«Cerco l’uomo!»
Su I miei stupidi intenti di Bernardo Zannoni
Cosa ci rende umani? Me lo chiedo perché non è poi così tanto scontato che lo siamo a priori. Certo, la tassonomia ci soccorre: genere Homo, parola da cui deriviamo l’aggettivo humanus, e il gioco pare fatto. Eppure non tutto può risolversi nella semantica, anche perché sarebbe un approccio del tutto arbitrario… No, bisogna interrogarsi meglio, lambiccarsi, scervellarsi… Ecco: forse umana è quella cosa che si pone domande, oppure – restando aderenti all’etimo che vuole l’essere homo nascere dall’humus, cioè dalla terra – umana è quella cosa che “scava” per trovare risposte alle proprie domande. Se le cose stessero davvero in questo modo, allora umano sarebbe chiunque si domandi chi o cosa sia, da dove venga, dove stia andando, perché faccia ciò che fa, quando morirà, che cosa resterà nel mondo dopo il suo passaggio…
A metterla così, si può ben dire che anche Archy è umano. Ma Archy, protagonista di I miei stupidi intenti, romanzo d’esordio di Bernardo Zannoni, è una faina, o meglio è anche una faina.
Appena nato, Archy resta orfano di padre, ucciso da un uomo per aver rubato delle galline. La madre, disperata, anaffettiva, persino crudele, si occupa dei suoi piccoli con livore e risentimento per essere stata abbandonata dal marito. Nella cucciolata, Leroy è il maschio più forte e in salute: dalla sua prima prova di caccia torna alla tana con un corvo come bottino; Archy ammira e al contempo invidia la sua forza, perciò decide che non sarà da meno. Tuttavia, nel suo primo cimento, cade dall’alto di un ramo, si rompe una zampa e rimane zoppo. La sua ferita lo rende un peso per la famiglia, una bocca da sfamare che non può contribuire in nulla; quindi la madre, senza troppi scrupoli, lo vende come garzone a Solomon l’usuraio, una vecchia volpe che concede risorse dietro pagamento e che si avvale del massiccio cane Gioele come agente di recupero crediti.
Archy, costretto ad abbandonare la sua casa e a rinunciare per sempre all’amore che nutre per sua sorella Louise, inizia una nuova vita fatta di lavoro e fatica, in cui i pochi attimi liberi sono allagati dal dolore per ciò che ha perso. Ma Solomon non è una volpe come tutte le altre, lui è un uomo. O per lo meno si considera tale, perché ha scoperto Dio, ha letto la sua parola su un oggetto degli uomini chiamato libro, una pila di fogli pieni di segni che Archy non comprende ma dai quali, assicura la volpe, a saperli interpretare si può apprendere la verità. E la verità è Dio. E Dio dice che l’uomo verrà salvato. Che Solomon verrà salvato.
La volpe decide di insegnare ad Archy a leggere, così che possa comprendere anche lui la parola di Dio, e il potere della parola dischiuderà nella mente della faina nuove prospettive, vaste, difficili e dolorose.
Questo l’avvio di I miei stupidi intenti, la storia di una faina che ha imparato a leggere e a scrivere, a diventare umana, una favola che vuole costruire una scala verso il profondo dell’animo di un protagonista curioso, combattuto tra la sua radice animale e la spinta verso una condizione più elevata. Con questo, non voglio stabilire una gerarchia morale tra uomo e animale; resta però il dato evidente che la condizione umana pone gli esseri che ne partecipano su un gradino più alto degli altri, in virtù dell’autocoscienza che li caratterizza. E questa autocoscienza deriva in gran parte dalla parola, che permette di mettere in dialogo (o in conflitto) i concetti per ricavarne di nuovi, derivarne di più semplici o di più complessi, dal portato più innocuo fino all’agnizione paralizzante. Archy diventa umano perché attraverso la parola accede a una dimensione esistenziale superiore – ma non per forza migliore – in cui l’individuo comincia a percepirsi come tale, ad avvertire la propria autonomia rispetto a ciò che lo circonda e la potenzialità di influenzare un meccanismo che prima gli era invisibile poiché vi era immerso e alle cui leggi doveva sottostare: amare nella stagione prestabilita, per esempio, o vegliare la notte e dormire di giorno (le faine sono animali notturni)… Una sudditanza alle oscillazioni ormonali, all’alternanza di buio e di luce, e delle stagioni, alla vita insensibile al tempo che passa e in cui la morte è rifuggita per istinto, ma sulla quale non ci si ferma a riflettere… Una sudditanza che Archy scardina fin da subito: vive di giorno e dorme di notte, ama nonostante la stagione sia passata, la lettura lo porta a concretizzare il nebuloso concetto di tempo nell’accezione a noi più familiare di scadenza, termine, arrivo, e quello della morte come dimensione opposta a quella sensibile dell’esistenza, difficile se non impossibile da scandagliare, un orizzonte degli eventi che genera in risposta una brama gravitazionale di conoscere, forse per esorcizzare la paura di svanire.
«Sento che la vita non mi abbandona. Voglio fuggire, scappare lontano e vivere per sempre»
Parole di Archy, come se la morte fosse un luogo evitabile, una pratica da cui potersi astenere, qualcosa con cui poter essere in disaccordo. Il credo di Solomon, la speranza di essere salvato, la fede nell’avere un’anima immortale non sono di alcun conforto ad Archy, che per tutta la vita si aggrappa ai gesti e ai luoghi che ne hanno segnato la parte più importante, significativa e terrena: l’apprendistato al soldo della volpe.
Però non tutto annega nell’angoscia esistenziale: all’interno di questa dicotomia nero-bianco, acceso-spento, vivo-morto, che cinicamente rende tutto vacuo e irrimediabilmente transitorio, la giovane faina scopre che esiste qualcos’altro: la finzione, il romanzo, l’eternità. Solomon non possiede solo la Bibbia; in realtà nasconde qualcos’altro, un tesoro parimenti prezioso per lui, il libro delle sue memorie. E quando la volpe trova alcune pagine scritte da Archy che, come il suo maestro, ma in segreto e con amore, ha riversato i suoi pensieri sulla carta, la faina viene investita del ruolo di scrivano e dovrà riscrivere le memorie di Solomon l’usuraio con lo stesso amore che ha infuso nelle proprie, ma soprattutto adattandole stavolta all’immagine che il vecchio vorrebbe avere di sé. Un vero e proprio atto di revisionismo dove alla volpe bandita, usuraia e sanguinaria, si sostituisce una volpe umana.
L’abilità che Solomon, pur senza volerlo, trasmette ad Archy è quella squisitamente umana della proiezione: l’immaginare sé stessi in un futuro lontano, ben oltre la propria morte, l’esercizio di osservare l’ipotetico mondo del domani e cercarvi tracce di sé. Che cosa sarà rimasto? Che immagine avranno gli altri di me? Da ciò, il disperato tentativo di controllare l’incontrollabile, influenzare il ricordo di sé (chiamiamolo, romanticamente, la vita dopo la morte) attraverso le parole. Quale creatura potrebbe spingersi a tanto? Quale creatura desidera l’eternità, in una forma o nell’altra, per non sparire, per far sì che non sia stato tutto inutile, che ogni gioia e ogni dolore non siano stati fini a sé stessi, se non l’uomo?
I miei stupidi intenti è un romanzo semplice sotto molti aspetti: la prosa asciutta e paratattica, quasi da telegramma; lo stile piano, livellato, senza guizzi peculiari (il che non è per forza un difetto, ma alla lunga appiattisce l’insieme), un intreccio intimista, senza un vero e proprio climax (a dispetto della crudeltà di alcune scene). I suoi punti di forza risiedono altrove, nello specifico nella sua natura “lamellare”, che permette di sfogliare concettualmente la storia, velo dopo velo, in una discesa che non è un precipizio nella catastrofe del cambiamento, ma una continua presa di coscienza, un calarsi e atterrare su uno sperone, per poi calarsi ancora, atterrare nuovamente, prepararsi a scendere un altro po’. I temi portanti sono però complessi e forse trattati in maniera un po’ troppo ingenua, superficiale, il che lascia intravedere una certa sproporzione tra l’ambizione dell’autore e il risultato finale, e delega molto dello scavo al lettore più che alla narrazione. In definitiva, un buon preludio, non certo esente da difetti, a un roseo futuro letterario.
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Una postilla finale sullo strillo che leggo in quarta di copertina. Lo scrittore Marco Missiroli, con un trasporto che trovo retoricamente enfatico, esclama
«… leggetelo, leggete questo romanzo in stato di grazia.»
Va da sé che l’ortolano non dirà mai dei propri cavoli che sono guasti, e ci mancherebbe altro. L’editore avrà puntato su un’opinione che fosse lusinghiera e (percepita come) autorevole allo stesso tempo; ma, ancor di più se provengono da un autore generalmente apprezzato come Missiroli, mi aspetto che le parole vengano dosate con più cura. Nonostante abbia vinto il Premio Campiello 2022 (chapeu!), I miei stupidi intenti non è un «romanzo in stato di grazia». Se così fosse, dovremmo considerare molti altri libri semplicemente ineffabili e avremmo finito di parlarne prima ancora di cominciare. Va bene spingere con il marketing, ma eviterei l’uso di incensi troppo forti e, soprattutto, se si è davvero apprezzata quest’opera, lascerei all’autore il più ampio margine di miglioramento possibile, senza metterlo fin da subito ai ceppi del suo primo lavoro.