La trama del buio
Su Nottuario di Thomas Ligotti
(Dis)Incanto
Il demonico, l’oscuro, così come il divino, non nascono dalla natura, piuttosto ne derivano, e lo fanno nella misura in cui l’essere umano interpreta certe configurazioni che il mondo esteriore assume: eventi o processi apparentemente incomprensibili e ingiustificabili con l’esperienza – vuoi perché assente, vuoi perché troppo ridotta e non replicabile – sono stati imputati a una dimensione ulteriore. Nel passato, quando l’uomo non è stato in grado di decifrare la natura, ne ha dedotto che se da una parte non possedeva i mezzi per comprenderla, dall’altra non avrebbe potuto averne ragione in ogni caso, perché era qualcosa di superiore (soprannaturale, appunto) a regolarla.
La scienza e il metodo sperimentale occupano sulla linea del tempo della storia umana la minima parte. Approssimando con generosità l’inizio della scienza moderna al 1500 genericamente inteso e immaginando i trecentomila anni dalla comparsa dell’Homo Sapiens in qua come un sentiero lungo un chilometro, ecco che il sapere moderno rappresenta poco più dell’ultimo metro e mezzo di percorso. Sì e no quattro passi…
È dunque da relativamente poco che diamo per scontato il fatto che quando spegniamo la luce gli oggetti intorno a noi restano esattamente dove sono, malgrado non possiamo vederli; o che tuoni e fulmini non sono opera di qualche dio arrabbiato, ma il risultato di interazioni atmosferiche misurabili. In ogni caso, anche quando ci imbattiamo in dinamiche troppo complesse per essere comprese da chi per esempio non abbia studi specialistici alle spalle, sappiamo che una spiegazione c’è; e quando non c’è, sappiamo che qualcuno la sta cercando, applicando il metodo scientifico e non affidandosi agli oracoli o a metodi aruspicini.
Bene, tutto questo è ovvio, ma lo è per noi oggi; ciononostante, ancora nell’essere umano contemporaneo sopravvive un retaggio antico, lo stesso che ha prodotto pantheon e culti in tutto il mondo, cioè la fame – un appetito bulimico, a dire il vero – di risposte (chi non corre a compulsare Wikipedia appena realizza di non sapere chi, quando e perché abbia fatto, detto o scritto certe cose?).
Coltivare mostri
Oggi l’oscurità e il mistero sono oggetto di ricerca: non fanno più parte del nostro quotidiano, e quando ne sentiamo la mancanza siamo costretti a metterci sulle loro tracce, non sono più loro a venire da noi. Le città sono perennemente illuminate, il ciclo di alba e tramonto non scandisce più le giornate, che iniziano e finiscono a orari convenzionali; il silenzio sembra essere merce ancora più rara del buio: c’è sempre una voce, una musica, un borbottio meccanico o un fruscio elettrostatico a tenerci compagnia, a distrarci. Eppure intimamente continuiamo a sentire il bisogno di oscurità e di quiete, di un luogo in cui ciascuno possa tornare a coltivare i propri mostri, a fronteggiarli o ad avvertirli in agguato, nascosti nelle tenebre. Un luogo dove dare forma ed elaborare la paura, misurarsi con il senso di irrealtà e di immaterialità che permea il nostro mondo interiore.
Esiste un posto dove questo può accadere, un luogo metafisico senza porte né serrature, dove ci si ritrova in compagnia soltanto di ciò che si è portato con sé. Ma dove si trova? Come raggiungerlo? Come è fatto? Difficile indicare la strada per un posto simile, e anche descriverlo è piuttosto arduo: come quelle piccole costellazioni che si intravedono con la coda dell’occhio ma al fissarvi lo sguardo scompaiono alla vista, così questo luogo non si può osservare direttamente. Qualcosa a riguardo, però, è stato detto lo stesso.
Mappare le tenebre
In tal senso, Nottuario, di Thomas Ligotti, è assimilabile a una mappa di questo spazio di mezzo; ogni pagina è come un foglio trasparente di celluloide sul quale l’autore imprime una sezione di questo luogo oscuro che i suoi racconti cercano di catturare; pagina dopo pagina – come lucidi impilati a rivelare una figura composita –, la geografia degli spazi, delle celle, delle cantine, delle torri, delle biblioteche, delle strade si manifesta e rende un’immagine via via più accurata di ciò che è l’oscurità, delle entità che la popolano, di come si muovono e di cosa vogliono da noi…
Ventotto racconti in cui la tenebra, il mistero, l’orrore scaturiscono non dal mondo esteriore, ma dalla mente dell’uomo, dal suo intrattenersi nella dimensione onirica più del consentito, dal suo frequentare le creature del buio con sciocca disinvoltura, dalla sua cupidigia, dalle sue ossessioni e dalle sue ambizioni più nascoste.
Ciò che non si è detto è che le ombre generate dalla nostra mente non sono marionette né semplici accidenti inanimati destinati a dissolversi; una volta nate, sono cosa viva, e ciò che è vivo vuole vivere, spesso anche a discapito di altri. La letteratura del mistero ci aiuta a identificare le zone oscure in cui quelle ombre sono venute al mondo e brulicano, aspettando, camuffandosi; il lume del raziocinio non può altro che scacciarle momentaneamente, ma prima o poi torneranno ad assieparsi in un angolo della nostra immaginazione e, da lì, a tessere la trama del buio, fatta di incubi e immaginifiche angosce.
Oppure, c’è anche la possibilità che l’ombra ci preceda, che appartenga a un altro mondo dai confini permeabili, che esista da tempo immemorabile e si serva di noi come terreno di coltura per altre ombre: ciò che accade in uno dei miei racconti preferiti della raccolta, L’angelo della signora Rinaldi, in cui la dimensione onirica è terreno di caccia di esseri ancestrali (i sogni stessi) dalla natura diremmo demoniaca, se solo appartenessero al nostro mondo metafisico. I sogni si cibano di noi, notte dopo notte, ci sottraggono la nostra potenziale immortalità, condannandoci a deperire e infine a morire. Ma secondo la signora Rinaldi la nostra vera natura sarebbe un’altra: senza i sogni a erodere la nostra essenza, potremmo perfezionarci fino a diventare esseri angelici, eterni e puri perché finalmente privi di pensiero e di passioni. Qualcosa di ben diverso da ciò che siamo abituati a pensare di noi stessi; una prospettiva che personalmente mi ha inquietato più dell’ombra che, a ogni sogno, si porterebbe via qualcosa di me.
Dunque, il buio è dentro noi, nasce da noi o vi si è installato. A prescindere da questo, resta vero che dal momento in cui si manifesta, esso non dipende più dalla nostra volontà, così come non abbiamo controllo su dove ci condurrà. Sapremo tutto – se sapremo – soltanto a cose fatte, perché non ci è data nemmeno la facoltà di accorgerci di quando sconfiniamo nell’altrove, o in quella che in Volti nuovi in città Ligotti chiama “la città mentitrice”.
Non si ha mai l’intenzione di arrivare in questo posto. La destinazione è sempre altrove. Soltanto quando la fine del viaggio è ormai vicina, forse troppo presto o per via di uno strano percorso, possono nascere dei sospetti.
A immaginarla come luogo mondano, metafora per un anfratto nascosto della mente o per la dimensione del sogno – così presente e pericolosa in Nottuario –, la città mentitrice appare come una qualsiasi città di cui possediamo il concetto, la matrice ideale. Dunque strade, edifici, monumenti: nulla sembra fuori posto. Ma è sufficiente intrattenersi per un po’ e inizieranno a manifestarsi le prime incongruenze, l’impostura si rivelerà da sé. A uno sguardo attento, anzi “scettico”, come scrive Ligotti, noteremo che i palazzi non sono altro che facciate posticce dietro alle quali non c’è nulla; strane figure simili a mucchi di stracci o fantocci si trascinano negli interstizi di buio fra le costruzioni, o giacciono in mezzo alla strada. Ma è tutto un grossolano artificio che non può ferirci, «Al momento» leggiamo «è il meglio che la città sappia fare.» Eppure è sciocco sperare di uscirne indenni: forse la città mentitrice non può trattenerci, ma d’altra parte il suo scopo è un altro, cioè gettare dentro di noi i semi dell’incertezza:
Soltanto dopo […] la vera minaccia si rende nota. E comincia quando ben noti dintorni ispirano, a volte, momenti di dubbio. Allora i luoghi si devono verificare, agli oggetti è chiesto di dimostrare la propria solidità […] In seguito vi sono intensi attacchi di sospetto che non si calmano, tutto sembra sul punto di svelare la propria irrealtà e di svanire nell’ombra…
Leggere Nottuario porta a fare esperienza dell’irreale. Questo racconto in particolare, Volti nuovi in città, forse il più terrificante, rende con magnifica vicinanza gli effetti della derealizzazione e della depersonalizzazione. Chi come me ha provato sulla propria pelle episodi di questi fenomeni sa bene cosa intendo. Azzarderei persino a dire che le atmosfere della raccolta afferiscono in maniera più o meno sotterranea all’ambito generale della distorsione psichica, a quell’ecosistema della nostra attività cerebrale a cui non abbiamo accesso diretto, ma che talvolta, a determinate condizioni, riusciamo a raggiungere. La paralisi del sonno e le relative allucinazioni visive e uditive sono un altro buon raffronto, e in molti sanno quanto esperienze simili possano essere terribili e a un tempo curiose.
In Nottuario, Ligotti ne propone una parafrasi narrativa in uno stile raffinato e che, pur tendendo al minimalismo, non si risparmia di esplorare i più diversi timbri e registri che offrono la lingua, la sintassi e il montaggio di un buon racconto del mistero, ricco di atmosfere sospese, non detti, contorni sfilacciati, spiegazioni mancate, contesti nebbiosi di cui, in maniera certo controintuitiva, è meglio sapere lo stretto indispensabile e nulla di più, per un’esperienza di lettura davvero appagante. E la meravigliosa traduzione italiana, di Luca Fusari, rende l’assistere a questo teatro delle ombre un viaggio difficile da dimenticare.