di saper trarre qualcosa da ogni circostanza che ci metta in mano un libro.
Alla prossima!