***Attenzione, può contenere tracce di spoiler***
Toccare il fondo
Ciò che non sappiamo
Il mondo è piccolo. La sua superficie è stata mappata secolo dopo secolo, ogni terra è stata raggiunta, “lontano” è un concetto che diventa via via più obsoleto; quello di “irraggiungibile” fa quasi tenerezza per quanto è ingenuo. Ma è tutta una questione di prospettiva, naturalmente: crediamo di conoscere tutto ciò che era dato conoscere; di avere scoperto tutto ciò che era dato scoprire; di aver esplorato tutto ciò che era dato esplorare…
Non è così, si capisce. Solo che del resto, di ciò che è davvero irraggiungibile, ci importa poco o niente. Conosciamo all’incirca 8 milioni e 800 mila specie viventi, e ci sembrano tante; tuttavia i biologi più ottimisti stimano che circa l’85% di quelle terrestri e il 91% di quelle marine ci siano ancora del tutto ignote. Ma non ci interessa, perché ciò che sappiamo – o ciò che ci sembra utile sapere – per noi è abbastanza. Poter interrogare una macchina per calmare la curiosità che ci coglie durante le nostre conversazioni ci appaga a sufficienza, malgrado non ci rendiamo conto che quella stessa curiosità, spesso così impellente ed estemporanea, si manifesta perché, in fondo, non sappiamo di cosa parliamo.
Quando la conoscenza è tutta racchiusa – per ipotesi – in un libro e quel libro è sempre a portata di mano, paradossalmente non è così importante averlo letto. Lo consulteremo quando ne avremo bisogno; in ogni altro momento della nostra vita potremo aggirarci per il mondo che crediamo di conoscere senza conoscerlo.
Ma cosa succederebbe se ci trovassimo in un luogo dove tutta la conoscenza che ci manca fosse inaccessibile? Dove per avanzare e accumulare esperienza fossimo costretti a usare le nostre sole risorse personali, rischiando a ogni passo una morte terrificante, pagando i nostri errori con sofferenze indicibili e imparando attraverso il dolore e la perdita? Sembra quasi la descrizione di una discesa all’inferno e, per certi aspetti, è proprio di questo che vorrei parlare.
Made in abyss
Il 20 ottobre 2012, il sensei Akihito Tsukushi – illustratore trentatreenne al suo debutto come mangaka – inaugura la serializzazione della sua opera Made in abyss (メイドインアビス – Meido in abisu) sul sito Web Comic Gamma della casa editrice Takeshobo.
Il lavoro di Tsukushi ottiene generalmente un buon riscontro di pubblico e di critica, malgrado le prime difficoltà, che sul principio attestano le vendite dei volumi dall’1 al 5 su livelli piuttosto bassi; l’ingresso di Nanachi – uno dei personaggi più amati dal pubblico, che debutta nel volume 3 – e la serializzazione animata fanno da traino alla popolarità del manga, che dal volume 6 in avanti quintuplica le vendite, passando dalle 16.000 copie del quinto volume alle 80.000 del sesto (fonte: Everyeye.it).[1]
Vuoi per le uscite molto dilatate (ma non discontinue, come ho letto in giro: in Giappone esce infatti un volume all’anno a cadenza più che regolare, spesso lo stesso mese o addirittura lo stesso giorno di quello precedente), vuoi per la ricettività non sempre brillante del nostro Paese verso novità entusiasmanti, Made in abyss esce per la prima volta in Italia nel marzo 2018 grazie a Edizioni BD che ad oggi ha pubblicato con l’etichetta J-Pop 10 degli 11 volumi prodotti finora dal sensei (l’undicesimo è già previsto tra le novità di inizio 2023 – fonte: Direct #100).
Piuttosto di nicchia – almeno all’inizio, ma, volendo, ancora oggi molto più di altre opere –, anche qui da noi ha allargato il proprio pubblico dopo la trasposizione animata della prima stagione in 13 episodi, che adatta i primi tre volumi; un lungometraggio intitolato Made in abyss – Dawn of the deep soul, che adatta l’arco narrativo dei volumi 4 e 5, e una seconda stagione in 12 episodi che adatta i restanti volumi fino al decimo.
L’opera di Tsukushi è peculiare sotto diversi aspetti. L’estetica è, ovviamente, il primo che salta all’occhio: le tavole hanno dimensioni e forme irregolari, delimitate da uno spesso strato di matita, il disegno simula pittura ad acquerello su carta grezza, e il carachter design tondeggiante rende molti dei personaggi (soprattutto i principali) piuttosto teneri, ma nasconde dietro un velo di apparente leziosità un inganno che potrebbe cogliere impreparati alcuni lettori, diciamo pure, “novizi”. Infatti in Made in Abyss non c’è nulla di più lontano dal concetto di carineria… Ma non è del rapporto tra la graziosità e l’orrore che voglio parlare.
E allora di cosa parliamo?
Dell’abisso, naturalmente
Il mondo è piccolo, si è detto. La sua superficie è stata mappata secolo dopo secolo e ogni terra è stata raggiunta. Resta solo un luogo del pianeta su cui non si hanno ancora informazioni certe ed esaustive. In mezzo al mare meridionale di Belouska si trova un’isola al centro della quale si apre una voragine del diametro di un chilometro e della profondità stimata di ventimila metri, ma in realtà sconosciuta. (Che quest’ultima cifra sia una suggestione da Verne? Un paio di tangenze sono facili da individuare nell’opera, in effetti…)
Sull’orlo della voragine è nata la città di Orth che basa la propria economia sul ritrovamento e la vendita di misteriosi cimeli appartenenti a civiltà plurimillenarie e ormai scomparse, a opera dei cosiddetti cercatori, indomiti esploratori che si calano nelle profondità dell’abisso contribuendo a descriverne la geografia, la flora, la fauna e i bizzarri fenomeni fisici che lo caratterizzano. Sì, perché l’abisso non è un semplice buco nel terreno, ma un ecosistema in cui si sono sviluppate innumerevoli forme di vita complessa, sempre più oscure e pericolose a mano a mano che ci si avventura nei suoi recessi più profondi.
I cercatori, vera e propria gilda di professionisti, si dividono in diverse caste distinte dal colore del loro fischietto, oggetto d’elezione che serve, a seconda dei casi, a segnalare la propria presenza per farsi soccorrere o a dare l’allarme. Inoltre il colore del fischietto indica il livello di esperienza raggiunto dal cercatore e la profondità massima alla quale è in grado di scendere. Gli apprendisti, detti campanellini, indossano per l’appunto un semplice campanellino e non è loro permesso calarsi nell’abisso. I fischietti rossi sono i principianti e possono avventurarsi negli strati più superficiali per prendere familiarità con la voragine e con la sua “maledizione” (tenete a mente questo particolare, ci arriveremo). Seguono i fischietti blu (cioè la prima falange di professionisti), i fischietti lunari (che spesso ricoprono il ruolo di istruttori), i fischietti neri (professionisti di esperienza, abilità e resistenza fisica notevolmente superiori rispetto ai gradi precedenti) e infine i fischietti bianchi. Se degli altri non conosciamo il numero, di questi ultimi sappiamo che si contano sulle dita di una mano e sono vere e proprie leggende viventi: il loro presitgio è dovuto alle loro eccezionali capacità, alle loro imprese e alla scoperta di cimeli dai poteri tanto portentosi da non potervi attribuire un valore.
Riko è la giovane protagonista, una bambina di dodici anni che vive all’orfanotrofio Belchero. Riko è un fischietto rosso, pertanto sta seguendo l’addestramento da cercatrice e sogna di diventare un grande fischietto bianco come sua madre, Lyza la Sterminatrice.
Un giorno, durante un’esplorazione di routine nel primo strato, Riko viene attaccata da una Serpe Cremisi, una bestia molto pericolosa che normalmente abita in strati più bassi della voragine. Viene salvata da Reg, un misterioso ragazzino dagli arti robotici e apparentemente invulnerabile che sembra un agglomerato senziente di cimeli straordinari; ma nemmeno lui sa rispondere alle tante curiosità di Riko sulla sua vera natura, perché ha perso la memoria: non sa più chi è, da dove viene né quali fossero i suoi propositi.
Riko lo introduce all’orfanotrofio e insieme si dedicano all’addestramento da cercatori, finché un giorno, tramite un pallone aerostatico, giunge in superficie il fischietto bianco di Lyza, accompagnato da una lettera. Di solito, quando un fischietto torna a Orth senza il suo proprietario, significa che esso è morto; tuttavia la lettera di Lyza, senza destinatario ma probabilmente indirizzata a Riko, dice tutt’altro: Lyza la sta aspettando sul fondo dell’abisso, un luogo da cui è impossibile tornare e che nessuno, in 1900 anni di esplorazioni, sembra aver mai raggiunto (o quantomeno non se ne ha notizia). Riko, nonostante tutti i divieti e malgrado la sua inesperienza, decide di partire in gran segreto insieme a Reg, per intraprendere la sua discesa, un viaggio senza ritorno al quale, pur contro ogni istinto di conservazione, la bambina ha sempre anelato.
La storia perduta
Con un paragone non così lontano da ciò che racconta Tsukushi, potremmo accostare l’abisso a una miniera; una fitta rete di gradoni, balze, strapiombi e spelonche, le cui terra e pietra sono infinitamente stratificate, e dove scavando nei punti giusti è possibile riportare alla luce testimonianze di civiltà dimenticate.
I cimeli sono una delle espressioni di una storia andata perduta: ne esistono innumerevoli tipi (e ancora se ne scoprono di nuovi) che con il tempo gli abitanti di Orth hanno classificato. La loro funzione è a volte palese, perfino elementare; altre si rivela molto più complicata da scoprire o da spiegare. Quel che è certo è che nessuno saprebbe dire chi ha prodotto questi oggetti né quando. A quale esigenza risponde una bussola che punta verso il centro della Terra? O un ombrello fatto di scaglie? O una pietra morbida come la gommapiuma? Alcuni sono chiaramente frutto di ricerca tecnologica, lavorati con una maestria che rivela un sapere tecnico raffinato al servizio di uno scopo pratico; altri assomigliano più ad apparati organici, quasi floreali, come fossero aberrazioni della natura o residui di una passata evoluzione della quale restano pochi esemplari. Di molti altri invece non si sa nulla: si può solo ipotizzarne forma e facoltà, e, alla luce della varietà e della bizzarria di ciò che è già stato scoperto, non sarebbe un esercizio così sconclusionato.
Accanto a questi artefatti, ci sono gli scheletri oranti: resti umani integri e molto ben conservati che giacciono sepolti a varie profondità negli strati dell’abisso, abbigliati con vesti rituali e disposti nella tomba in atteggiamento di preghiera. Per i fischietti rossi non è insolito imbattersi in una o più di queste scoperte, che trattano con rispetto richiudendo il sepolcro e restituendo le spoglie al riposo della morte. Gli oranti sono inequivocabili testimonianze di presenza umana risalenti a migliaia di anni nel passato. Se siano tutti della stessa epoca e se siano loro ad aver concepito e costruito i cimeli non è dato però saperlo, perché la loro storia e la loro cultura sono andate smarrite nel tempo.
Eppure una cosa forse è filtrata fino al presente, inalterata pur contro la fragilità della memoria, a legare chi oggi vive a Orth e chi ha vissuto sulla bocca della voragine millenni prima che la città venisse fondata: una sorta di devozione, una disposizione al misticismo che investe l’abisso delle credenze e delle superstizioni umane legate al divino. L’abisso è un luogo, ma in una visione escatologica dell’esistenza incarna anche la meta finale di ogni cosa, il punto in cui tutto troverà la sua risoluzione. E a una simile entità non può che essere tributato un culto.
Mappare Dio
Non di culto liturgico, beninteso, si sta parlando. Non c’è rito, non c’è Chiesa e non c’è clero. La fede nell’abisso assomiglia piuttosto alla naturale evoluzione del folclore in mito fondativo, sempre accompagnato però da un’aura evanescente di pensiero magico: sedimento dopo sedimento, le credenze popolari si compattano, vengono interiorizzate e, spontaneamente, l’uomo si rivolge a ciò che di più grande gli sta accanto, attribuendogli l’origine e la fine di tutto.
Ancor meglio, è forse più corretto parlare di fiducia nell’abisso piuttosto che di fede. Fiducia: ovvero un sentimento che non prescinde dalle manifestazioni fisiche del suo oggetto, ma al contrario si fonda proprio sul loro empirismo: l’abisso è un luogo, è davanti agli occhi di tutti, offre risorse tangibili da cui gli abitanti di Orth sanno trarre ricchezza. Pensare quindi di essere debitori alla forza che regola l’abisso non è religione – sebbene questo credo sia carico di misticismo – ma è il riconoscere che Dio, se di Dio vogliamo parlare, è nella voragine, anzi Dio è la voragine.
Una divinità anomala per qualsiasi tradizione non panteistica, cioè per chiunque concepisca l’universo amministrato dalle entità terrene di uomo e natura, e da una o più entità trascendentali. Da una parte, è vero che il “dio” di Made in Abyss è un oggetto non pienamente comprensibile: non se ne conosce infatti la vera natura né, come abbiamo detto, la storia. Sono stati fatti molti tentativi di descriverlo; altrettante discese hanno permesso di mappare in maniera discreta i primi quattro strati, dopodiché l’impresa diventa molto più ardua, le informazioni iniziano a scarseggiare, le fonti si fanno parziali o tacciono del tutto, al punto che nessuno sa cosa ci sia sul fondo. E questo per una semplice ragione che è anche uno dei principali meccanismi di sfida nell’azione dei protagonisti: più si scende nell’abisso, più la risalita diventa difficile, fino a rendersi impossibile. Dall’altra parte, è altrettanto vero che l’abisso è un oggetto non solo osservabile, ma anche percorribile, studiabile nella sua sorprendente complessità di ecosistema, come l’ho definito più indietro.
Ma non finisce qui: che tutto nasca dall’abisso e che a esso tutto debba fare ritorno è una convinzione radicata nella popolazione di Orth, che demanda alla voragine uno dei pilastri universali della civiltà: i riti funebri. La memoria del defunto, insieme alle sue ceneri, e con esse la sua anima, viene affidata all’abisso. Esiste un fiore, che, a dispetto di una spietata selezione naturale, cresce dappertutto, tanto nei primi strati quanto al fondo del quarto, dove se ne trova un immenso prato monospecifico. E per questo è chiamato Essenzaterna o Fiore della perseveranza. È il fiore d’elezione delle feste per il suo significato augurale, ma è anche un conforto durante i funerali, quando i suoi petali vengono lasciati cadere nella voragine insieme a una targhetta che riporta il nome del defunto accompagnato dall’auspicio “Ritorna all’abisso”. La memoria, si è detto, il nome di chi se n’è andato come latore del suo ricordo, e la sua anima affidata alle profondità da cui si pensa sia scaturita.
Ecco la complessità dell’abisso: credo, appartenenza, identità, fonte di sostentamento, luogo del riposo dei morti e insopprimibile attrazione per i vivi, talvolta al prezzo della vita stessa.
La maledizione
Molti avventurieri scelgono di pagare questo tributo, e con entusiasmo. Il misticismo che aleggia intorno all’abisso, però, non è scevro di superstizione: ai morti si augura un ritorno nelle profondità della culla dell’esistenza, eppure la discesa in essa da vivi è segnata da quella che viene chiamata maledizione. Un fenomeno che dipende dalla curiosa fisica del luogo: la voragine è permeata infatti da un misterioso campo di forza, invisibile e impalpabile, del quale tuttavia è possibile apprezzare gli effetti. A quanto pare è un ottimo mezzo di propagazione della luce, tanto che anche a migliaia di metri di profondità il sole brilla come in superficie, rendendo quindi possibile lo sviluppo e il prosperare di una ricca biodiversità. Con tutti gli accorgimenti del caso e al netto di imprevisti, scendere si rivela dunque piuttosto semplice; risalire, invece, presenta all’avventuriero uno scotto non indifferente. È nell’ascesa che si manifesta la maledizione dell’abisso, un insieme di “sintomi da risalita” sempre più numerosi e gravi in rapporto alla profondità raggiunta. Se percorrere a ritroso le poche centinaia di metri del primo strato procura vertigini e nausea, risalire dal quarto provoca dolori insopportabili ed emorragie da tutti gli orifizi; dal quinto, il solo salire pochi gradini senza accortezza porta alla perdita della propriocezione e dei cinque sensi, e spesso – anche se indirettamente – alla morte per le gravi ferite che il malcapitato si autoinfligge senza rendersene conto. Dal sesto strato in poi, invece, la minima risalita, fosse anche di una modesta pendenza, può portare alla morte istantanea o, peggio, alla perdita della propria umanità.
Influenze letterarie
L’abisso è percorribile in due sensi – a proprio rischio e pericolo – soltanto nei suoi primi cinque strati. Lo dice la volontà dell’autore-demiurgo, ma a livello diegetico ne è prova il ritorno in superficie dal quisnto strato di fischietti bianchi come Lyza la Sterminatrice o Ozen l’Inamovibile. Varcare la soglia del sesto, invece, significa lanciarsi in una avventura senza ritorno sfidando la divinità suun terreno ostile all’umanità sotto ogni aspetto.
Da un lato, la calata nel ventre dell’abisso richiama con nettezza la discesa agli inferi, tòpos di tradizione millenaria. Dall’altro, la vastità degli spazi, l’insignificanza della figura umana di fronte alla grandezza della voragine e il miscuglio feroce di terrore e grazia che provoca la sua vista avvicinano il racconto ai temi dell’arte romantica.
Gilgamesh, l’antichità greco-romana e il medioevo europeo
Della discesa agli inferi, o catabasi, si racconta da più di cinquemila anni, fin dall’epopea mesopotamica di Gilgamesh, in un passo della quale il re di Uruk perde i suoi pukku e mekku (un tamburo e la bacchetta per suonarlo, simbolo di regalità). I due oggetti cadono negli inferi e il servo Enkidu si offre di recuperarli per lui. Gilgamesh gli fa le opportune raccomandazioni per il ritorno, ma Enkidu non le rispetta, condannandosi a rimanere negli inferi, da cui potrà uscire solo per intercessione divina.
O ancora la dea sumera Inanna (o Ishtar), scesa nell’oltretomba per porgere alla sorella Ereshkigal, signora degli inferi, le condoglianze per la morte del marito. Lì Inanna viene uccisa e trattenuta, finché non risorge grazie al potere di un’altra divinità. Tuttavia le leggi dell’aldilà le impediscono di lasciare il mondo dei morti senza procurare un sostituto, perciò Inanna condanna a rimpiazzarla il proprio marito, che durante la sua morte non ha osservato il lutto. Le lacrime della sorella di lui la muovono infine a più miti consigli, e decide di assolvere l’uomo; Ereshkigal stabilisce così che il marito di Inanna possa passare metà dell’anno con la moglie e la sorella (la bella stagione) e l’altra metà con lei nell’oltretomba (l’inverno).
Se questo vi ricorda qualcosa, è perché il mito greco di Persefone presenta forti assonanze, frutto di chiara influenza, con il precedente mito sumero. L’antichità letteraria greco-romana è ricca di catabasi: si pensi a Odisseo, sceso per interrogare i morti; Orfeo per recuperare la sua Euridice; Eracle, nella dodicesima fatica, per trascinare Cerbero fuori dagli inferi; Teseo nel tentativo infruttuoso di rapire Persefone; Enea, per incontrare l’anima del padre Anchise e farsi rivelare il futuro.
La tradizione si rinsalda, secoli dopo, con il viaggio di Dante nella Commedia, in cui peraltro il poeta afferma di non essere il primo a cimentarsi, bensì il terzo, dopo Enea e san Paolo.
Tu dici che di Silvïo il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu sensibilmente.[…]
Andovvi poi lo Vas d’elezïone,
per recarne conforto a quella fede
ch’è principio a la via di salvazione.(Inf. II, vv. 13-15, 28-30)
I precedenti letterari sono numerosi e significativi, ma Tsukushi non guarda soltanto all’antichità, innervando l’intera opera dii temi più moderni, peculiari del Romanticismo.
Tsukushi romantico
Uno dei nodi principali che Made in abyss sfrutta a livello narrativo è il concetto di sproporzione: l’abisso è incommensurabile per dimensioni, profondità, complessità e imprevedibilità; i protagonisti lo affrontano comunque, malgrado la loro condizione non solo genericamente umana – e perciò finita, mortale, fragile se vogliamo, di fronte all’esplicita violenza a cui Tsukushi li mette di fronte – ma soprattutto di bambini. Questo mette in gioco un altro fattore cruciale, uno svantaggio intrinseco che Riko e Reg dovranno cercare di compensare: l’inesperienza.
Un viaggio disperato, ma affrontato con l’entusiasmo incosciente dell’infanzia e guidato dalla fame di scoperta nonché da un’irrazionale attrazione verso l’infinito che atterrisce ed esalta allo stesso tempo: il sublime. Questo sentimento teso e vibrante è tipico della poetica romantica insieme al titanismo, disposizione dell’animo che conduce l’essere umano alla sfida estrema contro una potenza impareggiabile, una prova cui l’aspirante tende con tutte le sue forze, malgrado sarà necessariamente sconfitto perché ciò che affronta è al di là della sua portata.
I paesaggi ritratti da Tsukushi sembrano debitori alle opere di Turner o Firedrich e ritraggono una natura maestosa nel suo rivelarsi agli occhi, eppure sempre sfuggente, troppo grande per essere decifrata; l’abisso, a cui la gente di Orth crede di appartenere, è in realtà un luogo di cui l’essere umano occupa niente più di una piccola nicchia, fuori dalla quale, per quanto ardimentoso, è sempre in balia di forze più possenti – che siano animali feroci e dalle incredibili capacità sensoriali o un ambiente ostile, in cui vige un crudelissimo darwinismo.
Materia
È così: scendere nell’abisso è una vertiginosa gara di adattamento, nella quale vince il migliore ad adeguarsi alle circostanze, facendo buon uso delle proprie risorse e di ciò che offre il contesto. Riko può contare su Reg e sulle sue abilità, non scevre da inconvenienti che si ritorcono spesso sui due protagonisti con conseguenze talvolta molto spiacevoli.
Tsukushi non lesina sui dettagli corporei: sofferenza fisica, sangue e umori compaiono sulla pagina, che riflette, libera da un certo pudore fiacco e perbenista, la disperazione di alcune situazioni. Lontani dalla civiltà, una ferita aggravata da un potente veleno può decretare la morte, perciò – come accade a Riko, ferita alla mano in Made in Abyss 3, cap. 19 – la scelta si riduce a due opzioni da vagliare in fretta e sotto una pressione intollerabile: un estremismo o un compromesso, la morte o l’amputazione (con espedienti di fortuna) dell’arto ferito.
Riko sceglie la seconda e Reg, dopo una comprensibile esitazione, accetta di fare ciò che deve: frattura il braccio di Riko per essere meglio in grado di asportarlo con un coltello. Il tutto senza anestesia se non quella indotta dallo shock.
È questo un altro punto di forza di Made in abyss, la volontà di non addolcire il fiele con il miele. Una situazione disperata richiede spesso una risoluzione disperata; il dolore esiste; le scelte impossibili altrettanto, e nel mondo (nel mondo reale, intendo) molte più persone di quelle che crediamo sono chiamate a compierle. Inoltre mettere in scena la corporeità, attentare con il linguaggio universale del dolore alla materia di cui siamo fatti, annulla ogni diaframma psicologico: siamo più simili nel corpo di quanto non lo siamo nella mente, temiamo la sofferenza, fuggiamo quando la vediamo arrivare, non riusciamo a reprimere la paura quando siamo costretti ad accoglierla, e se la mente può elaborare infinite strategie per evitarla o sopravviverle, siamo passivi al dolore del corpo, non possiamo non provarlo se veniamo colpiti, ne siamo in completa balìa, e questo sentimento comune ci coinvolge maggiormente e ci fa partecipare a un collettivo inorridire.
Terrore e meraviglia
Il bastone e la carota: Tsukushi riempie gli occhi del lettore di terrore e pena, ma anche di entusiasmo e meraviglia. Se è vero che tutte le storie sono già state raccontate e che da qualche migliaio di anni non facciamo altro che produrre variazioni sul tema, quella del sensei è senza dubbio una delle mie preferite. E non è ancora finita: stando all’autore, allo stato attuale Made in abyss è arrivato circa alla metà della sua parabola. Dobbiamo quindi aspettarci una ventina di volumi in tutto; inoltre, in quanto a pubblicazioni siamo in pari con il Giappone con uno scarto di sei, sette mesi (il volume 11 è uscito in patria a luglio 2022; J-Pop conferma l’uscita italiana all’inizio 2023). Se la cadenza si confermasse, dovremo attendere quantomeno la fine del decennio per vedere conclusa la storia. È una prova di pazienza che potrebbe scoraggiare molti, ma a cui alcuni lettori, soprattutto se appassionati a serie come per esempio Hunter × Hunter, sono piuttosto versati. Attenderemo.
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Note
[1] Il volume 6 esce in Giappone il 29 luglio 2017 e fin da subito può godere della spinta data dalla trasposizione animata, le cui trasmissioni, a quest’altezza, sono già iniziate da tre settimane.