Prima di cominciare
Questo è l’ultimo di quattro appuntamenti sulla storia e sull’evoluzione della poesia haiku.
Se non l’hai ancora fatto, ti invito a recuperare i primi tre ai seguenti link:
Hiaku – Anatomia di un genere #1 – (non)Senso e fantasmagorie
Haiku – Anatomia di un genere #2 – Paesaggi alieni
Haiku – Anatomia di un genere #3 – L’effimero e l’eterno
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L’eretico e il santo
[…] non c’è quasi nessuno che capisca davvero lo haikai di Bashō – e se anche qualcuno arriva a capirlo, non c’è traccia di qualcuno che provi a criticarlo. Così ci si comporta proprio come i fedeli di un credo che non comprendono il significato dei testi sacri, che non distinguono ciò che ha senso da ciò che non ne ha, e che pensano solo a ripetere «rendiamo grazie» o «sempre sia lodato».[1]
Se dunque non tanto ci si oppone al culto, ma si affonda lo stiletto della critica nelle sue faglie aperte, allora si è eretici, cioè si compie la scelta di deviare dal solco. E se così è, allora Masaoka Shiki è un eretico, perché ha osato – tra l’altro solo e primo dopo duecento anni – analizzare le ragioni del tempio che la letteratura ha edificato al kami degli haiku Matsuo Bashō tributando onori indiscriminati alla sua poesia, senza soffermarsi a considerarla di per sé stessa e non come emanazione della divinità. Chi erano, dunque, e cosa hanno rappresentato per la poesia haiku le figure fondamentali di Shiki e Bashō? Scopriamolo in quest’ultima tappa del nostro viaggio.
Shiki (子規)

Masaoka Shiki (fotografia, 1900)
Masaoka Tsunenori nasce il 14 ottobre 1867 a Matsuyama e muore a Tokyo il 19 settembre 1902, all’età di soli trentaquattro anni, per via di una tubercolosi diagnosticatagli a ventidue, in ragione della quale assume lo pseudonimo di Shiki (cuculo): secondo un’antica leggenda giapponese il cuculo canterebbe fino a farsi sanguinare la gola; allo stesso modo, Shiki tossisce sangue a causa della malattia. Nella sua breve vita si rivela un precoce scrittore e appena adolescente copia a mano ogni singolo esemplare di una rivista letteraria che distribuisce insieme ai suoi amici. Avido di conoscenza, dopo anni di studi sotto il precettorato del nonno materno, nel 1883 si trasferisce a Tokyo, dove frequenta il liceo e, dal 1890, la facoltà di Letteratura giapponese. La seconda metà del XIX secolo è un periodo di grandi rivolgimenti per il Giappone. La restaurazione Meiji apre all’Occidente, che filtra nelle maglie della cultura nipponica. Nell’ambiente letterario giapponese il concetto stesso di letteratura come categoria che racchiuda ogni opera scritta, la inserisca in un genere e renda possibile lo sviluppo di un impianto teorico che ne definisca e descriva i modi, le forme e i significati, è una novità occidentale. In questo cratere ribollente di influssi patrii e forestieri, Shiki decide di dedicarsi alla poesia, e in particolare alla teoria e al rinnovamento dello haiku e del tanka, che privilegia per la loro estrema brevità, anche in virtù dell’importante lettura dell’opera Philosphy of style (1852) di Herbert Spencer, in cui si legge, fra i tanti, un passo illuminante:
Per quanto riguarda il linguaggio inteso come apparato di simboli deputato alla trasmissione del pensiero, potremmo dire che, come in un apparato meccanico, più semplici e meglio organizzate sono le sue parti, maggiore sarà il suo effetto.
Shiki matura la consapevolezza che la poesia giapponese debba essere riformata: lo haiku e il tanka, sentiti come generi ormai datati e improduttivi, devono invece poter essere annoverati a pieno diritto nella letteratura e riacquistare la loro dignità letteraria:
non è un caso che proprio in epoca Meiji […] i tanti generi praticati fino alla fine dell’epoca Edo [1868] (la poesia cinese, il teatro kabuki o quello delle marionette, lo haikai e il tanka, la prosa di intrattenimento) debbano improvvisamente dimostrare di poter essere alla pari con un dramma di Shakespeare, o con il romanzo ottocentesco, se vogliono avere una qualche chance di sopravvivenza.[2]
Il primo passo è fondare una teoria dello haiku, analizzandone le ragioni storiche, formali e contenutistiche. Sarà lo stesso Shiki a coniare la parola haiku (俳句) con il significato di “verso scherzoso” – contrazione della più estesa espressione haikai no ku (俳諧の句 “verso di un poema a carattere scherzoso”) – per riferirsi allo hokku, il “verso d’esordio” di una renga. Sempre di Shiki è la paternità dell’espressione tanka (短歌, “poesia breve”) in luogo della più antica waka (和歌, “poesia giapponese”). Perché un rinnovamento sia possibile, è poi necessario distaccarsi dall’antichità, o quantomeno cominciare a osservarla in prospettiva, con occhio critico, senza indulgere in dogmi intrinsecamente antiletterari: se la produzione di un autore è eccellente a priori solo perché tale autore è un’istituzione, allora niente della sua opera è davvero eccellente. È il paradosso degli estremismi: di qualsiasi colore pretendano di essere, scivolano senza scampo in un grigio indistinto.
Matsuo Bashō (松尾芭蕉)

Ritratto di Bashō, opera di Ogawa Haritsu (1738)
Matsuo Bashō (noto da bambino col nome di Kinsaku) nasce a Ueno nel 1644. Suo padre, Matsuo Yonzaemon, un modesto samurai, morì precocemente nel 1656. In quanto figlio della casta guerriera, Bashō è indirizzato alla carriera militare e presto, assunto il nome samurai Munefusa, entra al servizio di Todo Yoshitada, figlio del capo dei samurai di Ueno e di soli due anni più vecchio di lui. Entrambi si dilettano nella scrittura di haiku ed è proprio Yoshitada a introdurre Bashō a questa pratica; per di più lo stretto legame con il ragazzo permette a Bashō di diventare allievo del grande studioso e poeta Kitamura Kigin, già maestro di Yoshitada. Quando però nel 1666 l’amico muore, Bashō rimette il proprio incarico al servizio della famiglia Todo e si dedica a una vita ritirata per coltivare la poesia. Nel 1672 si trasferisce a Edo (l’odierna Tokyo) dove inizia a farsi conoscere negli ambienti letterari come poeta e stimato maestro di haiku. A quel tempo usa farsi chiamare con il nome d’arte di Tosei (桃青, “pesca verde” o “pesca acerba”); il nome Bashō, che lo accompagnerà fino alla fine della sua vita e poi ancora nella storia della letteratura, arriva solo intorno al 1680, quando il poeta riceve in dono da un suo allievo un banano (芭蕉, bashō appunto) che pianterà nei pressi della sua capanna poco fuori Edo, a Fukagawa (oggi quartiere di Tokyo). È in questi anni che Bashō inizia a studiare e a praticare lo Zen. Non manca molto all’inizio del suo romitaggio: nel 1682 un incendio brucia la capitale e distrugge anche la sua capanna. Da quel momento, in povertà e vivendo solo di elemosina, Bashō peregrina per tutto il Giappone, alla ricerca di un affinamento poetico che distilli la perfezione dalla forma dello haiku. Se da una parte la dura vita da eremita errante contribuisce a iscriverlo nella leggenda, dall’altra esige un caro prezzo: il corpo di Bashō è presto logorato e così le sue forze, tanto che, colto da una febbre improvvisa, il maestro si spegne a Ōsaka nel 1694, a soli cinquant’anni. Che cosa resta di lui? La sua poesia naturalmente, e la sua grandezza come sommo poeta di haiku al quale, nella storia, si affiancano solo altri tre poeti, che però, contrariamente a lui, non godettero di grande fama in vita: Yosa Buson, Kobayashi Issa e Masaoka Shiki.
Bashō zōdan (芭蕉雑談)

Masaoka Shiki, Bashō zōdan. Bashō in frammenti, Milano, La Vita Felice, 2017
Ma come dicevamo, di Bashō rimane anche e soprattutto il culto. I suoi discepoli e in generale i contemporanei lo trattavano con i riguardi dovuti a un santo, e lo stesso è stato fatto dopo la sua morte nei confronti della sua poesia: eccellente – anzi, di più – esemplare a prescindere.
Così ampia è questa virtù, che essa arriva a tutti e a ciascuno nello stesso modo, come il calore del sole; ed è tanto vasta e abbondante che in essa c’è spazio per tutto e tutti, come nell’oceano.[3]
È in questi termini che Shiki parla del carisma di Bashō in un suo frammento critico uscito sul quotidiano Nihon (日本) nel 1893; frammento che, insieme ad altri ventiquattro, raccoglierà sotto il titolo di Bashō zōdan, traducibile come “Chiacchiere su Bashō”, dove zōdan (雑談) indica un discorso frivolo, non curato, o una miscellanea disordinata e poco organica, una sorta di zibaldone. È con i suoi frammenti, dalle pagine del Nihon, che Shiki si addentra per primo nella critica a una divinità dello haiku come Bashō, al quale, fuor di metafora, i seguaci dedicavano altari o sale di templi buddhisti. Ma una precisazione va fatta, per evitare fraintendimenti: il duro esame di Shiki desta scalpore per il suo abbrivio, quasi un atto di blasfemia, ma si sviluppa poi in una lucida disamina della poesia del maestro, perché, in sostanza, non è Bashō a essere alla sbarra, bensì l’assenza di critica da parte di discepoli, estimatori, seguaci e veri e propri fedeli che si sono accostati alla sua opera, spesso senza capirla. Ad ogni modo, Shiki non accorda morbidezze di giudizio: sui più di mille ku scritti da Bashō nel corso dell’intera vita, afferma, «quelli appena decenti saranno più o meno duecento». Uno a cinque può sembrare un buon rapporto, alla luce del fatto che la produzione di mille ku è esorbitante, anche nel corso di trent’anni di carriera. Eppure c’è un altro aspetto niente affatto secondario da tenere in conto e su cui è bene interrogarsi: quali sono i buoni ku e quali invece quelli da scartare?
«Versi scadenti»
Ebbene, tra i «versi scadenti» Shiki annovera l’haiku storicamente e unanimemente considerato il più alto che Bashō abbia mai scritto (e quindi che sia mai stato scritto, in generale): il celeberrimo ku del vecchio stagno.
蛙飛び込む
水の音
kawazu tobikomu
mizu no oto
una rana si tuffa
rumore d’acqua
Già all’epoca della sua composizione, questo ku era considerato, dice Shiki, «la reliquia più preziosa» del maestro Bashō. Non solo: i contemporanei ritenevano che con questa poesia Bashō avesse raggiunto il satori (悟り), letteralmente “comprensione”, ovvero l’illuminazione della pratica Zen, una sorta di risveglio spirituale che, nel caso di uno haijin, porta il poeta a immedesimarsi totalmente nell’oggetto che osserva per comprenderlo al massimo grado di profondità. Bashō compone questa poesia intorno al 1686, a Fukagawa, dopo avervi fatto ritorno l’anno precedente, al rientro da uno dei suoi numerosi viaggi. È ancora alla ricerca di uno stile personale che possa trascendere il tempo e affermare la sua poesia nella storia, ed è con la composizione di questo haiku che inaugura il cosiddetto shōfū (蕉風) o “stile di Bashō”, che alcuni fra i suoi seguaci, con un certo gusto per il calembour, ribattezzeranno shōfū (正風) o “giusto stile”, parola omofona ma – fondamentale! – non omografa della precedente. Se infatti la prima unisce il secondo kanji del nome Bashō (蕉, shō appunto) a fū (風, letteralmente “vento”, ma anche “corrente” e quindi, in senso figurato, “stile”), la seconda unisce i caratteri 正 (shō, “vero”, “corretto”, “esatto” o ancora “giusto”) e il già citato fū (風), dando origine al significato antonomasico di “giusto stile” o “vero stile”, perché dal ku del vecchio stagno in poi, la maniera più propria per comporre haiku diventa quella del maestro Bashō. Ma quali sono le sue caratteristiche?
Lo Zen ha una parte preponderante nella definizione dello shōfū: il principio secondo il quale è necessario tagliare i legami, che per loro natura impediscono i movimenti (intellettuali), e di «mettere a riposo i diecimila fatti del mondo», ovvero allontanarsi dalla mondanità e dal contingente, porta il maestro a un progressivo distacco da tutto ciò che è superfluo, per arrivare a distillare nelle diciassette more di uno haiku la quiddità del fenomeno a cui si accenna in L’effimero e l’eterno e che Shiki definisce, nel suo frammento, ari no mama (ありのまま), la “condizione dell’esistenza”, corrispondente al concetto buddhista di Tathātā, “la vera natura delle cose”. Un aneddoto sulla storia compositiva del ku del vecchio stagno rivela con chiarezza questo aspetto: la rana si è già tuffata e il rumore dell’acqua è già stato udito, ma Bashō non riesce a trovare un verso d’esordio. Un suo allievo, Takarai Kikaku, gli suggerisce di iniziare con “Fiori di kerria”, ma il maestro non accoglie la sua proposta perché poco coerente e soprattutto aggiungerebbe un inutile artificio a una poesia che ha espresso compiutamente il proprio significato nei due versi già scritti. Sopraggiunge allora l’idea del “vecchio stagno”: nient’altro che un luogo in cui ambientare l’azione. Togliere, togliere e ancora togliere: oltre al necessario, nulla deve restare, per non invalidare la ricerca della verità poetica (o makoto, 誠).
Alla luce di tutto questo, Shiki rileva che intorno ai versi più alti e famosi di Bashō non si sia mai detto nulla di concreto: che cosa contenga di valido questo haiku, si chiede; ma soprattutto ha un valore? I timidi avventurieri del commento, che in ogni caso si sono sempre tenuti sull’orbita più esterna della questione senza mai approfondire, si sono divisi in due scuole: chi venera come sacre queste diciassette more e vede in esse la sintesi della eccelsa maestria di Bashō, e chi pensa che non ci sia nulla da dire su di esse, che valgano come tante altre e che non brillino di una qualche luce particolare. La posizione di Shiki, invece, è alquanto netta:
Ecco la mia idea: credo che questo ku sia al di là del bene e del male, appartenga a un ambito diverso da quello di ciò che è “giusto” e “sbagliato” e sia difficile rapportarlo a criteri come buono o cattivo. […] Di fondo, per la storia dello haikai non c’è nulla di necessario quanto questo ku; letterariamente però, esso non è poi così indispensabile. Nelle Raccolte di Bashō ci sono altri ku lontani dal buono e dal cattivo, dall’abile e dal goffo come questo? Io credo che non ne troveremmo nemmeno uno. Anche se il ku con cui Bashō ha raggiunto il risveglio del proprio vero stile fosse proprio questo, un oggetto letterario non può certo essere sempre così piatto e semplice: esso ha bisogno anche di una certa inventiva tecnica, di un tocco di colore.[4]
La critica dei «versi scadenti» prosegue con una decina di ku molto noti, per lo meno in patria; ma è quando ipotizza di estendere la sua analisi a poesie assai meno famose (di cui cita un campione), che Shiki cala uno degli affondi più duri, e proprio in apertura di una nuova rosa di versi:
Se prendiamo dei ku che non sono così famosi e proviamo a sottoporli a una simile critica, viene addirittura il dubbio che la collezione di poesia di Bashō sia un immondezzaio fatto per lo più di ku mal riusciti. [5]
E in chiusura della sua selezione:
I ku come questi sono innumerevoli. […] Se veramente Bashō ci avesse lasciato solo questi, dovremmo prendercela con chi li ha voluti raccogliere.[6]
«Buoni ku»
Pur impietoso nel giudizio verso ciò che la massa di fedeli di Bashō giudica di valore, se non sacro, Shiki non arresta la sua lettura critica alla sola contestazione, per quanto motivata. Riconosce al contrario l’apporto fondamentale di Bashō alla letteratura giapponese moderna, per esempio nel colmare un’importante lacuna che, rispetto ad altre, la letteratura nipponica soffriva maggiormente, cioè l’assenza di un afflato grandioso, epico o meglio eroico, che dopo il Man’yoshu (万葉集, “Raccolta di diecimila foglie”)[7] si perde. È proprio Bashō a colmare questo vuoto, attraverso la forma breve dello haiku, che acquista per la prima volta i toni maestosi della poesia epica e restituisce un senso di grandezza che Shiki tenta di cogliere in una selezione di «ku eroici», appunto, dei quali voglio proporre un piccolo saggio:
兵どもの
夢の跡
tsuwamonodomo no
yume no ato
dei guerrieri
le tracce dei sogni
佐渡に横とう
天の川
Sado ni yokotou
amanogawa
adagiata sull’isola di Sado
la Via Lattea
石は浅間の
野分かな
ishi wa Asama no
nowaki kana
le pietre del monte Asama
tifone d’autunno
A questa prima categoria degna di menzione Shiki ne aggiunge altre e numerose. Come si è detto – ma è bene ribadirlo – la sua intenzione non è quella di avversare Bashō, per il quale, malgrado un inizio acceso e una generale mancanza di condiscendenza, nutre un profondo e genuino rispetto; lo scopo dei suoi frammenti è fornire una guida analitica che permetta in primo luogo di iscrivere Bashō nella categoria “autori” in un sistema “letteratura” che possa confrontarsi e competere con l’Occidente, e in seconda battuta di proporre ai lettori, giapponesi e gaijin (外人, “forestieri”), una prima impronta di sistematizzazione teorica e critica che faciliti l’approccio e migliori la comprensione delle opere di un pilastro imprescindibile della cultura nipponica. Shiki, dunque, individua ku pregni del misticismo dello yūgen (幽玄) o “profondo mistero”:
奈良には古き
仏たち
Nara ni wa furuki
hotoketachi
a Nara antiche
figure del Buddha
… haiku la cui arte definisce «sottilissima»:
泥にしたるる
潮干かな
doro ni shidaruru
shiohi kana
si china sul fango
bassa marea
… haiku caratterizzati dal karei (華麗) o “splendore”:
薄紫の
芽独活かな
usumurasaki no
me udo kana
di un porpora tenue
germogli d’aralia
… haiku eccentrici:
餅に糞する
縁の先
mochi ni fun suru
en no saki
Sulla soglia della veranda
caca sul mochi
… haiku che definisce «comici»:
竃の崩れより
かよいけり
hetsui no kuzure yori
kayoikeri
sopra una stufa fatiscente
fa avanti e indietro
… haiku «dalla bellezza raccolta»:
桃に米ふむ
男かな
momo ni kome fumu
otoko kana
tra i peschi un uomo
pesta il riso
夜寒に落て
旅寝かな
yosamu ni ochite
tabine kana
cade nel gelo della notte
dormo in viaggio
Bashō passa molta parte della sua vita in cammino. Il romitaggio diventa condizione esistenziale e bacino da cui attingere materia poetica, caratterizzata da un vivido realismo e dalla consueta attenzione ai fenomeni naturali:
馬の尿する
枕もと
uma no shitosuru
makura moto
un cavallo che piscia
accanto al cuscino
音や霰の
檜木笠
oto ya arare no
hinokigasa
il rumore della grandine
sul cappello di cipresso
Potrei continuare all’infinito: l’opera di Bashō è sterminata e rappresenta il punto più lontano a cui si è spinta la poesia haiku. Nessuno, nemmeno coloro che si sono avvicinati quasi al pari di lui – come Issa o Buson – lo ha mai superato. Pur nelle sue imperfezioni che nulla contengono della divinità attribuitagli da qualcuno, Bashō rimane la stella polare della letteratura haiku, non solo all’epoca di Shiki, ma anche ora, a centotrent’anni dai frammenti di Bashō zōdan. Dunque è davvero eresia addentrarsi nella critica ai suoi testi? Non è forse un atto «criminale», come ipotizza lo stesso Shiki in un retorico contraddittorio? Non c’è forse il rischio di distruggere il nome stesso del kami insieme ai paramenti del suo culto?
… se parliamo di quei fedeli del bashōismo secondo cui Bashō è un dio, la sua poesia è una composizione divina, e lo haikai coincide tutto con lui, allora io sono pronto a profanare questa opinione – questa autorità divina. Ma considerare Bashō come un letterato, lo haiku come letteratura, e avere una prospettiva letteraria mentre lo si critica non è altro che questo.[8]
おわり
Owari
Fine
*
Note
[1] Masaoka Shiki, Bashō Zōdan. Bashō in frammenti (ed. it. a cura di Lorenzo Marinucci), Milano, La Vita Felice, 2017, p. 32.
[2] Lorenzo Marinucci, “Come uno haiku. Breve vita poetica di Masaoka Shiki”, ivi, p. 12.
[3] Ivi, p. 34.
[4] Ivi, p. 50.
[5] Ivi, pp. 62.
[6] Ivi, p. 64.
[7] La più estesa raccolta di waka, compilata intorno all’VIII secolo. Comprende 4496 testi composti tra il V e l’VIII secolo. Il numero diecimila (万, man) del titolo è da intendersi in accezione iperbolica, a indicare una quantità grande e insieme generica.
[8] Masaoka Shiki, cit., p. 99.
Mondi paralleli
- Leonardo Arena(a cura di), Al profumo dei pruni. L’armonia e l’incanto degli haiku giapponesi, Milano, Rizzoli, 1995
- Elena dal Pra (a cura di), Il fiore della poesia giapponese da Bashōall’Ottocento, Milano, Mondadori, 1998
- Masaoka Shiki, Bashōzōdan. Bashō in frammenti, a cura di Lorenzo Marinucci, Milano, La Vita Felice, 2017
- Angela Urbano, “Dai canti degli dei allo splendore della poesia di corte”, in Rivista internazionale di cultura poetica, nuova serie, anno II, n. 7, maggio/giugno 2021, Milano, Crocetti Editore, pp. 43-45; segue l’articolo, alle pp. 46-60, una selezione di poesia giapponese tratta da Edoardo Gerlini (a cura di), Antologia di poesia giapponese, vol. 1. Dai canti degli dei allo splendore della poesia di corte (VIII-XII sec.), Venezia, Marsilio, 2021