Bianco è il colore
più crudele
su Macello di Ivano Ferrari
Il fatto che Macello di Ivano Ferrari sia stato pubblicato nella “bianca” Einaudi trovo abbia un impeto feroce, quasi espressionista, che trascende il confine della parola per mettere in aspro conflitto la poesia con l’arte grafica, il testo con il paratesto, il contenuto con il contenitore. Il candore progettato da Munari e Huber nel 1964 si trova a rivestire, a distanza di quarant’anni[1], una raccolta che di candido non ha nulla. Le copertine della pregiata “collana bianca” sono rimaste immutate nel tempo: caratteristico fondo bianco totale – da cui la collana prende, com’è ovvio, il suo nome ufficioso[2] –; poi, in nero, nome e cognome dell’autore o dell’autrice, in alto e al centro; titolo della raccolta, subito sotto; logo e nome dell’editore uno stacco più in basso, parimenti centrati; una sottile linea separatrice (che, all’ultimo momento, Munari aveva tracciato a matita sulla bozza della grafica) attraversa la copertina e il dorso del volume; poco sotto, una poesia selezionata dalla raccolta. Essenzialità, eleganza, pulizia…
Il contrasto brutale con il contenuto lo si assapora osservando (sì, osservando, non è un refuso) il rosso del sangue e il nero e il marrone dei velli e del letame, il rosa pallido e ingrigito dei musi, della lingue, dei sessi dei capi da macellare; o un altro biancore, meno puro del grafico nitore di copertina, proprio degli occhi spalancati e spenti delle bestie, o delle larve che proliferano sulla carne in decomposizione. Forse il bianco richiama anche il camice dei macellai a inizio giornata, dei muri coperti di maioliche facili da lavare, una volta imbrattate di fluidi, ma non solo:
Dalla vasca d’acqua bollente
emerge un enorme maiale
bianco come uno spettro
che oscilla impudico fino a quando
dal finestrone il sole
accende quintali di luce.
La raccolta scaturisce da un’esperienza giovanile di Ivano Ferrari nel mattatoio di Mantova, in cui resiste qualche mese, prima di rinunciare; ma tanto basta per imprimere fin sotto la pelle l’universo sensoriale che attornia la morte programmata di decine, centinaia di esseri viventi, dispensata senza troppa cura – eccezion fatta che per gli algidi protocolli dello stabilimento –, sbrigata come una faccenda quotidiana e forse un po’ molesta, poco più di un’incombenza in cui trova spazio persino il gioco, in un momento di surreale allucinazione (o aneddoto?) in cui va in scena la sadica parodia del gioco del pallone con parti anatomiche bovine, e il cui scarto finale (giudice di gioco colui che dovrebbe sanzionare) strappa un sorriso increspato dal ribrezzo:
Macellatori contro facchini
palla il cuore sodo del toro
terreno scivoloso
pali due paranchi vuoti
arbitra un vigile sanitario.
Addentrarsi in Macello significa diventare testimoni di un estenuante rituale di morte, di cui Ferrari non lesina particolari, pur non indugiando mai con lentezza voyeuristica; al contrario, i dettagli risaltano vividi, repentini, scabrosi; si impongono alla vista e all’olfatto senza pietà né per i morti né per i vivi, perché la macchina di cui tori, vacche, cavalli e maiali sono in balia non lascia scampo, né a chi deve morire, né a chi deve uccidere.
Le carnivore gerarchie
si coprono col camice
del deserto bianco
affettato da coltelli sdentati
mentre inizia l’umiliante avventura
intravedo l’arrendevole teoria
che sublima la protesta
del più magro dei cavalli.
Come minatori
strane creature
coperte da tela blu (annerita dal sangue)
estraggono parchi nutrimenti
dalle loro teste appesantite.
Sventrate intere famiglie
oggi
lunedì di intensa macellazione.
Una vacca ha partorito un vitello
negli occhi la paura di nascere
il foro in mezzo al nostro contributo
a tranquillizzarlo.
Da un intestino (di toro)
dilatato e grinzoso
escono suoni ossessivi
come parole
che appestano l’aria (uso i guanti)
così che un lacerante silenzio
riempie la grande sala
dove si esibisce la morte.
La violenza dei corpi e delle loro escrezioni (emorragiche o fecali) è esibita e soverchiante. Assistere – anzi no, meglio – provocare questa violenza è compito di tutti i giorni, e come tutte le cose troppo vicine, è difficile da osservare nella sua interezza, con distacco. Sulla faccia nascosta del quotidiano elargire morte si intravede la malvagità di un disegno semplice ed efficace: dare un movente al proprio degrado di assassini per assolversi prima ancora di esserne sopraffatti. Così il rito del massacro è possibile perché è la fame a imporlo; i morti non sono morti, ma tributi intesi a placare il bisogno della bestia umana di nutrirsi. È questa, in fondo, la vera differenza tra umano e animale: uomo è ciò che non posso mangiare, il resto è polpa buona per il filo del coltello.
A un centinaio di metri
passata la forma fresca del prato
e dopo case dagli occhi spenti
si trova il cimitero degli umani
dove c’è carne che non sfama.
Ma la morte non è assoluta: piuttosto, è un concetto relativo fin nelle sue implicazioni più terrene e lontane dalla metafisica: i vermi, bianchi come scaglie di luce; le mosche saprofaghe; i topi… Sulla tavola della morte prospera e danza un brulicame di creature ignare dell’oscenità e dello strazio delle carcasse sventrate, delle viscere accatastate per essere svuotate e lavate, delle teste prima trafitte dal chiodo e poi spiccate, teste dagli occhi ancora spalancati, tondi come globi di vetro al cui fondo si è adagiato per sempre il nevischio dei processi vitali.
La carne morta rivive
nella sua grande miseria
col vento che riporta gli odori
ad un ordine sparso.
La carne morta è ricamata
da quelle sinuose presenze
che gli altri chiamano larve.
Vermi
come combusti
cedono
al biondo fatuo dell’estate
giovani dalla tenacia molle
scintille in questo buio.
La curiosa platea delle mosche
inneggia all’opulenza con cui
s’immerda il cosmo ad ogni ora
in questo giovedì defecatore.
Per un’epidemia, dicono, ci sono
ancora cento bestie da sventrare.
Quasi dormendo osservo
mandrie di giovani topi
avventarsi sulla carne guasta,
grassi e senza fretta
selezionano il divino
muovendo dal fondo.
La logica di sterminio
nei piccoli morsi golosi
con cui sbranano i pensieri.
Macello è un libro potente e crudele, asciutto di retorica e dai modi discorsivi, quasi raboniani, nel condurre i versi come frammenti di un resoconto, la cronaca feroce di un dilemma: se l’essenza dell’umano sia amministrare la morte del prossimo o continuare a vivere nonostante.
Di albe rosse, qui
non se ne sente il bisogno
la monotonia del colore
infoltisce l’aria già pesa,
di tramonti vermigli
non parliamone.
Piuttosto il buio
la sua complicità
nel togliere di mezzo quei musi ossuti
animalescamente rosi dalla bontà.
Qualcuno si chiede se io ami
se durante il giorno cerco
o risolvo, se almeno vedo.
Quando guardano le mie labbra
o le mie mani
e più maliziosamente giù, fra le cosce
sento sul corpo le domande
che mi attraversano
come una forca farebbe con la paglia.
Se faccio sanguinare il vento
se trasformo le foglie fredde
in involtini di carne,
se i cavalli bianchi del mio rinascimento
sono esposti sul bancone di una macelleria
non rinuncio alla mia umanità come voi
del resto.
*
Un consiglio per avventurieri letterari,
prima di salutarci
Macello di Ivano Ferrari è stato pubblicato nel 2004 da Einaudi, a quasi trent’anni dalla sua effettiva composizione. Negli ultimi vent’anni, la raccolta è diventata quasi introvabile. Fino a poco prima del Covid (l’ultima volta che ho controllato) era davvero irreperibile sia sul sito della casa editrice, sia sui rivenditori on-line, anche dell’usato. Esisteva, ed esiste ancora, però in versione e-book. Ho notato con piacere che nell’ultimo anno la versione cartacea è nuovamente disponibile in qualche copia: è un’ottima occasione per recuperare un libro raro e prezioso, che a me è stato regalato da un caro amico quando ancora era fuori dai radar della distribuzione, ma che spero stia ritrovando il suo posto sugli scaffali delle librerie.
*
Note
[1] Ivano Ferrari compone Macello nella seconda metà degli anni Settanta, ma la raccolta uscirà in volume per Einaudi solo nel 2004.
[2] Il suo titolo originale, in occhiello, è Collezione di poesia.