Everyman di Philip Roth
A morire s’impara da vivi
Era semplicemente impossibile che le cose prendessero quella piega.
L’ingenuo stupore del protagonista di Everyman di fronte alla propria caducità ci accomuna tutti. Viviamo le nostre vite facendo progetti, proiettati al futuro, e anche quando escogitiamo artifici che ci sopravvivano – come un romanzo, per esempio – spesso non stiamo davvero pensando alla morte: nell’immaginarci un futuro postumo alla nostra dipartita ci mettiamo nella posizione dello spettatore, imbastiamo un esperimento mentale in cui esploriamo alcune delle infinite configurazioni del mondo senza di noi, eppure in quelle stesse rappresentazioni, eccoci lì, un po’ discosti dalla scena principale, privi di linee di dialogo, dimessi e non a fuoco, ma ci siamo; e per il solo fatto di essere noi a produrre quell’ipotesi di mondo, l’esperimento è fallito in partenza.
Quando però la coscienza della morte ci raggiunge davvero e riusciamo, sorpresi dall’angoscia o per caparbio esercizio intellettuale, a figurarci l’oggettivo scenario della nostra sparizione, privo di sovrastrutture, di immaginari filacci di trama che continuano ad agitarsi nel vento, allora ci sentiamo beffati, traditi da un qualche destino o dal nostro stesso corpo che da qualche parte deve (deve!) avere stampigliata una data di scadenza – deve esserci scritto, perché non riusciamo a rassegnarci al fatto di non avere più il controllo, di esserci avvicinati così pericolosamente alla linea dell’orizzonte senza avvedercene. Con che forza abbiamo ignorato che prima o poi sarebbe arrivata la fine? Con che coraggio abbiamo costruito e costruito, sapendo che, senza possibilità di appello, presto o tardi avremmo dovuto separarci dal frutto dei nostri sforzi?
Il protagonista di Everyman è morto. Il romanzo si apre con il suo funerale e i discorsi impostati di chi gli ha voluto bene nonostante tutto. Non è stato un uomo particolare e, ora che non c’è più, ha aggiunto alla lista delle “ordinarietà” anche la più frequente e condivisa. Ha avuto una vita piena, una carriera, tre mogli, diverse amanti (un paio delle quali hanno fatto parte per un po’ della categoria precedente), e figli, naturalmente. Non si è comportato bene: con ognuna delle persone che lo hanno amato si può dire che abbia un debito morale o affettivo; non è stato un buon padre né un buon marito… Ma è stato un ottimo disegnatore pubblicitario, un buon amico e un buon fratello minore: in maniera quasi inspiegabile non ha mai odiato Howie, da sempre più in gamba, più in salute sebbene più vecchio, più ricco e forse, per tutto questo, anche più felice di lui.
Per tutta la vita, Everyman ha convissuto con il fantasma della morte, della fine, dell’oblio, del nulla… Una prospettiva di dissipazione che fin da bambino è stata il punto di fuga della sua esistenza, benché lui facesse di tutto per focalizzare l’attenzione su ciò che incontrava lungo il cammino e non sulla fine della strada. Nei suoi ricordi nemmeno la spiaggia della sua infanzia regala un momento di sollievo: su quella rena, negli anni Quaranta, vede il suo primo cadavere, un soldato tedesco morto durante la guerra e il cui corpo le correnti hanno trascinato proprio lì, davanti ai suoi occhi. Né, anni dopo, le passeggiate sulla costa lo sottraggono ai pensieri più oscuri:
La nera marea che saliva con il suo rombo solenne e il cielo ricolmo di stelle mandavano in estasi Phoebe, ma spaventavano lui. La profusione di stelle gli diceva senza ambiguità che era destinato a morire, e il rombo del mare ad appena qualche metro di distanza – e l’incubo del buio più buio che esista sotto la turbolenza dell’acqua – gli faceva venir voglia di sottrarsi alla minaccia dell’oblio con la fuga nella loro casa semivuota…
E non è solo questa forma di tetro sublime ad affliggerlo, ma contingenze ben più concrete: la fallacia, la fragilità e l’inaffidabilità del corpo che lentamente decade. Everyman ha cinque anni in meno di Howie, ma alle spalle numerosi interventi per migliorare il suo cuore imperfetto e le sue arterie facili all’occlusione.
La coscienza della propria mortalità lo sfiora da bambino, in ospedale, nell’attesa di essere operato a un’ernia, e poi durante la convalescenza: c’è un ragazzo nel letto accanto a lui, avrà più o meno la sua età, undici anni appena. Non si può morire a undici anni. Non si può e basta. Eppure quel ragazzo ha l’aria di chi non vincerà la propria battaglia: la triste profezia si realizza ed Everyman bambino comprende che il “non si può morire a undici anni” non è una legge dell’universo, ma soltanto un tenero auspicio. Anni più tardi, è una peritonite, che lo riporta in ospedale, a svegliarlo del tutto: in quel momento il corpo di Everyman svela il suo tradimento e dichiara che gli metterà i bastoni tra le ruote per tutto il resto della vita.
Finché la vecchiaia non arriva e con essa prende il via una stagione contemplativa, si acquietano gli ultimi echi della giovinezza sopravvissuti nella maturità, e si torna indietro nel tempo con il pensiero, alle diverse età della propria esistenza. Everyman cerca una media fra l’estremo cristallino dell’infanzia, in cui i diamanti (che il padre commerciava) nel nitore della loro inscalfibilità incarnano la vita dal punto di vista di chi ancora non può che immaginarla; dall’altra parte, nella vecchiaia, ovvero nel presente, si aggira in un mondo a stento riconoscibile, in cui i punti di riferimento (amici e affetti) vengono meno uno dopo l’altro, mentre prolungare il proprio tempo diventa ogni giorno più faticoso. A un certo punto neanche l’arte, su cui Everyman ha fondato una carriera, è in grado di tenere insieme i frammenti di un’esistenza in disfacimento e di allontanarne i fantasmi:
Era come se la pittura fosse stata un esorcismo. Ma destinata a espellere quale spirito maligno? La più antica delle sue illusioni? O si era messo a dipingere per cercare di liberarsi della consapevolezza che si nasce per vivere e invece si muore? Tutt’a un tratto si era perso nel nulla, nel suono delle due sillabe di «nulla» non meno che nel nulla come inesistenza e inutilità, si era perso e andava alla deriva, e cominciava ad avere paura.
O ancora:
… dopo cena cercava di leggere qualcosa. Aveva una biblioteca di grossi libri d’arte che riempivano una parete dello studio; li aveva accumulati e studiati per tutta la vita, ma non poteva più sedersi nella sua poltrona da lettura e voltare le pagine di un libro senza sentirsi ridicolo. L’illusione – come ormai la chiamava, aveva perso il suo potere su di lui, e così i libri non facevano altro che ingigantire la sensazione di essere un dilettante irrimediabilmente comico e la vanità dell’impresa alla quale aveva dedicato il tempo del suo pensionamento.
La «miseria dei suoi limiti», fisici, esistenziali, affettivi, è schiacciante, ed Everyman muore senza sapere che morirà, come spesso succede. Se ne va sotto i ferri durante l’ennesimo intervento a un’arteria, senza aver ricomposto le storture del passato, che negli ultimi anni sono venute a bussare alla sua porta.
Everyman esce nel 2006, e nel 2007 viene pubblicato anche in Italia. Appartiene alla senilità di Philip Roth, che però, al contrario del suo protagonista (come lui nato nel 1933), non ha esaurito la propria vitalità, anche artistica. Seguiranno infatti altri quattro romanzi, uno all’anno, fino al 2010; ma Everyman più di tutti riflette sulla fine con un’amarezza che regala alle sue 120 pagine scarne una rara densità (e pesantezza, aggiungerei, di quando in quando). Ho letto troppa poca critica sull’autore per dire se e quante tracce di autofinzione contenga questo racconto, se il rappresentare la vecchiaia con questa tavolozza buia sia, se non un travaso diretto, quantomeno un riflesso dell’intimità intellettuale di Roth ormai al suo autunno. Ho letto però alcune recensioni: chi afferma che il romanzo parli della vita, chi sostiene che sia una parabola pregna di disincanto sulla sorte di ognuno di noi (… ma il senso del titolo mi sembrava talmente ovvio da sorvolare sulla questione). No, Everyman parla semplicemente della morte. Non so cosa non sia chiaro nell’incipit funebre, negli insistiti riferimenti all’angoscia del protagonista per il “nulla” che lo attenderebbe dopo la vita, nel lungo dialogo con il becchino sul mestiere della sepoltura, nella morte stessa del protagonista… Questo romanzo parla della morte e di uno dei percorsi possibili che possiamo scegliere per arrivarci, ovvero della superficialità, dell’irrisolto, dell’egoismo e della pervicace impreparazione all’inevitabile di cui possiamo essere vittime. Questo romanzo ci dice che a morire s’impara da vivi, che la morte dovrebbe essere l’ultimo traguardo; e tuttavia Everyman è morto ben prima di arrivare in vista della meta finale, nel momento in cui si è arreso al terrore della fine, dell’«entrare nel nulla senza nemmeno saperlo. Proprio come aveva temuto dal principio».