Christelle Daboh?
Uno sguardo perplesso alla “regina” del fantasy francese
Detesto l’approssimazione.
Non tanto il retorico vapor d’acqua di una certa scrittura che voglia fare la preziosa; intendo più precisamente il fare le cose coi piedi, un tanto al chilo, alla “va’ là che vai bene”, come si dice. Lo detesto negli altri e lo detesto prim’ancora in me stesso. Sia chiaro: anch’io come molti ho i cassetti pieni di mezze pagine di mezzi romanzi o di mezze poesie, e le detesto tutte. Ma proprio in virtù di questo resteranno lì dove sono.
Altri, invece, più intraprendenti, sul vago e sul raffazzonato riescono a costruire una qualche fama, se non addirittura una carriera. E poco importa se questa assenza di labor limae sia programmatica o figlia di un certo lassismo: nel migliore dei casi ci troveremmo davanti un completo dilettante; nel peggiore, qualcuno di insincero che pensa ai suoi lettori come a oche da giardino pronte a ingollare di tutto.
Non ho ancora deciso a quale delle due categorie si accosti Christelle Dabos: di norma, preferisco pensare male e pentirmene piuttosto che pensare bene e rimpiangerlo, quindi propenderei per la seconda. Ma la verità è che ci sto ancora pensando su.
Di sicuro c’è che i suoi romanzi hanno avuto un ottimo successo di pubblico: un’Ansa di maggio 2023 mi informa che la tetralogia dell’Attraversaspecchi ha venduto 500mila copie solo in Italia, che ora saranno anche di più. Da Robinson del luglio successivo apprendo che la serie vanta 13 milioni di visualizzazioni su BookTok, qualunque cosa voglia dire.
Cifre invidiabili, che hanno tutto a che fare con i libri in quanto merce, e nulla con i libri in quanto libri. A noi, però, interessano i secondi, vero?
Bene, perché dopo aver letto un paio di volte l’intera saga dell’Attraversaspecchi e aver appena terminato Qui, solo qui, non riesco ancora a spiegarmi l’entusiasmo intorno al fenomeno Christelle Dabos.
L’Attraversaspecchi
Quando esce in Italia Fidanzati dell’inverno, il primo volume della tetralogia, è l’illustrazione in copertina – squisita, come le altre – a incuriosirmi e farmi sorvolare sull’orrendo titolo da romanzo rosa per quindicenni. L’idea, pur con tutti i crismi di uno young adult qualunque, mi solletica: l’ambientazione mi sembra di insolita freschezza per questo genere: un mondo finito in pezzi, ventuno “arche” galleggianti nell’etere, ciascuna governata da uno spirito famigliare, antenato comune a tutti gli abitanti e donatore di poteri particolari. Il matrimonio politico (da cui il titolo) di Ofelia con Thorn, l’algido principe dell’arca Polo, sconquassata dai complessi e conflittuali rapporti tra clan; un sistema sociale raccontato in maniera credibile nella sua intrinseca ostilità al diritto e alla civile convivenza. La condizione di Ofelia, considerata straniera in terra straniera, futura sposa e futura madre dei figli di Thorn, null’altro. Della buona creta, insomma.
Lo stesso posso dire del secondo volume, Gli scomparsi di Chiardiluna, di cui a suo tempo ho apprezzato l’innesto di trama investigativa, nonché il leggero miglioramento nella scelta del titolo – che resta, ahimè, terribilmente didascalico, senza però la forza di traino di un impianto narrativo come quello di Harry Potter, per restare in tema di titoli di servizio.
Poi, con il terzo capitolo, qualcosa si rompe.
Dopo anni di lavoro su libri di esordienti totali – tra cui molti esordienti alla scrittura, non solo alla pubblicazione –, a leggere La memoria di Babel mi sembra di riconoscere tra le righe il demone più insidioso di tutti: mancanza di progettazione, assenza di idee chiare. O forse vedo mostri anche dove non ci sono e quello dell’autrice è solo un aver preso male le misure. Fatto sta che La memoria di Babel è un inciampo, da qualunque punto di vista lo si voglia vedere.
Dabos prende la curiosa decisione di ampliare il materiale narrativo in maniera che, già lo si assapora, farà deragliare la storia verso sentieri sconnessi e pendenze scriteriate. Per la prima volta, i personaggi si spostano altrove all’interno dell’universo narrativo; per la prima volta conosciamo un’arca diversa tra le ventuno teorizzate nel primo volume[1], fra le quali avevamo nozione soltanto di Anima e Polo. Ebbene: eccoci ora su Babel. Qui si aggirano facce nuove con cui instaurare nuovi rapporti; esploriamo luoghi sconosciuti e apprendiamo ulteriori segreti da aggiungere al bagaglio che ci trasciniamo dietro da 1200 pagine e del quale inizia a essere dolce l’idea di liberarsi passando ad altre letture.
Tanto erano netti i contorni dell’universo narrativo dei primi due volumi, tanto si fanno confusi in questo terzo libro, che procede per accumulo e regala poche rivelazioni, dal tenore flemmatico e di cui si prende atto senza particolare partecipazione.
A questo punto, ancora ignari della conclusione, potremmo sospendere il giudizio su La memoria di Babel o ritenerlo provvisoriamente una sorta di interludio, e credere con forza che tutte le addizioni con cui ci ha rintronato Dabos siano necessarie a preparare acme e scioglimento della vicenda nella conclusione della saga.
Ma il quarto e ultimo libro, Echi in tempesta, non è che una fastidiosa conferma dei nostri presagi: l’architettura non si tiene più, tutto è fuori controllo, e l’avventura dell’Attraversaspecchi si arena in una sorta di padule, dove per la gran parte del tempo galleggia in balia di una bonaccia narrativa. E quando sembra che pochi refoli di narrazione tornino a soffiare, ecco il racconto presentarsi nella sciatta veste di ragguaglio: il che significa per noi lettori subire lunghe sinossi che dicono, sì, quello che ci preme sapere, ma lo fanno nello stesso modo in cui un soldato farebbe rapporto al suo superiore. Il racconto non c’è, c’è solo uno sciorinare la materia che andrebbe raccontata.
Si aggiunga che i filacci di trama ereditati dai volumi precedenti sono molti e tutti da risolvere. È in questa precisa circostanza che il potenziale passo falso del terzo libro si rivela un errore effettivo: La memoria di Babel è un libro sostanzialmente inutile che ingarbuglia la trama e rende impossibile per Dabos produrre un finale soddisfacente in Echi in tempesta. Le soluzioni ai problemi principali diventano complicati arabeschi che tentano di trovare un’uscita dal labirinto che l’autrice si è costruita intorno con le sue stesse mani, e per forza di cose risultano affrettate imposture, spiattellate così, alla buona, perché a un certo punto una risposta al lettore bisogna pur darla.
Approssimazione. Ecco che cosa intendo.
Qui, solo qui
***Allerta spoiler***
Archiviato il capitolo Attraversaspecchi, ho pensato che non avrei fatto ulteriori concessioni all’autrice. Immaginavo, dato il successo per me ingiustificato, che la solfa andasse avanti con una trilogia di prequel, una mezza dozzina di spin-off, libri illustrati, pop-up, guide, sketch-book (questo in effetti era in omaggio col quarto libro), film, serie TV eccetera. Forse arriveranno, mai dire mai.
Intanto, però, nell’estate 2023 Dabos se ne esce con Qui, solo qui, un romanzo che non ha nulla a che fare con la precedente saga e che è (sia lode) un lavoro autoconclusivo.
Guardo sempre con molta simpatia a chi avvia un progetto che già in principio contempla una data di scadenza, perché mettere in preventivo che una storia farà il suo corso in un’unica soluzione e senza strascichi è sintomo di maturità creativa; a certi livelli di notorietà, peraltro, significa privilegiare le ragioni dell’arte a quelle del portafoglio. E poi perché la serialità obbligata ha un po’ rotto le scatole.
Dicevamo: Qui, solo qui non ha niente a che fare con l’Attraversaspecchi, e meno male. È un romanzo piuttosto breve, il che farebbe pensare a qualcosa di narrativamente compatto, essenziale; insomma, Dabos avrà fatto due conti e avrà stabilito che questa è la forma più congeniale alla sua nuova storia.
Sarà… Ma allora c’è qualcosa che non funziona nella sua capacità di raccontare.
Sì, perché Qui, solo qui suggerisce un’idea – tutt’altro che appagante – di abbozzo. Una sequela di capitoli che assomigliano più a canovacci e appunti che a vere e proprie articolazioni della storia. Personaggi anonimi, trasparenti, a cui si cerca di dare una caratterizzazione peculiare, ma che, al di là dell’essere questo un ragazzo e quella una ragazza, non si differenziano poi molto, se non per quello che capita loro.
La trama
In soldoni: assistiamo alla terribile quotidianità di quattro adolescenti in una scuola media qualunque di una qualunque periferia francese. I nuovi studenti, così come i veterani, sono sottoposti a feroci e assurdi atti di bullismo da parte dei compagni. Il corpo docente non alza un dito per dare una regola alla situazione e si rivela di un’ingiustificata inettitudine davanti a una manciata di preadolescenti che si comportano come reduci di riformatorio. In tutto ciò, si verificano fenomeni paranormali senza motivo, e una presunta fine del mondo, che non si capirà mai in cosa consista, si annuncia all’orizzonte.
L’inspiegabile e l’inspiegato
Leggo in rete che i fenomeni paranormali cui ho accennato sarebbero un’iperbole delle difficoltà quotidiane che un preadolescente deve affrontare, una sorta di allegoria dello scotto che il diventare grandi esige da tutti noi. L’intero romanzo sarebbe una bizzarra metafora del momento più delicato della vita di ciascuno. E l’idea può anche andare. Ciò che non va è come ci viene presentata. Una ragazza sparisce, un’altra manifesta strani poteri sciamanici, uno studente ammazza un compagno e viene assillato dal suo spettro, i banchi si spostano da soli, strane orme di scarpe costellano il soffitto, una sostanza di origine misteriosa causerà l’apocalisse e così via… Al di là del panneggio simbolico, figurato, metaforico (chiamatelo come vi pare), tutte queste cose hanno risvolti diegetici concreti. In altre parole, succedono per davvero, ma sempre senza una ragione plausibile, il che, nientemeno, tradisce il patto narrativo.
Iris, la più giovane dei protagonisti, è appena approdata al collège[2] dalle elementari e teme di non essere vista, di rimanere emarginata, al punto da accodarsi a un combriccola di bulle e voltare le spalle al suo amico Émile. Per contrappasso, diventa invisibile: una presenza prigioniera della scuola, che vede e sente tutto, ma che all’improvviso sembra non essere mai esistita. Nessuno vede o sente lei, né se ne ricorda. Manco sua madre. Iris sparisce per davvero, non è una metafora di chissà che. Ma non se ne coglie il motivo. È una punizione? Sembrerebbe. Ma chi l’ha stabilito? Chi fa le regole in questa scuola? Quale forza la governa? Mistero.
Pierre è quello che dalle mie parti chiameremmo un sottone: non ha qualità, non ha carattere, non ha personalità, uno zerbino insomma. Nel collège è un “dispari”, cioè uno che non ha un compagno di banco, quindi un reietto. Ma perché? In base a quale principio? Per non rispondere, Dabos si rifugia nel regolamento interno e tribale dei marmocchi che infestano la scuola, e tanto ci basti. “Qui al collège, noi facciamo così” sembrano dire. Comunque sia, il giovane Pierre, in preda a una fulminante sindrome di Stoccolma, si invaghisce talmente tanto del suo ruolo di sacco da boxe della classe, da eliminare qualsiasi cosa possa minacciare il suo miserabile status, e ciò comporta l’uccidere il solo compagno che abbia mostrato un briciolo di empatia nei suoi confronti. E vederne il fantasma, naturalmente.
Madeleine è in contatto con un’entità miracolosa in grado di esaudire i desideri dei postulanti, e che non si sa se esista o meno. Forse no. Forse è sempre stata lei, Madeleine, l’entità. Ma allora come si spiegano i miracoli? Facile, non si spiegano, e così come Willy il Coyote cade nel vuoto solo quando guarda di sotto, anche i prodigi della ragazzina svaniscono nel momento in cui realizza di non essere una santona. Boh?
Poi c’è Guy, un ragazzo popolare a cui viene assegnata come compagna di banco una studentessa nuova, la misteriosa Sophie, imperturbabile e refrattaria ai princìpi che regolano la vita all’interno del collège. Grazie alla sua vicinanza, Guy capirà cosa è davvero importante. Il più credibile di tutti.
La narrazione rimbalza da un personaggio all’altro, i quattro principali più qualche comparsa a cui si accenna appena. Tassello dopo tassello capiamo come funzionano le cose in questo delirante istituto, ma quello che sfugge è sempre il senso: perché accadono questi eventi così particolari? Perché i professori lasciano correre le nefandezze dei loro allievi? Perché a dei preadolescenti è stato permesso un tale grado di libertà e autogestione? È forse un tentativo di sintonizzare Golding sulle frequenze della Gen Z?
Poco o nulla viene chiarito.
Il ripiego dell’interpretazione
Qualche romantico recensore elogia questa posa del lasciare l’interpretazione al lettore. Di contro sembrerebbe che un raccontare meno approssimativo, più “didascalico”, attiri il lettore pigro, che non ha voglia di sforzarsi e ha bisogno di spiegazioni a ogni piè sospinto. Eppure io dico che funziona all’esatto contrario: la pigrizia sta nel rinunciare alla definizione dei contorni di un mondo letterario, o ancora meglio nell’usare scientemente questa dissolvenza come grimaldello “artistico” da una parte e come sornione ammiccamento al lettore dall’altra. Lettore che, da parte sua, dovrebbe sdilinquire nell’ammirazione di una simile capacità narrativa.
Io non ci sto: non mi interessa rattoppare con l’interpretazione i buchi di una storia che non funziona. Se ci sono buchi nel tessuto del racconto, siano considerati difetti, non simpatici spazi vuoti da colorare.
Ciascuno ha, com’è naturale, le proprie idee, i propri pregiudizi, le proprie credenze. Ottimo. Quando io leggo, però, non cerco riscontro, ma qualcosa che riesca a fare attrito con le mie sovrastrutture, che riesca a insinuarsi in me, a mettere alla prova il mio meccanismo interiore tanto da costringermi a guardarci dentro per verificare se c’è qualche corpo estraneo (potenzialmente anche benigno e da integrare in buona simbiosi. Avete presente la storia dei mitocondri?) o se è il meccanismo in sé ad avere qualcosa che valga la pena di riconsiderare. Quando si innesca, questo processo mi obbliga all’esercizio critico, ed è sempre un bene: che tutto in me cambi o che tutto resti com’è, alla fine ne saprò la ragione e avrò strumenti nuovi o più affinati e precisi per leggere il mondo. Altro che pigrizia.
Pigro semmai rischia di essere quel lettore che plaude a facilonerie come Qui, solo qui, in cui non c’è nulla che smuova quel meccanismo, ma solo un ampio spazio vuoto dedicato all’“interpretazione”, dove comodamente travasare la propria visione senza che dentro di noi si sposti una foglia.
Tante, troppe cose sono lasciate a sé stesse: che cos’è la sostanza bianca che sgorga dai rubinetti della scuola? Perché il fenomeno si verifica proprio alle 14:28? Chi è la persona con cui la supplente non vede l’ora di parlare al telefono? Come può il leggendario “studente al contrario” essere la versione passata della supplente e convivere con lei nel presente? Che cos’è l’entità con cui parla Madeleine? Come fa Iris a diventare invisibile? Come può il “principe”, un quattordicenne come gli altri, avere facoltà di vita e di morte sui suoi compagni? Come è possibile che i professori si sottomettano a questa specie di dittatura minorile?
Niente è credibile, tutto sembra appena accennato e poi lasciato alla pagina, tanto è una metafora che qualcuno interpreterà.
Più che un’allegoria dell’adolescenza, Qui, solo qui mi sembra un esercizio da scuoletta di scrittura creativa, che se sei Christelle Dabos puoi far passare per romanzo compiuto.
Da qualche parte ho letto persino che il racconto racchiuderebbe una critica al sistema scolastico francese. E in quale punto, vorrei sapere. Perché se una classe di sbarbatelli decide di pestare a sangue un compagno o di estrarre dei coltelli a serramanico in aula, è subito ovvio che la scuola perda colpi, ma appare pretestuoso additare l’istituto. Mi soffermerei piuttosto sul retroterra di tali sbandati, sulla loro psicologia, indagherei sulle loro famiglie, sul loro quotidiano e sui loro traumi. Una scuola, magica o meno che sia, potrà essere solo il teatro in cui tanta ricchezza di disagio trova il suo sfogo.
Linguaggio
C’è un altro aspetto che mi ha lasciato perplesso e che rientra sempre nel grande perimetro dell’approssimazione: l’uso del linguaggio. Ma farò una precisazione: senza imbeccate, non avrei avuto niente da dire, perché è un fatto che non ci sia niente da dire al riguardo. Il linguaggio di questo romanzo è per lo più adeguato, privo di guizzi, strumentale, fa il suo lavoro e morta lì. Nulla per cui entusiasmarsi, né di sicuro un faro di stile.
Ma capisco il fervore di chi il libro lo deve vendere:
Il linguaggio è straordinario, il gergo dei ragazzi, immaginifico e spesso trucido, riprodotto con una vivacità impressionante, lo strumento attraverso il quale gli adolescenti marcano il loro territorio.
Questo si legge nella descrizione ufficiale che accompagna il volume sul sito dell’editore e su tutti i negozi online.
E poi ancora, in un paio di strilli esemplari comparsi in un articolo promozionale del Libraio:
Tra realtà e finzione, magia e turpiloquio, l’atteso ritorno in libreria di Christelle Dabos.
E ancora
Con Qui, solo Qui, l’autrice mostra un lato diverso della sua narrazione, resa più inquieta e scurrile, proprio come potrebbe essere un adolescente.
Eppure tutta questa enfasi mi pare immotivata. D’accordo, il “turpiloquio” c’è, ma se avete letto il romanzo vi sarete accorti che la trivialità di Dabos ha lo stesso nerbo di un’educanda che fuma di nascosto. Niente di straordinario, immaginifico o trucido, ma una tenera e scialba successione di (cito dal libro) “fottutamente”, “cazzo”, “coglione”, “minchia”, “sono troppo coglione”, “cazzo di merda”, “fottuto cazzo di merda del culo del cazzo”. Se poi volessimo uscire dalla trasgressiva efflorescenza di falli e sterco, troveremmo uno slang da padri canossiani, sul tenore di “bro”, “magheggi”, “sbracato”, “la becco”, “a bestia”, nonché lo stucchevole “fare le zozzerie”, tipica espressione degli adolescenti più sboccati.
Io ricordo bene il periodo delle medie. Ricordo le cose che dicevamo e il modo in cui le dicevamo a dodici anni: con cognizione di causa o per il solo desiderio di trasgredire le regole di genitori e insegnanti che ci bacchettavano sulle parolacce, davamo sfogo alla fantasia in maniere ben più ardite di un “fottuto cazzo di merda del culo del cazzo”, che non è nulla se non l’elementare assemblaggio di qualche parolina sguaiata.
*
E insomma, questo è ciò che volevo dire su Christelle Dabos, salita alla ribalta con un’idea potenzialmente buona ma che non ha saputo gestire (narrativamente parlando). Il pubblico però è dalla sua, e questo è sufficiente a spiegare l’esistenza di Qui, solo qui dopo l’icario precipizio dell’Attraversaspecchi.
Alla prossima!
*
Note
[1] Sono tante, tantissime, e altrettanto inutili, dato che l’autrice ce ne fa vedere qualcuna di sfuggita.
[2] Istituto analogo alle nostre scuole medie. A differenza di queste, dura quattro anni e non tre, a cui seguono quattro anni (e non cinque) di scuole superiori.