Partigiano dei cristalli
Nel giugno del 1984 Italo Calvino riceve l’invito ufficiale da parte della Harvard University a tenere un ciclo di sei interventi, che lo scrittore si accinge a preparare per l’anno accademico 1985-1986. Fin da subito il lavoro si fa intenso, al punto da portarlo ad allestire materiale per otto conferenze.
Nel 1985, alla vigilia della partenza per l’America, Calvino ha completato cinque delle sei lezioni previste; l’ultima l’avrebbe scritta ad Harvard, senonché il 6 settembre viene sorpreso da un ictus. Morirà meno di due settimane dopo all’ospedale di Siena.
Six memos for the next millennium è il titolo definitivo dato al complesso delle Norton Lectures, meglio note al pubblico italiano come Lezioni americane. Con questi interventi, a quasi quarant’anni dal suo esordio con il romanzo Il sentiero dei nidi di ragno (1947), Calvino traccia una lucida retrospettiva delle sue disposizioni al letterario e consegna ai posteri un lascito di «sei valori o qualità o specificità della letteratura»,[1] come si legge nel breve preambolo ai sei memos: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità e Consistency.[2]
Fra essi, quello che forse più di tutti informa la produzione di Calvino – o che quanto meno risalta per il suo nitore – è il carattere dell’esattezza. «Io mi sono sempre considerato un partigiano dei cristalli» dice di sé l’autore,[3] descrivendo con sintesi fulminea il proprio approccio alla lingua: la creazione di strutture solide e razionali (come un reticolo cristallino, appunto); la limpidezza di una lingua semplice ma non semplicistica, che in tratti decisi delinea il proprio soggetto. All’esattezza lessicale Calvino affianca una sintassi sorvegliatissima, mai indulgente in ridondanze espressive e che anche laddove adoperi meccanismi cumulativi (anafore, dittologie, triplette di aggettivi, elenchi…), resta sempre orientata ad approfondire il discorso.
Esattezza vuol dire per me soprattutto tre cose:
1) un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato;
2) l’evocazione di immagini visuali nitide, incisive, memorabili; in italiano abbiamo un aggettivo che non esiste in inglese, «icastico», dal greco εἰκαστικός;
3)un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione.[4]
Su questa base poggiano un operoso lavoro di lima e una costante rielaborazione della propria opera e del proprio statuto, gesti letterari che accompagnano Calvino per tutta la vita. La sua ricerca di esattezza approda a veri e propri organismi narrativi scanditi da una lingua puntuale, progettata perché restituisca con naturalezza non l’impressione del proprio oggetto, bensì l’oggetto stesso; che sia quindi generativa, cioè che inverta la tendenza dell’esistente a dissiparsi:
L’universo si disfa in una nube di calore, precipita senza scampo in un vortice di entropia, ma all’interno di questo processo irreversibile possono darsi zone d’ordine, porzioni d’esistente che tendono verso una forma, punti privilegiati da cui sembra di scorgere un disegno, una prospettiva. L’opera letteraria è una di queste minime porzioni in cui l’esistente si cristallizza in una forma, acquista un senso, non fisso, non definitivo, non irrigidito in una immobilità minerale, ma vivente come un organismo.[5]
Ed è forse con un pensiero al quarto di secolo precedente che Calvino scrive queste righe: nel 1959 esce infatti Il cavaliere inesistente, terzo e conclusivo romanzo della cosiddetta trilogia araldica, che fa delle rispondenze effettive o mancate tra parola e forma, delle intersezioni tra anelata conquista e sistematico allontanamento dall’esattezza – anche e soprattutto esistenziale – dei personaggi, il fulcro della sua incessante ricerca.
Linee spezzate, linee curve
Con una lingua fresca, limpida e agilissima, nonché attraverso un sistema di personaggi favolosi che evocano un medioevo ariostesco, Il cavaliere inesistente mette in pieno risalto la «specificità» letteraria dell’esattezza.
Traccio sulla carta una linea dritta, ogni tanto spezzata da angoli, ed è il percorso di Agilulfo. Quest’altra linea tutta ghirigori e andirivieni è il cammino di Gurdulù. […] Questa che disegno adesso è una città cinta di mura. […] Oltre la città questo che vado tratteggiando è un bosco.[6]
In questo modo si esprime suor Teodora, la narratrice. La sua parola non vuol solo dire, ma soprattutto far vedere: e non si tratta qui del mettere scolasticamente in pratica il principio narrativo dello “show don’t tell”, bensì di assimilare su un piano di quanto più compiuta reciprocità il segno alfabetico e il segno grafico – ferma restando la differenza tra significanti e significati valicando il simbolismo dei grafemi (il Ritratto d’Ariosto di Tiziano rappresenta l’Ariosto, ma non è l’Ariosto; allo stesso modo, il nome “Ariosto” indica la persona, ma non la è né la rappresenta).
Ciò accade affinché il lettore possa sublimare l’atto di immaginazione e osservare la vicenda. È una concezione dell’esattezza che ci vuole spettatori di una rappresentazione visiva: reclama quindi per il suo pubblico una compagnia di figure che incarnino i personaggi, e a esse l’esattezza si impone come condizione (o anelito) esistenziale. Così è per Agilulfo, Gurdulù, Rambaldo, Bradamante e Torrismondo.
È in Agilulfo e Gurdulù che l’esattezza si radicalizza in maniera polare, disponendosi agli estremi di una linea immaginaria, parallela e sovrapposta alla narrazione, lungo la quale si dipana la sua articolata fenomenologia.
In Agilulfo – un coagulo incorporeo di «forza di volontà […] e fede nella nostra santa causa»,[7] come afferma egli stesso all’inizio del romanzo – l’esattezza è motore di un’esistenza paradossale, che c’è eppure manca (è proprio Agilulfo il cavaliere insistente del titolo), ingarbugliando così la faccenda in un impasse ontologico a cui solo l’esercizio della volontà e della razionalità del paladino impediscono di collassare su sé stesso.
In Gurdulù l’esattezza svapora, si rarefà fino al punto di scomparire. Se infatti Agilulfo c’è ma non esiste, Gurdulù esiste ma non c’è, la sua identità si assottiglia e si disperde nel mondo: egli crede di essere ogni cosa che di volta in volta attira la sua attenzione, e così facendo perde il proprio nome o ne acquista altri cento, che poi è lo stesso.
Agilulfo, paladino di Francia
Ancora confuso era lo stato delle cose del mondo, nell’Evo in cui questa storia si svolge. […] Era un’epoca in cui la volontà d’esserci […] non veniva usata interamente […] e quindi una certa quantità ne andava persa nel vuoto. Poteva pure darsi allora che in un punto questa volontà e coscienza di sé, così diluita, si condensasse, facesse grumo, come l’impercettibile pulviscolo acquoreo che si condensa in fiocchi di nuvole, e questo groppo […] s’imbattesse in un nome e in un casato […] e – soprattutto – in un’armatura vuota. […] Così aveva cominciato a operare Agilulfo dei Guildiverni e a procacciarsi gloria.[8]
La nascita fantastica di Agilulfo avviene per condensazione: nella tendenza generale delle cose a disfarsi, quel vapore di velleità d’affermazione e autocoscienza (il senno che l’Ariosto aveva racchiuso in un’ampolla sulla luna), accade che, localmente, l’entropia si inverta e le molecole si aggreghino come quelle di un fluido a bassa temperatura o ad alta pressione. Pur nel fiabesco, siamo di fronte a un passaggio di stato descrivibile con la precisione che pertiene alle parole della scienza. Agilulfo è dunque incorporeo, perciò intangibile; e l’intangibile è invulnerabile; l’invulnerabile, incorruttibile; l’incorruttibile, eterno. Ma questa eccezionalità richiede che si paghi uno scotto non indifferente: quando cala la notte e l’esercito si ritira, quando ognuno è nelle proprie tende, il paladino ascolta il silenzio, si ritira anch’egli come i compagni, poi si rigira, preda della propria condizione di inestinguibile veglia, in attesa di chissà cosa:
Cosa fosse quel poter chiudere gli occhi, perdere coscienza di sé, affondare in un vuoto delle proprie ore, e poi svegliarsi, ritrovarsi uguale a prima, a riannodare i fili della propria vita, Agilulfo non lo poteva sapere, e la sua invidia per la facoltà di dormire propria delle persone esistenti era un’invidia vaga, come di qualcosa che non si sa nemmeno come concepire.[9]
L’esorcismo a questa minaccia che lo assedia dagli orli delle giunture vuote della sua armatura consiste nell’esercizio dell’orgoglio: che cosa sono i paladini, quando si spogliano della cotta, della piastre e delle armi? Che cosa resta della loro dignità, a guardarli giacere, sbavare e russare? La condizione di Agilulfo dev’essere di gran lunga preferibile, perché nulla è in grado di scomporlo, diminuirlo o annullarlo, lui che «era e restava a ogni momento del giorno e della notte Agilulfo».[10]
Dietro questo sdegno si nasconde l’angoscia del dissolvimento, che deve essere combattuta con il suo contrario: affermarsi, per il cavaliere inesistente, significa provarsi in pensieri e azioni di chirurgica precisione, come tirare di scherma esibendo magistrale padronanza dei fondamentali, oppure, come accade all’infervorato banchetto dei paladini:
[…] chiedere che gli mettano davanti nuove stoviglie e posate, piatti, piattini, scodelle, bicchieri d’ogni foggia e capienza, forchette e cucchiai e cucchiaini e coltelli che guai se non sono ben affilati. […] Poi si serve di tutto: […] taglia con un coltello affilatissimo la carne in striscioline sottili, e queste striscioline le passa una a una in un altro piatto…[11]
E ancora, si serve del vino e lo travasa metodicamente da un bicchiere all’altro; del pane, appallottola la mollica in sferette identiche e con le briciole costruisce piccole piramidi; in ultimo, poi, nemmeno perde il filo della conversazione che i paladini intrattengono, tra un boccone e l’altro.
Ma è proprio a questo banchetto che la salda, per quanto impalpabile, essenza di Agilulfo viene messa in crisi. Si alza infatti tra i paladini Torrismondo, giovane incupito dal cruccio di ritrovare suo padre – che asserisce non essere un uomo, bensì l’intero ordine dei Cavalieri del Graal, – e sconfessa l’investitura a cavaliere di Agilulfo, negandone l’impresa con cui salvò la giovane vergine Sofronia (secondo l’incorporeo protagonista) e che lo gloriò del titolo: Sofronia, dichiara infatti Torrismondo, è sua madre.
È con poche e astiose parole che il ragazzo incrina il pilastro portante della fermezza di Agilulfo, il centro di concrezione delle vaporose velleità che lo compongono.
Scrive in proposito Mario Barenghi:
Non c’è identità al di fuori della ricerca di un’identità: la quale a sua volta esige iniziativa, intraprendenza, movimento verso una meta che non si potrà mai considerare definitiva.[12]
Barenghi sembra qui confutare il teorema di Agilulfo: fino all’incontro fatale con Torrismondo, il cavaliere inesistente è saldamente inquadrato nei contorni della sua intrinseca esattezza. In un mondo parallelo a quello in cui arranca un’umanità flaccida al di sotto degli schinieri, Agilulfo procede a passo fermo; ma ora, si trova a inseguire quegli stessi contorni che vanno cercando Rambaldo, Bradamante o lo stesso Torrismondo. Una meta nuova, la sua, destinata il più delle volte a non essere raggiunta pienamente, perché nella definizione della propria identità a un passo ne segue sempre un altro. Barenghi ci dice che la vita è un non finito, e Agilulfo nella vita è capitato forse impreparato, di certo risoluto, tuttavia inconsapevole del costo di una simile avventura. Chiudere il cerchio, affermarsi definitivamente come nessuno potrebbe mai fare, sarà tracciare un confine invalicabile: ripristinato il suo nome, Agilulfo non farà solo giustizia, farà anche e soprattutto esattezza. Di un’esattezza allo stato puro si sta parlando, conchiusa e perfetta, come perfetto sarà Agilulfo, destinato a dissolversi una volta per sempre in vaporosa compiutezza.
Il nome di Gurdulù
Il cavaliere inesistente è un romanzo di equilibri e ancor più di ricerca di equilibri; laddove vi sia nitore, pulizia, univocità, è lecito aspettarsi di incontrare, prima o poi, opacità, sporcizia, volubilità. In poche parole, di incappare in Gurdulù.
[…] non può mancare […] il perfetto rovescio basso-corporale che è Gurdulù. Come l’uno è tutto mente e niente corpo, così l’altro è invece «corpaccione carnoso» e niente coscienza. Il suo compito è quello di far vedere cosa succede a chi perde completamente coscienza di sé…
Così scrive Francesca Serra nel suo saggio Calvino (Salerno editrice, Roma 2006, p. 189) in merito alla coppia Agilulfo-Gurdulù, e ben focalizza il secondo estremo di quel segmento immaginario di cui si è detto: Gurdulù esiste, ma non c’è. E se non c’è dove mai sarà?
Se uno ritrova sé stesso nella propria identità, si potrà dire di Gurdulù che è dappertutto e in nessun posto. Egli è infatti privo di ogni determinazione che non sia quella del corpo, e la precarietà che gli appartiene riverbera anche sul dato linguistico, tanto che a chiamarlo Gurdulù non si risponde a una convenzione, bensì a pura contingenza:
«A seconda dei paesi che attraversa,» disse il saggio ortolano, «e degli eserciti cristiani o infedeli a cui si accoda, lo chiamano Gurdurù o Gudi-Ussuf o Ben-Va-Ussuf o Ben-Stanbùl o Pestanzùl o Bertinzùl o Martinbon o Omobon o Omobestia oppure anche il Brutto del Vallone o Gian Picasso o Pier Paciugo. […] Si direbbe che i nomi gli scorrano addosso senza mai riuscire ad appiccicarglisi».[13]
O ancora:
«Gurdulù? Un altro nome ancora? Lo conoscete?».
«È un uomo senza nome e con tutti i nomi possibili».[14]
È in virtù di questa sua caratteristica che Gurdulù sarà l’unico personaggio a non ricercare sé stesso. Forse perché tanta è la sua rarefazione da rendergli impossibile ritrovarsi; o forse perché si ritrova in ogni cosa pur senza saperlo. O magari perché il suo legame con la vita e con le cose è più forte di quello degli altri personaggi.
Un bel colpo di scena, se si considera quanto sia terragno il rozzo Gurdulù; eppure, durante l’episodio della sepoltura dei caduti, nella contemplazione della morte è l’unico che ne coglie un carattere di passaggio e non di fermo irrevocabile nel cammino di una persona. La prospettiva, seppure di un materialismo quasi triviale, ci mostra la connessione che Gurdulù ha con il mondo: un’ottimistica visione di ricongiungimento, che egli non ricerca, ma quasi ammira in una esclamazione paradossale: «Vedi che sei più bravo a vivere tu di me, o cadavere?».[15] E mentre Agilulfo si rinfranca di esser privo dei «soliti difetti di grossolanità, approssimazione, incoerenza, puzzo»[16] del corpo umano, e Rambaldo paventa la morte come fine del suo viaggio («Non ci sono altri giorni che questi nostri giorni prima della tomba»[17]), Gurdulù pensa ai vermi che nutrirà il cadavere e al liquame che riverserà nella terra nutrendo a sua volta i prati sopra di sé; e a quell’erba, che sarà latte di mucche e poi sangue di bambino: «Non so perché tutti ti compiangano. Che cosa ti manca?»[18] chiede alla salma che trasporta.
Potrebbe sorgere il dubbio che parli con sé stesso, e la stessa domanda potremmo farla noi a lui: che cosa ti manca, Gurdulù? Gli manca tutto, naturalmente; eppure, alla fine, rimane il vago sentore che, per esserci, non abbia bisogno d’altro più di quel niente che ha.
Garbugli e bandoli
Ricerca di equilibri, abbiamo detto. Ma forse non è ancora esatto: ricerche, ecco la parola giusta. L’esattezza come fine tendenziale viene rincorsa in lungo e in largo da quei personaggi che, nella nostra schematica rappresentazione, stanno da qualche parte lungo il segmento immaginario compreso fra gli estremi opposti “Agilulfo” e “Gurdulù”. Parlo dei giovani Rambaldo, Bradamante e Torrismondo.
La ricerca di sé da parte di Agilulfo, pur se non concorre a definire la natura del paladino perché – lo ricordiamo – non nasce da un suo bisogno intrinseco, bensì da una provocazione esterna da parte di Torrismondo, è comunque responsabile della messa in moto di tutte le altre ricerche che infittiscono (e ingarbugliano) l’intreccio. E sarà solo la verità sulle ombre di ogni personaggio – verità, autentico bandolo della matassa – a sciogliere i nodi e a districare le vicende dei singoli.
Scrive Calvino nella Postfazione ai “Nostri antenati” (nota 1960):
Rambaldo, paladino stendhaliano, cerca le prove d’esserci come tutti i giovani fanno. La verifica dell’essere è nel fare; Rambaldo sarà la morale della pratica, dell’esperienza, della storia. Mi serviva un altro giovane, Torrismondo, e ne feci la morale dell’assoluto, per cui la verifica d’esserci deve derivare da qualcos’altro che se stesso, da quel che c’era prima di lui, il tutto da cui s’è staccato. […] Bradamante, amore come guerra, cerca il diverso da sé, quindi il non-essere, perciò è innamorata di Agilulfo.[19]
Ognuna di queste approssimazioni è legata alle altre in maniera consequenziale: da Agilulfo sbugiardato discende la rincorsa di Bradamante: la paladina che incarna lo slancio vitale, la forza sanguigna e guerriera, è inesorabilmente attratta dall’algido e razionale cavaliere inesistente, tanto da farne il contrappeso alla propria umanità: l’unione degli opposti complementari è la meta ultima del suo viaggio.
Dall’inseguimento di Bradamante nasce lo slancio di Rambaldo. Il giovane ardimentoso, trovata pace nell’aver vendicato il padre, caduto per mano dell’argilaf Isoarre, crede di aver ristabilito l’equilibrio delle cose, ma l’innamoramento per Bradamante fa vacillare ciò che è stato appena ricomposto. Un nuovo oggetto del desiderio si presenta agli occhi del giovane, che sente di nuovo la sua realtà – e la sua certezza d’esserci, finalmente – cadere. Solo la conquista di Bradamante e l’esperienza che scaturisce dal tentativo, potranno dare nuovamente conferma alla suo essere al mondo.
Quanto a Torrismondo, infine, parafrasando lo stesso Calvino, il conflitto non risiede nell’interiorità del cavaliere, ma il suo viaggio è la ricerca di qualcosa di esterno da sé: un arbitro e garante che, da fuori, ristabilisca l’ordine perduto, confuti Agilulfo e renda finalmente ragione dell’esistenza del ragazzo.
***
Note
[1] Italo Calvino, Lezioni americane, Milano, Mondadori, 1993, p. 3.
[2] Le edizioni delle Lezioni americane riportano in appendice il capitolo Cominciare e finire, la cui nota preliminare informa: «Si tratta della stesura, provvisoria ma completa della conferenza iniziale. Questo testo […] verrà poi scartato, ma parecchio materiale era destinato a confluire nella sesta lezione, rimasta incompiuta, Consistency». Ivi, p. 123.
[3] Ivi, p. 72.
[4] Ivi pp. 59-60.
[5] Ivi p. 70.
[6] Italo Calvino, Il cavaliere inesistente, Milano, Mondadori, 1993, pp. 79-80.
[7] Cioè nella causa dei cristiani contro i mori infedeli. Ivi, p. 6.
[8] Ivi, p. 31.
[9] Ivi, p. 10.
[10] Ivi, p. 11.
[11] Ivi, pp. 66-67.
[12] Mario Barenghi, Calvino, Bologna, il Mulino, 2009, p. 55.
[13] Italo Calvino, Il cavaliere inesistente, cit., p. 26.
[14] Ivi, p. 49.
[15] Ivi, p. 52.
[16] Ibid.
[17] Ibid.
[18] Ibid.
[19] Italo Calvino, Postfazione ai “Nostri antenati” (Nota 1960), in Romanzi e racconti, vol. I, Milano, Mondadori, 2005, p. 1217.