Spogliarsi di sé
e degli altri
Secondo Ermes la vita era una grande prigione a cielo aperto. La famiglia, la scuola, il lavoro, il matrimonio: tutte celle dello stesso grande panopticon da cui saremmo continuamente osservati, anche se non si capisce bene da chi. […] Mi raccontò lui di Cala Bruja. Della vita sulla spiaggia, di come lì nessuno provava a far prevalere la sua volontà su quella di un altro, di come l’unico tradimento riconosciuto da tutti era quello nei confronti della terra e del mare. Prima o poi sarei dovuto andare a vedere con i miei occhi.
Cala Bruja è una morgana, un miraggio sospeso da qualche parte nel deserto assediato dal sole di fine estate che arroventa l’Andalusia. È la meta di un viaggio senza piani o regole, se non quella di mettere la massima distanza fra sé e il mondo conosciuto, quindi scomodo e soffocante, come un vestito troppo stretto. Cala Bruja è il diaframma che Vanni e Daniel vogliono mettere fra un presente fatto di incognite continue e per questo desiderabili, e un passato più simile a un arenile in cui impantanarsi che a una rampa di lancio da cui prendere le mosse per l’avvenire. È così che la pensano e tanto basta questo disagio da spingerli a mollare tutto e partire per cercare un luogo in cui smettere i panni delle convenzioni, in favore della più autentica versione di sé stessi.
A piedi, in autostop, in pullman, dall’Italia, attraverso la Francia, fino ad approdare in Spagna, e quindi giù per l’autopista del Mediterráneo, attraverso Barcellona, Valencia, Alicante, il deserto di Tabernas… Vanni e Daniel non hanno niente con sé, niente del vecchio mondo, della vecchia vita, se non il minimo indispensabile (una tenda cerata, sacchi a pelo, utensili per cucinare) e una chitarra e un tamburello, con cui intrattenere i passanti e guadagnarsi qualche soldo.
Oltre a questo, naturalmente, la reciproca compagnia, che nella dimensione del viaggio si trasforma in una mutualità insistita, pervasiva, morbosa, quasi una fusione che scioglie e rimescola i confini del sé, e abbatte le rispettive autonomie. Vanni dipende da Daniel tanto quanto Daniel dipende da lui, non sono un duo, sono un’entità bicefala e bipolare, una cellula entro la cui membrana si agitano due nuclei che non si riconoscono e credono – chissà quanto a ragione – che recidere i legami con tutto sia una buona strategia per mettere in risalto i confini personali e riuscire così a stagliarsi sull’orizzonte di un mondo che entrambi rifiutano. Vanni e Daniel risaltano, sì, ma come sagome di cartone in controluce: contorni piatti alla ricerca di una terza dimensione (l’affrancamento) per esistere davvero.
Cala Bruja è il luogo magico in cui trovarla, questa dimensione, è il centro delle rovine circolari in cui, demiurghi di sé stessi, i due ragazzi possono riprogettarsi, plasmarsi di nuovo in una seconda nascita, ma stavolta non più in funzione della società che li ha masticati e rigurgitati, bensì in un rapporto autentico con la natura, propria e in senso lato. Eppure…
Eppure ben presto si accorgono che, per quanto il mondo sia vasto, per quanto Cala Bruja sia lontana da tutto, si sono trincerati in un recinto troppo angusto. Nel contesto paradisiaco della spiaggia tanto agognata, fra corpi nudi, sessualità spinta e promiscua, assenza di regole se non il rispetto reciproco, trip allucinogeni e concerti intorno al fuoco, ecco che appare vivido agli occhi di Vanni e Daniel un ultimo legame superstite da recidere: il loro. È un cordone spesso e improvvisamente doloroso, che rivela come l’apparente parità dei due protagonisti sia sempre stata insidiata da una subdola gerarchia, figlia di complessi di inferiorità, dipendenza emotiva, sentimenti di lealtà tradita ed esclusività svenduta. Sulla sabbia di Cala Bruja, i corpi di Vanni e Daniel – involucri in fuga, come titola il romanzo, e svuotati di tutto per essere riempiti da chissà cos’altro – sono corpi estranei capitati in un ecosistema nuovo a cui è bene adattarsi se non si vuole esserne espulsi. Ma per adattarsi, ognuno deve giocare in solitaria: le differenze, prima adombrate forse dall’ambizione comune di raggiungere la meta desiderata o forse davvero trascurabili, ora affiorano in maniera prepotente; le individualità reclamano di manifestarsi e non è detto che siano compatibili con il nuovo teatro in cui dovranno agire. Così il mediocre e insospettabile Vanni – quello che riesce a suonare la chitarra e a cantare in pubblico solo se ha la faccia coperta da una maschera, quello che da sempre viene trascinato dall’esuberanza cosmopolita di Daniel – riesce a ricavarsi la propria nicchia nello stesso humus che all’amico si presenta sempre più impermeabile e ostile. Anzi, di più: Cala Bruja gli si attaglia come un abito di sartoria – paradossale, dal momento che su quella rena vige il nudismo –, la gente intorno a lui lo guarda con simpatia, mentre su Daniel cala sempre più fitta l’ombra del sospetto e della diffidenza. Accade così che l’amicizia di sempre si costella di gelosie, le esistenze divergono, la ragione e l’introspezione degradano in sentimenti di violenza e sopraffazione…
Qualcuno ha definito La fuga dei corpi un romanzo di formazione. Io trovo sia esattamente l’opposto: quando all’amico fraterno è permesso valicare un confine che all’altro resta impedito, se non addirittura vietato, ecco che il sentimento reciproco si incrina. Nell’escluso sopraggiungono invidia e frustrazione; nell’incluso si desta un sentimento di superiorità morale, la fuga prospettica del suo sguardo si acuisce, tutt’a un tratto diventa vertiginosa e anche ciò che era vicino appare improvvisamente lontano, piccolo e deviato. La fuga dei corpi è un romanzo di progressivo smarrimento, di perdita e decostruzione, in cui a partire da una romantica ingenuità da “bohémien on the road”, i paladini di questa avventura picaresca, a cavallo di un ideale di libertà più simile a un Ronzinante che a un Pegaso, si spogliano di un pezzo della loro armatura a ogni tappa. Lentamente la corazza si smonta, fino a lasciare scoperta la carne, libera finalmente di abbrustolirsi al sole mediterraneo, ma anche vulnerabile alle concupiscenze più oscure, alle violenze, alle bassezze e alle crudeltà che quelle convenzioni da cui Vanni e Daniel tentano di fuggire non sopprimono, ma solo tengono al laccio.