Il Guardiano della soglia
Questi guardiani circondano il mondo dalle quattro direzioni – anche sopra e sotto – e segnano i confini della sfera attuale o orizzonte di vita dell’Eroe. Al di là di essi vi sono le tenebre, v’è l’ignoto, il pericolo.
(Campbell, L’eroe dai mille volti, Lindau, p. 94).
C’è un confine, talvolta invisibile e concettuale, talvolta concreto – un vero e proprio ostacolo –, che separa il mondo normale dal mondo straordinario dei prodigi e dell’ignoto. E questo confine non si lascia attraversare con tanta facilità; al contrario, oppone spesso entità a presidio del passaggio, ora benigne ma ferme nell’impedire la traversata, ora maligne e ostili, pronte a uccidere. In ogni caso, la loro funzione drammaturgica è mettere alla prova l’Eroe, la sua forza, la sua tempra, la sua volontà, le sue motivazioni e il suo potenziale. Il mondo straordinario infatti potrebbe essere un luogo pericoloso al di là dell’umana concezione, e se l’Eroe dovesse rivelarsi troppo debole o troppo poco incline al cambiamento, o ancora acerbo, i guardiani gli impedirebbero di passare. Il solo fatto di affrontare in uno scontro – fisico o intellettuale che sia – un Guardiano della soglia e uscirne sconfitti sarebbe per l’Eroe la conferma della propria inadeguatezza. Chi, al contrario, riuscisse a battere in forza o in astuzia un Guardiano, avrebbe libero accesso al mondo straordinario, a proprio rischio e pericolo s’intende.
L’avventura costituisce sempre un passaggio dal noto all’ignoto; le forze che sorvegliano i confini sono pericolose; è un rischio avere a che fare con loro; e tuttavia, per chi è dotato di capacità e di coraggio ogni pericolo svanisce.
(Campbell, p. 100).
Dal punto di vista psicologico, Campbell rintraccia nei Guardiani la proiezione esterna di demoni interiori, paure e vizi che impediscono all’Eroe di proseguire il suo cammino, che lo frenano o che tentano di deviare il suo percorso.

Anton Koch, “Dante assalito dalla tre fiere”, affresco, Sala di Dante, Casino Massimo, Roma, 1825-1826
Non è un caso se il passo di Dante, al principio del suo viaggio oltremondano, anzi nel suo prologo, viene sbarrato da tre terribili Guardiani della soglia. Resosi conto di vagare senza meta nella selva oscura, allegoria «del male e dell’errore»[1] e che pertanto potremmo considerare il mondo normale in cui – in ottica cristiana – l’umanità vive abitualmente, Dante cerca di raggiungere un colle illuminato dal sole, allegoria, questa, della «via della virtù, una via in salita, illuminata dalla luce di Dio che si contrappone alla valle (o selva) oscura del peccato».[2]
guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
(Inferno I, 16-17)
È all’inizo del pendio che il primo Guardiano si manifesta: un grosso felino maculato, forse una lince (in assonanza con il dantesco lonza) o un leopardo o ancora una pantera.
Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.
(Inf. I, vv. 31-36)
Giunge poi un leone:
la vista che m’apparve d’un leone.
Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.
(Inf. I, vv. 45-48)
E infine una lupa:
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.
(Inf. I, vv. 49-54)
Com’è risaputo, i tre guardiani incarnano i tre vizi maggiori che impediscono all’uomo di perseguire la virtù: la lonza rappresenta la lussuria, il leone la superbia, la lupa l’avarizia. E tutti e tre concorrono a chiudere ogni accesso al mondo straordinario, cioè al colle, luogo elevato e circonfuso di luce. Ma le fiere non solo costringono Dante fuori dal mondo straordinario: la loro forza è tale – e tanta è la debolezza dell’uomo – che gli impongono una deviazione verso un altro mondo straordinario, assai meno desiderabile: l’aldilà, che Dante attraverserà in compagnia di tre Mentori e nei quali incontrerà altri Guardiani della soglia, in un gioco di cornici che rispecchia l’architettura concentrica dei tre regni dell’oltretomba.
Spostando lo sguardo verso il Novecento, l’universo tolkieniano è senz’altro un luogo della letteratura ideale in cui rintracciare Guardiani della soglia. Intorno alle vicende dell’Anello, uno dei primi Guardiani che vengono in mente è senza dubbio Gollum, che Bilbo incontra nel capitolo V di Lo Hobbit, Indovinelli nell’oscurità.
Solo e perso nelle viscere delle Montagne nebbiose, aggirandosi nell’oscurità, Bilbo raggiunge per caso un lago sotterraneo, al cui centro sorge un isolotto; e sull’isolotto, nel buio, abita Gollum. La strada di Bilbo è sbarrata: se da una parte non sa dove andare, dall’altra l’inatteso incontro con la creatura lo precipita in un pericolo ancora più immediato. Gollum infatti ha intenzione di divorarlo, ma non riuscendo a sopraffarlo, gli propone una gara di enigmi: se Bilbo non saprà rispondere, Gollum lo mangerà; se sarà Gollum a sbagliare, rivelerà allo Hobbit la via d’uscita. Inizia così il cimento dell’Eroe che deve guadagnarsi la salvezza mettendo alla prova il proprio acume. In duello di acume, Bilbo/Edipo incalza la sfinge/Gollum con i suoi stessi artifici fino ad avere la meglio. Alla domanda «Che cos’ho in tasca?», l’avversario non sa cosa rispondere e pur avendo tre tentativi, sbaglia ogni volta. Seccato per la sconfitta, finge di accettare le condizioni di Bilbo mentre riflette su come sorprenderlo e ucciderlo. L’illuminazione arriva in fretta: prima di partire insiste per recuperare una cosa sul suo isolotto: è l’Unico Anello, naturalmente, e vuole indossarlo per poter aggredire lo Hobbit. Ben presto però si accorge di averlo perso. Quello che non sa è che è stato proprio Bilbo Baggins a trovarlo; è la sua natura maligna a spingerlo a questa conclusione, e realizza con ira e sgomento che è proprio il suo tesoro la risposta all’ultimo indovinello di Bilbo. Perciò lo insegue, doppiamente motivato a ucciderlo. La prova intellettuale si trasforma così in una fatica fisica: Bilbo deve scappare per aver salva la vita, ed è in questo frangente che scopre il potere dell’Anello di rendere invisibile chi lo indossi, conoscenza che gli tornerà utile nel corso della sua avventura.

Il balrog sul ponte di Khazad-dûm. Illustrazione di Alan Lee.
Un altro importante Guardiano della soglia lo si trova nel Libro II della Compagnia dell’anello, sempre al capitolo V (Il ponte di Khazad-dûm): è il Balrog. Questa creatura, che abita le profondità della terra, è stata risvegliata dai nani di Moria, giunti troppo in profondità con i loro scavi. La Compagnia la affronta durante la traversata delle miniere in rovina. Sarà Gandalf a trattenerla, consentendo agli altri di scappare, ed è proprio in rapporto al vecchio stregone che il Balrog adempie alla sua funzione drammaturgica: mettere alla prova l’Eroe.
Se è vero che per la gran parte della storia il ruolo più calzante per Gandalf è forse quello del Mentore, non si dimentichi l’accezione di archetipo come funzione, che il personaggio può assumere o smettere come una maschera.
A questo punto della vicenda, infatti, la narrazione sposta la sua lente su Gandalf e sull’azione risolutiva che porterà alla salvezza della Compagnia.
Nella celebre scena, lo stregone si para davanti al Balrog, mentre i compagni attraversano il ponte, che crollerà per un potente incantesimo:
In quel momento Gandalf rizzò il bastone, e gridando co voce possente, colpì il ponte innanzi a sé. Il bastone si frantumò e gli cadde di mano. Un’abbacinante parete di fiamme bianche avvampò. Il ponte scricchiolò. Si ruppe immediatamente sotto i piedi del Balrog, e la pietra sulla quale egli si ergeva piombò nell’abisso con fragore, mentre il resto rimase in equilibrio e fremette come una lingua di roccia nel vuoto.
Con un urlo terribile il Balrog precipitò in avanti, e la sua ombra piombò giù scomparendo. Ma mentre cadeva, diede con la frusta una sferzata, e le code si avvolsero intorno alle ginocchia dello stregone, trascinandolo sino all’orlo della voragine. Gandalf vacillò e cadde, e cercando invano di afferrare la roccia, scivolò nell’abisso.
Come spesso accade all’Eroe al termine del suo viaggio – che qui Tolkien ripropone in minime proporzioni, come un elemento modulare, quasi frattale, della macrostoria – Gandalf ottiene ciò che voleva, ma al prezzo del suo sacrificio.
Si separa dunque dalla Compagnia, cade nell’abisso delle profondità di Moria e poi ancora più giù, combattendo contro l’avversario. Raggiunto il fondo più nero, comincia la risalita, dando sempre battaglia, e per giorni e giorni combatte in una prova estenuante, fino a raggiungere il picco della Scala Senza Fine che lo porterà sulla Torre di Durin, in cima al monte Celebdil. Qui si consuma la Lotta del Picco, in cui Gandalf uccide finalmente il Balrog e ne scaraventa la carcassa giù per la montagna. Di nuovo, però, deve prestarsi al sacrificio e la vittoria giunge insieme alla morte.
Ma è proprio questa la prova cui il Guardiano della soglia ha sottoposto l’Eroe: superata l’estrema difficoltà, avendo dato dimostrazione del suo valore, Gandalf ritorna in vita per volere di Eru, ma dotato stavolta di nuovi poteri e conoscenze che produrranno il loro fondamentale contributo nel ricomporre il conflitto alla base dell’intera Guerra dell’Anello.
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L’azione dell’Eroe, il supporto del Mentore, le prove dei Guardiani sono tutti elementi che hanno a fattor comune una sola cosa: la motivazione dell’Eroe. La motivazione è la miccia che origina l’azione. L’azione a sua volta porterà i personaggi a realizzare (o a mutare) le proprie funzioni drammaturgiche. Ma per accendere la miccia è necessario l’innesco, spesso rappresentato dall’archetipo del Messaggero. Ne parleremo in una nuova fronda narrativa. Prossimamente.
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Note
[1] Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno (edizione commentata da Anna Maria Chiavacci Leonardi), Mondadori, Milano, 1991, commento al v. 2, p. 8.
[2] Ivi, commento al v. 13, p. 12.