Est modus in rebus
Nel 1979, con clamoroso ritardo sulla prima edizione (Gallimard, 1942), esce anche in Italia Il partito preso delle cose di Francis Ponge. Trentuno frammenti in prosa, ma che poco conservano della dizione piana, diremmo narrativa, a beneficio di una lingua evocativa, musicale, eppure spoglia dei drappi del lirismo, nonché luminosa nella sua eloquenza priva di pedanteria. Nella sua impostazione a catalogo, il libello offre una teoria di fenomeni che si manifestano senza rispondere ad alcuna classificazione, esattamente come gli accadimenti ovvero le contingenze minime, quotidiane, anche forse banali, in cui tutti abbiamo l’occasione di imbatterci e su cui raramente ci soffermiamo. Ponge invece lo fa e con una lingua puntuale, esatta – dicevamo – perché le parole, prima ancora delle cose, sono il perno su cui ruota l’intera composizione, che si regge sulla tensione tra progressivo svuotamento del linguaggio (in senso sia pubblico sia privato) e l’insopprimibile esigenza di esprimersi pur senza strumenti.
Per capire questo aspetto basilare dell’opera di Ponge bisognerà dire che due eventi fondamentali nella vita dell’autore fanno da stimolo alla concezione, alla progettazione e alla stesura del Partito preso: la morte del padre, innanzitutto, occorsa quando Ponge ha appena diciassette anni. Il dolore per la perdita scatena in lui ciò che definirà drame de l’expression, che sfocerà nella dolorosa e liberatoria rage de l’expression, una rivolta privata contro il linguaggio e il suo uso comune ormai blando, vuoto, pertanto inadatto a esprimere alcunché. Il secondo svuotamento che Ponge rintraccia – quello pubblico – si manifesta a ridosso della Seconda guerra mondiale, quando il progetto del Partito preso è già avviato da anni e anzi presto concluso (1939). Gli anni della guerra, che la pubblicazione (1942) taglia di netto, costituiscono la seconda, drammatica obsolescenza dell’espressione, fagocitata e incancrenita dalla propaganda bellica (una su tutte quella tedesca, ma non solo, è chiaro), che scava le parole come un frutto molle e le svuota, o le stravolge.
Ponge, che dal 1941 prende parte alla Resistenza, con il suo scritto ne mette in piedi una seconda, letteraria stavolta, che ricerca l’esattezza scientifica dell’espressione, ma raggiunta attraverso la lente e il vocabolario dei poeti.
Quella del Partito preso è una fenomenologia minuta, preziosa e spesso inosservata, ma che aspetta nient’altro se non di essere vista con gli occhi di un fisiologo scrupoloso.
La candela
La notte a volte ravviva una pianta singolare, il cui bagliore scompone le camere ammobiliate in cespugli d’ombra.
La sua foglia d’oro si regge impassibile nel cavo di una colonnetta di alabastro attraverso un peduncolo nerissimo.
Le farfalle povere la assalgono preferendola alla luna troppo alta, che vaporizza i boschi. Ma subito bruciate o sfinite nella battaglia, tutte fremono sull’orlo di una frenesia vicina allo stupore.
Intanto la candela, con il vacillare dei chiarori sul libro nel brusco sprigionarsi dei fumi originari, incoraggia il lettore – poi si inclina sul piatto, e affoga nel suo alimento.
Contingenze, abbiamo detto poco fa, e a ragione: contingenza è ciò che accade per caso; o ancora, qualcosa che adesso c’è ma è transitorio e fra un giorno, un’ora o un minuto non ci sarà più. Nel concetto che questa parola esprime si annida la casualità del klinamen lucreziano (e prima ancora epicureo), cioè la naturale inclinazione degli atomi in virtù della quale, nella loro caduta (accidente, caso… tutto torna), si toccano vicendevolmente, aggregandosi e dando forma a ciò che esiste: contingenza (dal latino cum + tangere, “toccare insieme”) è dunque ciò che accade perché qualcosa prima è entrato in contatto con qualcos’altro.
Il pane
La superficie del pane è meravigliosa prima di tutto per l’impressione quasi panoramica che dà: come se si avesse a disposizione, sottomano, le Alpi, il Tauro, la cordigliera delle Ande.
Così dunque una massa amorfa in stato di eruzione fu introdotta per noi nel forno stellare, dove indurendo si è foggiata in valli, creste, ondulazioni, crepe… E tutti quei piani subito così nettamente articolati, quelle lastre sottili dove la luce allunga con cura i suoi fuochi, – senza uno sguardo per l’ignobile mollezza sottostante.
Quel flaccido e freddo sottosuolo che chiamano mollica ha il tessuto simile a quello delle spugne: foglie o fiori vi stanno come sorelle[1] siamesi saldate gomito a gomito tutte assieme. Quando il pane si rafferma, i fiori appassiscono e si restringono: si staccano allora gli uni dagli altri, e la massa si fa friabile…
Ma rompiamola: nella nostra bocca infatti il pane deve essere piuttosto oggetto di consumo che di riverenza.
Cosa è più quotidiano, scontato eppure vitale del pane? Forse l’acqua, e Ponge non dimentica di passarla al vaglio, «passiva e ostinata nel suo unico vizio: la gravità». Certo, ricorda l’autore, ogni cosa in ogni luogo del mondo obbedisce alla gravità, eppure l’acqua non solo rispetta la norma, ma vi si umilia: «liquido è per definizione ciò che preferisce ubbidire alla gravità piuttosto che mantenere la propria forma».
Di contro all’essere umano, che percorre una traiettoria centrifuga rispetto alla natura, i fenomeni naturali, le cose, sono le sole a rimanere ancorate a una legge, a una misura che le descriva: la gravità dell’acqua, si è detto, ma anche il ciclo delle stagioni che costringe gli alberi a un tempo e a una maniera prestabilita per rinverdire o cedere all’autunno («Nessuna libertà nell’infogliarsi…», ma soprattutto «Non si esce dagli alberi con mezzi di alberi»); o ancora la proporzione aurea della conchiglia, in perfetto equilibrio tra l’esterno e l’interno abitato dal mollusco, ciascuno in misura dell’altro, contro l’iperbolica sproporzione dell’umano che, nella grandezza delle sue opere, rinuncia scioccamente, forse per un capriccio dell’ego, alla vera perfezione.
[…]
I monumenti dell’uomo somigliano a pezzi del suo scheletro, o di qualsiasi scheletro, a grandi ossa scarnificate. Non evocano un abitante delle loro dimensioni. Le cattedrali più enormi non lasciano uscire che una folla informe di formiche, e anche la villa, il castello più sontuoso fatti per un uomo solo sono ancora paragonabili a un’arnia o a un formicaio dai numerosi scompartimenti piuttosto che a una conchiglia. Quando il signore esce dalla sua dimora, fa sicuramente meno impressione di quando il bernardo lascia intravvedere la sua pinza mostruosa dall’uscita del superbo cornetto che lo ospita.
[…]
Non so perché, mi augurerei che l’uomo, invece di tanti enormi monumenti che testimoniano soltanto la grottesca disproporzione tra la sua immaginazione e il suo corpo […] scolpisse delle sorte di nicchie, di conchiglie a sua misura, cose molto diverse dalla propria forma di mollusco ma tuttavia ad essa proporzionate […], che usasse il suo genio per l’adattamento, non per la disproporzione – o, per lo meno, che il genio riconoscesse a se stesso i limiti del corpo che lo sopporta.
Esattezza e profondità di visione, dizione elegante e colta, eccentricità del punto di vista, ironia… Potremmo fissare le qualità del Partito preso in un catalogo razionale e per questo didascalico; ma, in accordo con il tenore dell’opera, è meglio limitarsi a una lista in ordine sparso, più una suggestione distratta e parziale che un inventario, affinché tali qualità si manifestino in maniera casuale e contingente, spingano il nostro sguardo a fendere il velo del quotidiano e la nostra mente a contemplare le cose – i fenomeni – in maniera più piena e animata, a descriverle forzando i limiti dell’osservazione e del linguaggio. In sostanza: ad arricchirci.
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Note
[1] Curiosità linguistica per lettori attenti: di sicuro avrete notato l’anacoluto, “foglie e fiori stanno come sorelle”. Ora, quando ci sono due o più soggetti di genere grammaticale diverso, la concordanza con altri nomi o aggettivi (attributi, copule o predicativi che siano) in italiano prevede l’uso del famigerato maschile sovraesteso, quindi sarebbe più corretto dire che “foglie e fiori stanno come fratelli”, esattamente come “Marco, Laura, Davide e Marta sono arrivati”, pur essendo il gruppo composto per metà da Laura e Marta. In francese tuttavia, feuille e fleur sono entrambi sostantivi femminili, da cui la perfetta concordanza di genere con il sostantivo sœurs: “feuilles et fleurs y sont comme des sœurs”. La scelta di conservare, in italiano, una concordanza imperfetta, è traduttiva e privilegia l’adesione al testo originale piuttosto che alla norma grammaticale della lingua di approdo.