L’umano per ipotesi
Le cose sarebbero potute andare in maniera diversa. Tra le incalcolabili possibilità, determinate dalle interazioni di miliardi di individui tra loro e con l’ambiente, nel corso del tempo specifiche variabili negli eventi si sono disposte in una configurazione a cui oggi diamo il nome di storia. Ma era ovvio che finisse così? Che arrivassimo al punto in cui siamo ora, in queste precise condizioni e non in altre? Erano ovvie le premesse da cui il mondo ha preso l’abbrivio per diventare ciò che conosciamo?
È già un caso piuttosto fortuito che sulla Terra sia nata la vita. Per una incredibile concatenazione di eventi, un agglomerato di minerali vagante nello spazio si è trovato alla giusta distanza da una comunissima nana gialla; e curiosamente, questa condizione, insieme ad altre e altrettanto improbabili, è durata abbastanza a lungo perché i costituenti elementari della vita presenti su quell’agglomerato si aggregassero a formare i primi organismi.
A pensarci, mi dà le vertigini constatare che io – proprio io che sto scrivendo – sono qui, ora, alla tastiera del mio portatile perché sessantacinque milioni di anni fa la specie dominante dell’epoca si è estinta in favore dei progenitori della mia. Certo, il legame tra l’avvento dei mammiferi e la nostra esistenza particolare non è proprio diretto, ma, insomma, c’è un lungo filo rosso che parte da chissà quando nel passato e arriva fino a noi ininterrotto: otto miliardi di fili rossi.
In un universo in cui il buio, il freddo, il silenzio e la morte dominano su tutto e da sempre, tu – intendo la tua specifica e rarissima combinazione genetica che ti rende quello che sei e non un’altra persona – tu, dicevo, esisti. Quante probabilità c’erano che venissi al mondo proprio tu? O proprio io, così come siamo? Poche: parrebbe una su quattrocento quadrilioni (1/400.000.000.000.000.000.000.000.000), e questo al netto del fatto che le stesse statistiche si debbano applicare all’esistenza dei nostri genitori, dei loro e a quella di ciascuno dei nostri antenati, cosa che porta le nostre personalissime chance di esistere qui, ora e in questa forma a circa una contro 102645.[1] Sono calcoli a spanne, s’intende, la vera entità delle variabili che avrebbero potuto metterci i bastoni tra le ruote è inconcepibile. Ma tant’è: noi ci siamo, e questo per ora è un fatto.
E se invece…?
Se però la storia avesse preso un altro sentiero?
La storiografia tende a non porsi domande come queste. In quanto scienza, rifiuta come non scientifiche le teorie che ignorano il principio di falsificabilità, per il quale un’ipotesi è considerata scientifica qualora si possa formulare almeno una controipotesi che la confuti, nel caso in cui sia errata. Da un punto di vista linguistico il concetto è altrettanto chiaro: l’interrogativa “se fosse andata diversamente, che cosa sarebbe successo?” è un perfetto esempio di ipotetica del terzo tipo, anche detto “dell’irrealtà”, perché si interroga su eventi irrealizzabili.
In parole povere, ai fini della storia è poco utile – per quanto molto interessante – chiedersi “e se invece…?”: forse le cose sarebbero potute andare in un modo, ma sono andate in un altro: Cesare ha sconfitto Pompeo, i congiurati di Bruto hanno ucciso Cesare, i barbari hanno invaso l’Impero, la peste ha decimato l’Europa, i cattolici hanno riconquistato la Spagna, Luigi XVI è morto sulla ghigliottina, Napoleone ha perso a Waterloo, Princip ha sparato all’arciduca, l’Olocausto è avvenuto, nel ’45 gli Alleati hanno vinto la guerra… E non c’è revisionismo (o negazionismo) che possa cambiare i fatti.
Ma al di là delle rigidità accademiche, esiste una branca della storiografia nota con il nome di storiografia controfattuale che si occupa proprio di immaginare “cosa sarebbe successo se…”. Non è un esperimento facile e, come ho detto prima, non è suscettibile al rigore empirico, dal momento che non è possibile viaggiare a ritroso nel tempo per tentare di invalidare l’assunto di partenza; tuttavia chi si presta a una disamina controfattuale della storia deve esercitare una logica quanto più ferrea possibile.
Ma se le teorie controfattuali non si possono confutare, che cosa garantisce la qualità dell’esperimento?
Innanzitutto bisogna fare un distinguo: che tipo di opera controfattuale stiamo leggendo? Finzione, certamente. Ma di che taglio? È un romanzo? Oppure un saggio?
Ipotizziamo che sia un saggio, per esempio il recentissimo (almeno in edizione italiana) Fuga dall’impero[2] di Walter Scheidel: in questo caso, oltre alla comprovata serietà dell’autore, è l’intento stesso con cui si affrontano ricerca e stesura ad assicurarci che lo studio è stato condotto con rigore. Una formulazione superficiale e raffazzonata di scenari controfattuali a sostegno della tesi portante del libro (che la caduta dell’Impero romano non abbia segnato un drammatico arresto nello sviluppo dell’Occidente, bensì abbia favorito l’Europa nel raggiungere i fasti che conosciamo[3]) invaliderebbe l’intero lavoro, relegandolo alla stregua di un prolisso, inutile esercizio di fantasia.
La svastica sul sole
***Può contenere tracce di spoiler***
Con un romanzo, invece, le cose sono un po’ più complesse: le intenzioni dell’autore possono essere le più diverse, si torna nel regno del possibile, ed è più difficile individuare una regola generale a cui sottostia la narrazione.
Prendiamo La svastica sul sole[4] di Philip K. Dick. Il romanzo fonda la sua intera contestualizzazione su una gigantesca premessa controfattuale, ma al contempo non ha alcun proposito di indagine storiografica. La sua reductio ad absurdum non aspira a raccontarci “come andrebbebbero le cose se”, o meglio non ha tra i suoi intenti il raccontare una nazione, un continente o il mondo intero nei particolari, spiegandoci come sono cambiati i luoghi, gli usi, le infrastrutture, le istituzioni, l’economia dopo che un bivio ha dirottato la storia altrove dal percorso che conosciamo. Il fuoco del romanzo è leggermente spostato.
1962, la Seconda guerra mondiale è finita da quindici anni e nemmeno l’ombra della Guerra Fredda aleggia sul mondo, perché l’Unione Sovietica non esiste più (dal 1941), così come gli Stati Uniti (capitolati nel 1947). Le potenze dell’Asse hanno vinto il conflitto e il globo è stato spartito tra i vincitori. L’Italia fascista ha mantenuto una discreta autonomia – comunque subordinata al Reich – e ottenuto qualche concessione territoriale in Africa e Medioriente; il resto del pianeta è stato diviso tra la Germania nazista (che governa l’Europa, la metà occidentale dell’Asia, la fetta nordorientale dell’America latina e la parte orientale degli Stati Uniti) e l’impero Giapponese (che domina il resto dell’Asia, l’Oceania, l’America latina sudoccidentale, California e Alaska).
Delegare l’esistere
Su questo scenario si dipanano le vicende di poche figure principali, obbligate a muoversi con circospezione in un mondo ostile, razzista e più pericoloso di quanto sia mai stato.
La narrazione alterna con sapienza una voce esterna a quella interiore dei personaggi, che quasi al pari dei dialoghi, ha il compito di portare avanti il racconto attraverso le complesse considerazioni dei protagonisti, spesso contesi tra la volontà di agire e un inesorabile determinismo, evocato dall’antichissima tradizione orientale dell’I Ching.
La vicenda si concentra quasi totalmente tra San Francisco e gli Stati delle Montagne Rocciose, l’ampia fascia centrale degli ex Stati Uniti rimasta neutrale; in ogni caso tutti i protagonisti hanno un legame con gli Stati del Pacifico, a cui appartiene appunto la California, occupati e ormai dominati anche culturalmente dal Giappone.
Nella nuova America nipponica è consueto anche per gli occidentali affidarsi al responso dell’oracolo consultando il Libro dei mutamenti (I Ching) prima di intraprendere un’azione importante. Pur essendo introdotta e trattata con rispetto dall’autore, la pratica plurimillenaria della divinazione è un elemento lontano dalla cultura degli “occupati”: permeata in maniera forzosa (ma non violenta) nei loro usi, segna in qualche modo la resa del libero arbitrio nonché dell’esasperato (e distorto) ideale americano dell’autodeterminazione: il fatto che Juliana si affidi al lancio di tre monete per indirizzare la sua ricerca sembra rappresentare il cedimento della ragione al bisogno di conferme. L’essere umano non è più padrone del proprio viaggio, non può più fare affidamento sulle proprie decisioni; d’altra parte se l’Asse ha vinto la guerra, significa che l’umanità ha perso.
Hawthorn Abendsen, il famigerato uomo nell’alto castello e autore del romanzo La cavalletta non si alzerà mai più, vietato in tutti i territori del Reich, assomiglia a Juliana. La ragazza ha letto il suo libro e proprio per questo lo sta cercando: La cavalletta racconta una realtà alternativa in cui gli Alleati vincono la Seconda guerra mondiale, ma come in un gioco di scatole cinesi, Abendsen imposta uno scenario doppiamente controfattuale, dal momento che il mondo del suo romanzo, pur avendo sconfitto i nazifascisti, non è il nostro, bensì è conteso tra i liberali e tolleranti Stati Uniti e un impero britannico razzista e più colonialista che mai. Ma il mondo fittizio di Abendsen non è frutto di una fantasia affamata di libertà – civile, politica, esistenziale –, bensì di una consultazione assidua del Libro dei mutamenti, il quale ha determinato a tal punto ogni aspetto dell’opera (ambientazione, epoca, vicende, intreccio), da renderla propria, ribaltando la prospettiva: è l’oracolo ad aver scritto la Cavalletta per tramite di Abendsen, e non il contrario. Il senso e le implicazioni di questa considerazione, li lascio alla lettura del romanzo.
Childan (e Frink)
Se da una parte c’è chi ha accolto le tradizioni degli occupanti, dall’altra c’è chi è ancora dolorosamente legato alla propria identità americana. È il caso dell’antiquario Robert Childan e dell’artigiano Frank Frink, i quali, partendo da una base comune di sofferenza per l’usurpazione identitaria perpetrata dai giapponesi, arrivano per primi a intaccare il sistema distopico che li ha resi sudditi.
Childan è forse il personaggio più interessante di questo romanzo perché è quello dalla psicologia più complessa: antiquario americano che commercia in manufatti americani, nutre un forte attaccamento verso il proprio Paese. Il sentimento verso l’occupazione giapponese, invece, è ambiguo: la sottomissione forzata a un’etnia che, da razzista qual è, Childan considera inferiore è inaccettabile, ma la tagliola lo chiude in trappola quando matura una fascinazione per la cultura degli invasori. Una cultura millenaria, raffinata, il cui prestigio è schiacciante nei confronti della povertà dell’America, che può vantare appena qualche cimelio di guerra e oggetti appartenuti a poche grandi personalità del passato. La storicità della cultura giapponese, la sua pienezza estetica e concettuale sono soverchianti, il suo valore intrinseco supera di molte misure quello dii pallidi souvenir d’epoca del negozio di Childan, e questo per lui è intollerabile: come conciliare un’indole suprematista con una inedita attrazione per il sistema culturale che ha sovrascritto il suo?
Childan non è uomo d’azione, anzi è un pavido, ma proprio in virtù di questo ha sviluppato un’eccellente capacità di adattamento: come molti ha assimilato i costumi dei Giap, unendoli a un’innata propensione al compiacimento del prossimo. Tuttavia ciò non gli impedisce di accostare alla reverenza un meccanismo di vendetta passivo-aggressiva, una strategia che colpisce i Giap in modo indiretto, senza che se ne avvedano, con lo scopo di ridimensionare la loro presunta superiorità agli occhi dell’uomo. Dopo essersi accorto di essere stato truffato dai suoi fornitori con cimeli falsi, Childan decide di vendere comunque i suoi oggetti ai giapponesi, facendo leva sulla loro passione per la storia americana e genericamente occidentale – perfetta controparte della moda delle chinoiserie e del japonisme –, nonché sulla loro spiccata ignoranza in materia, per fare profitto e ottenere rivalsa, propinando ai suoi clienti gingilli privi di qualsiasi valore, anche commerciale.
La sua azione potrebbe apparire rivoluzionaria – in fondo la California è un Paese occupato – ma Childan è solo un piccolo e rancoroso reazionario che non ha i mezzi né le forze per combattere, e cerca il suo riscatto nel piacere della beffa.
Ma quella stessa beffa gli si ritorce contro quando Paul Kasoura, Giap altolocato, stimato e a un tempo odiato cliente del suo negozio, gli mostra una spilla informe, prodotta dalla sconosciuta gioielleria EdFrank, messa in piedi da un certo Frank Frink con l’amico Ed McCarthy. La stessa spilla che Childan aveva inviato in dono a Betty, la moglie di Kasoura, di cui è segretamente (e colpevolmente) innamorato. Quel pezzo di metallo fuso e senza forma, intercettato da Paul, non ha mai raggiunto la donna. Kasouora l’ha tenuto dopo essere stato folgorato da un’idea: produrre in massa oggetti del genere e rivenderli a basso prezzo come amuleti portafortuna, insomma allargare il mercato anche ai meno facoltosi, mescolare moda e superstizione, in un guizzo di modernità quasi profetica. Childan accetta, ma non impiega molto a rendersi conto di cosa comporti la sua scelta: «Questo pezzo è stato fatto a mano da qualche artigiano americano, non è vero? Con il lavoro del suo corpo? […] Immagino che sognasse qualcosa di diverso per il suo lavoro» afferma Kasoura, ed è allora che Childan comprende il cinismo della trappola in cui è caduto. Ancora una volta è stato indotto ad abdicare a sé stesso; Kasoura ha appena ammesso di riconoscere il valore di un’opera di vero artigianato americano e ciononostante è intenzionato a svilirla come stampella di design alle credenze popolari. Schiaffo morale e sopraffazione, eseguiti con una grazia magistrale al punto che quasi non provocano dolore mentre distruggono l’animo di Childan.
Mi ha fatto a pezzi. Ha umiliato me e la mia razza. E io non posso farci niente. Non posso vendicarmi di tutto ciò; noi siamo sconfitti e le nostre sconfitte sono come questa, così impalpabili, così delicate che riusciamo appena a rendercene conto. In effetti dobbiamo fare un bel salto evolutivo, per capire ciò che è veramente successo.
L’antiquario è sull’orlo dell’annichilimento. Ciò che disprezza, e che ha appena sferrato un colpo fatale al suo animo, resta al centro della sua venerazione, in un paradosso che lo divora dall’interno. Ma è nel momento di quest’acme psicologico che realizza di aver ricevuto da Kasoura un phàrmakon, veleno sì, ma anche rimedio miracoloso, che gli permette di risollevarsi:
«Io sono orgoglioso di questo prodotto […] Gli uomini che hanno creato questa spilla […] sono artisti americani, orgogliosi di esserlo. Me compreso. Proporre di farne un amuleto da quattro soldi, significa insultarci, e io chiedo le sue scuse. […] Le esigo.»
Childan finalmente vede negli oggetti informi di Frank Frink il rinascimento della cultura americana, e tanto gli basta per infrangere persino il protocollo sociale e rivolgersi a un suo superiore (moralmente, culturalmente, etnicamente superiore) in modo tanto perentorio. Per quanto possa sembrare modesto, è un passo avanti nell’affrancamento dal giogo dei Giap e da un passato che garrisce solo se si continua ad agitarlo come una bandiera, ma che non produce niente se non la dolorosa consapevolezza di quanto altri, in un tempo che non tornerà, siano stati più grandi e più capaci.
L’artigianato di Frink è l’impulso generativo che si irradia nei tessuti di una cultura sfiancata, impoverita e vendicativa, ma che ora può finalmente coltivare una prospettiva di pacifico riscatto.
Non è dunque la geopolitica il fulcro della Svastica sul sole, quanto piuttosto un controfattuale sociale, umano. I risvolti internazionali di un’ipotetica vittoria dell’Asse sono già dati, vengono citati ma mai davvero approfonditi, in favore della loro ricostruzione, un tassello alla volta e lentamente, sulla base dell’umanità che popola le pagine del romanzo. Il mondo della Svastica sul sole si ricava per induzione a partire dal particolare, dalle cose minute: i personaggi. Non è un romanzo d’azione: Childan, Frink, Juliana, Abendsen, Tagomi e Baynes (che non ho citato) conversano e riflettono sulle situazioni, tratteggiando a poco a poco una realtà terrificante e intollerabile, ma più che plausibile se solo le cose fossero andate in maniera diversa.
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Note
[1] Per avere un riferimento, si stima che l’universo osservabile contenga “appena” 1080 atomi, ovvero cento milioni di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di particelle, una cifra a ottanta zeri.
[2] Esce nel 2019 con il titolo Escape from Rome: The Failure of Empire and the Road to Prosperity per la Princeton University Press (Princeton, NJ). In Italia è disponibile dal 26 agosto 2022, edito da Luiss University Press (Roma).
[3] Perché è un fatto che, pur con tutti i problemi dell’attualità, stiamo incomparabilmente meglio di chiunque ci abbia preceduto nella storia: mangiamo meglio, viviamo meglio, più a lungo e più in salute, la tecnologia ci garantisce un tenore di vita impensabile anche solo trent’anni fa.
[4] Raro caso in cui il titolo italiano è molto più calzante del titolo originale, The man in the high castle o L’uomo nell’alto castello, che la Mondadori ha mantenuto nella sua riedizione 2022 per la collana Oscar Moderni Cult (traduzione di Marinella Magrì), a differenza della riedizione Fanucci (2019, Collezione Dick, traduzione di Maurizio Nati) che ho letto io.