Wu Ming 4 e il canone proteiforme dell’eroe
Da vent’anni in qua, con l’avvento dei super-eroi cinematografici, che hanno aperto le porte di universi narrativi tipicamente fumettistici a un pubblico molto più ampio dei fruitori del fumetto e che magari, prima dello Spider-Man di Raimi (2002) non aveva mai aperto un albo, la parola “eroe” è sulla bocca di tutti più o meno quotidianamente. E al netto dei loro (super)poteri, l’idea che gli eroi danno di sé è sempre e comunque quella dei difensori, se non dei salvatori. Non sono le loro peculiarità a qualificarli, almeno non in senso profondo. Certo, Spiderman in quanto uomo-ragno indossa un costume a tema e spara ragnatele; Captain America veste a stelle e strisce, è incredibilmente prestante&virtuoso e si porta appresso un carico ideologico non indifferente; Tony Stark è un americanissimo “genio, miliardario, playboy, filantropo”, inventore di un prodigioso deterrente bellico che fonde meccanica ed elettronica d’avanguardia. Questo accade nel colorato e frizzante MCU, dove la gente comune ripone la propria speranza in altra gente in calzamaglia (o, un po’ alla vecchia maniera, in armatura).
Nel desaturato e serioso DCU, invece, un tizio vestito da pipistrello si aggira di notte per una Manhattan sotto mentite spoglie, tenebrosa, corrotta e irrecuperabile (più simile a Detroit, in effetti…), calando dall’alto sui propri nemici. Non c’è speranza per Gotham, afflitta da una criminalità capillare e cancerosa contro cui Batman si scontra, ma che non riuscirà mai davvero a eradicare (a meno di non volerla smettere con i reboot, i what-if ecc.)[1]. Il popolo guarda all’uomo-pipistrello come a un vigilante, forse se ne sente rassicurato, ma sa che in fondo il suo intervento non sarà mai risolutivo. Ad ogni modo, al di là delle declinazioni individuali, che spari raggi laser dagli occhi, o ragnatele dai polsi, che sappia volare o si appenda a rampini nella notte, oggi l’eroe è colui che difende (o che prova a difendere) la comunità dal male incarnato, sia esso un pazzo criminale o un alieno distruttore, accompagnati dalle rispettive bande di invasati. Un buono, dunque, un puro e un idealista, che magari ha combinato pure qualche marachella, che ha quasi sempre un dolore celato e qualche vizio che solo agli occhi di un perbenista potrebbe far scadere la sua caratura morale: nessun compromesso con l’umanità che alberga in lui.
È davvero questo l’eroe? O meglio, è davvero soltanto questo? Una macchietta, più o meno approfondita a posteriori, opposta al male come il giorno è opposto alla notte? O che si fa carico di custodire (reclamizzare ed esportare) valori culturali e politici? Insomma, un’insegna o una pirotecnica proiezione di ciò che vorremmo essere?
Chi è l’eroe?
In diverse lingue indoeuropee, soprattutto nelle lingue romanze, ma anche in altre (germaniche, slave, baltiche, isolate…) la parola “eroe” è resa in maniera molto simile, a testimoniare una altrettanto simile tradizione o un più recente prestito: heros in latino, héros in francese, erou in rumeno, herói in portoghese, héroe in spagnolo, heroi in basco, hero in inglese, herojus in lituano, varonis in lettone, герой (heroj) in ucraino, герой (gheroi) in russo, ήρωας (ìroas) in greco moderno… Tutte queste forme hanno un vicino parente nel greco antico ἥρως (hèros)[2], “signore”, “principe” o “eroe”, per l’appunto, inteso come uomo valoroso in battaglia. A sua volta, il vocabolo deriva dalla più antica forma ϝηρως (vèros) il cui digamma (ϝ)[3], negli esiti moderni, è scomparso (come in italiano), si è trasformato in una aspirata (la “h” iniziale di latino, francese, inglese ecc.) o, in rari casi, si è conservato (come nel lettone varonis). A sua volta, ϝηρως attesta le sue origini nel sanscrito vīra (वीर), “uomo”, “capo”, o in maniera più estesa “uomo coraggioso e valente”, insomma un esempio da cui farsi guidare. La radice sanscrita, peraltro, sopravvive nel latino vir (uomo), da cui discendono parole come “virile”, “virilità”, “virtù” (anticamente intesa nel senso più ristretto di coraggio, forza o prestanza), ma anche nel gotico wair o nel sassone wer, sempre con il significato di “uomo”, rintracciabile in moderne parole inglesi come werewolf, tradotto generalmente come “lupo mannaro”, ma in maniera più esatta come “uomo-lupo”; o ancora in guidrigildo, italianizzazione – attraverso il filtro latino – dell’alto tedesco wergeld (nel diritto germanico, la penale da pagare per l’uccisione di un uomo alla famiglia del defunto), composto di wer (uomo) e geld (prezzo).
Insomma, da un punto di vista strettamente semantico, alla parola “eroe” afferiscono numerosi concetti legati alla sfera dell’uomo guerriero, forte e carismatico, già in partenza lontano dall’accezione di difensore. E certo questo è un aspetto da tenere presente, ma allo stesso tempo si tratta della base di innesto per ramificazioni ulteriori e sempre più complesse, che in secoli di letteratura hanno portato alla distillazione di un archetipo assai meno monolitico e piatto di quanto oggi venga percepito.
L’eroe di Wu Ming 4
Nella raccolta di saggi intitolata L’eroe imperfetto, l’autore Wu Ming 4 rintraccia l’archetipo letterario dell’eroe e, attraverso un corpus di letture trasversali – tanto nella storia della letteratura quanto nei temi – ne fornisce un identikit appunto imperfetto (nell’accezione latina di “non finito”, cioè non esaurito né che ambisce a esserlo, e dunque meravigliosamente plurale), in antitesi al senso comune che guarda all’archetipo come a un modello statico, interpretabile, anche retroattivamente, a seconda del contesto socio-culturale che vuole produrre nuovi eroi o reinterpretare i vecchi come figure di comodo. L’idea di fondo è quella secondo cui,
per quanto l’eroe rimanga indispensabile nelle narrazioni, non è una figura scontata, ma inevitabilmente problematica, sfaccettata, contraddittoria.[4]
Anzi, meglio:
A conti fatti questo percorso a tappe attraverso le narrazioni non pretende di definire un canone alternativo. Prova invece a offrire uno spunto per uscire dalla falsa dicotomia a cui oggi ci si vorrebbe condannare: da un lato il preteso monopolio di ogni approccio epico-narrativo da parte delle visioni confessionaliste e rozzamente ideologiche, le quali subordinano le storie a una prospettiva allegorica e teleologica; dall’altro il disincanto post-moderno e il minimalismo dell’umano senza qualità.[5]
Il volume esce originariamente nel 2010, per la casa editrice Bompiani, che nel 2022 ne ripropone una nuova versione riveduta e ampliata, contenente i tre saggi originari più un nuovo racconto breve, La parte di Loki, «che fa tesoro degli elementi e delle riflessioni contenute nei saggi precedenti».[6] La disamina della matrice eroica attraversa le più distanti letterature: dall’epopea di Gilgamesh al racconto omerico; dalla tragedia classica al ciclo arturiano; dal Don Chisciotte al Melville di Moby Dick, al Tolkien del Signore degli anelli… Di eroi ce ne sono molti, nessuno sembra scaturire da uno stampo immutabile né dirigersi verso la medesima destinazione. Quindi chi o che cos’è l’eroe? Cosa fa per essere tale? Esiste una formula per descriverne l’essenza, isolarla e riconoscerla in alcuni semplici tratti ricorsivi? Mi sono fatto queste domande mentre leggevo L’eroe imperfetto, sulla cui scorta ho cercato di ragionare ed elaborare una risposta, a cui però non sono ancora giunto, ma alla quale tento di avvicinarmi per approssimazione. È un tema vasto, sul quale ho collezionato finora nient’altro che spunti, ma che il volume di Wu Ming 4 mi ha aiutato a coltivare con un ventaglio, come detto, atipico nella scelta dei riferimenti letterari, di per sé stessi grandiosi e impossibili da aggirare: si può soltanto attraversarli e lo facciamo a ogni nostra lettura, inevitabilmente debitrice dell’epica classica e cavalleresca, della tragedia greca, del romanzo storico e d’avventura così come di quello riduttivamente definito fantastico – Tolkien, si capisce; il cui corpus, se proprio vogliamo indulgere in classificazioni, sarebbe più giusto definire “epica tolkeniana”.
Paradigmi eroici
Gli eroi omerici
Nella storia letteraria i paradigmi di eroismo si succedono e si alternano senza soluzione di continuità ed è soltanto la breve portata del nostro sguardo, eventualmente, a impedirci di riconoscere questo avvicendarsi come un flusso. All’eroe dell’ego e della violenza guerriera dell’Iliade, subentra quello odissiaco dell’ingegno e dell’astuzia che, pur non essendo avulso da spargimenti di sangue (il massacro che Odisseo fa dei Proci è emblematico in questo senso), non partecipa dell’intrinseca brutalità di Achille. Entrambi gli eroi omerici però sono accomunati da una certa boria, una superbia che sfiora l’empietà[7] e che non a caso li condanna a un amaro contrappasso: Achille vittima della freccia di Paride, guidata dal dio Apollo; Odisseo tormentato in vita da Poseidone, nella morte, invece, dannato nell’inferno dantesco per l’uso sconsiderato ed empio del massimo dono che Dio ha elargito all’uomo, l’intelletto.
Il pius Aeneas
Il paradigma si rivolta nuovamente nel mito fondativo romano, il cui campione, Enea[8], pur guerriero valoroso, non è l’eroe della forza né della finezza d’ingegno, bensì della pietas, la devozione verso gli dèi, la famiglia e gli antenati. Enea è l’uomo di cui ci si può fidare, perché accanto alla prestanza e al carisma, pone il rispetto verso le forze superiori che regolano il mondo, e la sua rettitudine lo renderà eroe leggendario, fondatore della dinastia che, molto dopo di lui, secondo il mito, darà vita a Roma.
Le donne, i cavalier, l’arme…
La pietas torna ad animare l’eroismo letterario nell’epica cavalleresca, ma stavolta assume un segno diverso, si avvia verso la profanità, prosperando tra le maglie del codice di valori feudali a cui vengono subordinati i rapporti fra gli uomini. Tramontata l’epoca dei vasti imperi universali, le entità territoriali si frammentano e si moltiplicano; gli eroi tornano a essere guerrieri che lottano per la terra in nome del loro sovrano e di Dio, naturalmente, ma il portato delle loro gesta si riduce da ecumenico a territoriale, anzi, con un guizzo all’indietro, persino individualista: nascono i paladini, desiderosi di gloria personale, ma stavolta, diversamente da Achille, fedeli a un’inflessibile etichetta morale che, se disattesa, prospetta una punizione esemplare. È il caso della leggenda di Sir Gawain e il Cavaliere Verde, in cui Galvano è chiamato a onorare la parola data contro lo spettro della tentazione. Tre volte viene sedotto, ma soltanto alle prime due prove riesce a resistere. Il suo cedimento al terzo assalto, tuttavia, è dovuto non a malvagità ma al desiderio di salvarsi la vita, perciò la punizione che lo aspetta viene mitigata in un severo ammonimento a non dimenticare mai la propria debolezza e vergogna. In questo racconto il sistema di valori cristiani di Galvano (le frequenti invocazioni alla Vergine) si intreccia e confligge con il retaggio mistico-pagano (la tentazione sessuale da parte di una donna ammaliatrice, donatrice di un artefatto magico – la verde cintura di seta che garantisce salva la vita contro ogni ferita mortale), delineando un nuovo eroismo che «rappresenta la critica e il superamento del prototipo virile tradizionale»[9], ovvero un modello che trova nel contributo se non nell’agire diretto, materiale, del femminile una nuova e ferma declinazione. Non a caso, già a partire dall’XI secolo, il femminile è motore generativo della letteratura cortese – penso alla poesia trobadorica e trovieristica, alla poesia dantesca e petrarchesca, ai poemi cavallereschi fra Quattro e Cinquecento… e, come ben ricorda anche Wu Ming 4, a Tolkien. Il trittico di saggi si conclude infatti con un’analisi del ruolo di tre personaggi femminili fondamentali nella saga della Guerra dell’Anello: Baccadoro, Galadriel ed Éowyn.
Baccadoro
La prima, ninfa dell’acqua, intrattiene forse il più mistico dei legami con la magia, è emanazione della divinità femminile e generatrice (il legame con l’acqua non è casuale) e adombra l’archetipo della strega bianca – curioso il filo etimologico tra la strega e il salice: Baccadoro è definita dallo sposo, Tom Bombadil, «Bacchetta esil di salice e più dell’acqua chiara»[10]; dalle parole stesse di Wu Ming 4, si apprende che il salice, willow in inglese, condivide la radice con withe (vimini, con cui le streghe legano le loro scope) e con witch (strega, appunto). Baccadoro accoglie Frodo, Sam, Merry e Pipino nella propria casa, dopo che Bombadil li ha salvati dal vecchio Uomo-Salice (di nuovo, non a caso, il salice), e li ristora. Il legame della ninfa con il bene e la magia bianca si esprime, oltre che nella bontà, nel suo aspetto gentile e nella sua bellezza[11], nonché nel legame con Tom Bombadil, creatura misteriosa che trascende il tempo ed è immune dalle influenze malvagie dell’Unico Anello, tanto da poterlo maneggiare con assoluta naturalezza.
Galadriel
Segue la regina degli elfi di Lórien, la bianca Galadriel, che sarà tentata dall’Anello ma saprà resistergli, superando la prova suprema al prezzo della lenta e progressiva perdita dei suoi poteri. In quanto elfa, il suo legame con la luce è forse ben più palese di quello di Baccadoro, e il suo imprescindibile aiuto si concretizza in doni inestimabili per la Compagnia: le barche elfiche, che rinnovano nei protagonisti la speranza ormai fiacca e li incoraggiano al viaggio; il lembas, prodigioso pane elfico che ripristina le forze di chi lo mangia; a Sam Gamgee, la dama dona una scatola di terra di Lórien, che permetterà allo Hobbit di rendere fertile anche il terreno più inaridito (di nuovo, un potere generatore); a Frodo invece Galadriel dona una fiala riempita con l’acqua della sua fonte, in cui risplende la luce della stella Eärendil, indispensabile agli hobbit per sconfiggere Shelob al passo di Cirith Ungol.
Éowyn
Infine Éowyn, nipote di Theoden, il re di Rohan, ed eroina dei Campi del Pelennor. Éowyn non è dotata di magia, è un essere umano e le sue qualità si esprimono nella tenacia, nella forza di volontà, nel coraggio, nella risolutezza e nell’amore verso la propria casa, che la spinge a lottare per difenderla, in deroga all’uso tutto maschile nei confronti della guerra, tanto da arrivare a travestirsi da guerriero per passare inosservata tra le file degli Eorlingas. Nella battaglia dei campi del Pelennor, alle porte di Gondor, in cui le forze di Sauron cingono d’assedio la città, Éowyn sfida il capo dei Nazgûl, il Re stregone di Angmar, forte, oltre che del favore del Signore Oscuro, anche di un’antica profezia secondo cui non sarebbe morto per mano di uomo. Ma Éowyn è una donna, dunque la sola in grado di sovvertire la profezia e sconfiggerlo, assestando un colpo fatale alle schiere nemiche.
La parte di Loki
La raccolta si conclude con questo racconto finora inedito. Ciò che desta subito attenzione nel titolo è il nome della divinità norrena Loki, il trickster, l’ingannatore, colui che possiede e incarna la radice della malvagità, e che durante il Ragnarok guiderà le forze del male. Le varie fonti sembrano contraddirsi sulla sua natura: ora giunge in aiuto di Odino e Thor, ora si burla di loro, ora commette il più atroce dei delitti manipolando il cieco Hodr perché uccida con una freccia il Baldr, fratello minore di Thor e dio benevolo e solare. Loki è un personaggio ambiguo, vile e assassino, ma anche colui che, seguendo una certa tradizione diciamo pure “prometeica”, avrebbe donato il fuoco all’umanità; non solo: malgrado sia stato radiato dal culto (Gianna Chiesa Isnardi[12] fa notare come non ci siano toponimi o tracce riconducibili al nome di Loki nella cultura contemporanea che conserva la memoria delle credenze norrene – al contrario di altri ancora presenti in alcune lingue germaniche Wednesday, il giorno di Wotan/Odino; Thursday/Donnerstag, il giorno di Thor/Donar; o ancora Friday/Freitag, il giorno di Freyja), appartiene al pantheon norreno, eppure la sua progenie ha tratti demoniaci e perversi (Hel, Fenrir, Sleipnir, per citare alcuni suoi figli).
Ecco, Loki è il protagonista di questo racconto, è l’eroe che agisce sullo sfondo di un Nord Europa afflitto dalla Seconda Guerra Mondiale, e che non sarà chiamato a combattere, ad affermarsi, né dovrà adoperare l’intelletto, dimostrare fede o rettitudine (impresa semplice, per lui, questa), bensì dovrà scegliere. Lui che dall’inizio dei tempi ha militato in ogni fazione e in nessuna, lui che ha tradito e soccorso con uguale facilità, di fronte al male assoluto che dilania l’Europa è chiamato a decidere quale parte avere negli accadimenti. La parte di Loki narra dell’impossibile che si rovescia e diventa non solo realizzabile, ma necessario, perché è il mondo stesso ad aver superato il limite e a rotolare adesso sull’orlo di un baratro di oscurità dal quale sia uomini sia dèi rischiano di non uscire mai più. In altre parole, La parte di Loki racconta di una sempre più impellente necessità di schierarsi, di scegliere una volta per tutte tra ciò che è giusto e ciò che conviene.
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Note
[1] Din-dlon! Annuncio importante. Non me ne vogliano eventuali appassionati di fumetti supereroistici che passassero di qui, ma il riferimento univoco agli universi cinematografici di Marvel e DC è dettato da due ragioni, una più semplice dell’altra: 1) l’entità del raggio di azione dei film Marvel e DC, in termini di rapporto tra la velocità di diffusione della materia, la mole planetaria di pubblico raggiunto a tale velocità, e il conseguente impatto sulla cultura popolare; 2) i fumetti supereroistici non sono argomento di questo pezzo.
[2] Da non confondere con ἔρως (éros), amore, desiderio, da cui la trafila di “erotico”, “erotismo” ecc.
[3] Lettera dalla pronuncia variabile in uno spettro compreso tra [w] – la “u” di uovo –, [β] – la “b” molto lenita dello spagnolo –, e [v] – la “v” di volume.
[4] Wu Ming 4, L’eroe imperfetto, Milano, Bompiani, 2022 (nuova edizione riveduta e ampliata), p. 10.
[5] Ivi, p. 13.
[6] Ivi, p. 12.
[7] Definita ὕβϱις (hýbris), tracotanza.
[8] Di questo non si parla nel trittico di Wu Ming 4, ma trovo che la materia virgiliana sarebbe un bel gancio per un approfondimenti, chi lo sa, per un nuovo ampliamento di L’eroe imperfetto, fra un’altra dozzina d’anni.
[9] Wu Ming 4, L’eroe imperfetto, cit., p. 12.
[10] Slender as the willow-wand, clearer than the water.
[11] Caratteristico della letteratura classica greca l’associazione di qualità esteriori positive (bellezza e prestanza) con qualità morali altrettanto positive, concetto sintetizzato nella parola καλοκαγαθία (kalokagathìa), termine che nasce dalla crasi fra le parole καλὸς καὶ ἀγαθός (kalòs kai agathòs), “bello e buono”, intesi come sublimazione delle più alte qualità fisiche e morali. Così gli eroi e le eroine sono belli, gentili e virtuosi (Baccador, Galadriel, Éowyn ), mentre i nemici sono orribili d’aspetto, crudeli, vili e spregevoli (gli Orchi, Orchetti, Goblin, Uruk-hai, Troll…).
[12] I miti nordici, Milano, Longanesi, 1991.